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Il bacio di uno sconosciuto
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Il bacio di uno sconosciuto
E-book399 pagine5 ore

Il bacio di uno sconosciuto

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Info su questo ebook

Romanzo storico-romantico. La storia si sviluppa in Scozia, nel castello di Kildrummy, a metà del 1800. La Duchessa Katherine Conway è l’erede universale del patrimonio paterno, ma la matrigna, estromessa del testamento, vuole che la ragazza sposi il suo amante banchiere, sir Charles Horton. L’uomo è sull’orlo del fallimento e il denaro della figliastra risanerebbe i suoi debiti. Per evitare questo matrimonio obbligato, l’avvocato della duchessa commissiona ad un falsario un finto certificato di matrimonio, a nome di un inesistente Jean Boville. Malauguratamente alla porta del castello si presenta un giovane che afferma di essere questo fantomatico Jean Boville. Il reale scopo dell’uomo è trovare, all’interno del castello, un tesoro templare, la cui mappa è nelle sue mani, e più precisamente in un medaglione d’oro ritrovato accidentalmente a Ruad nel 1303. Il giovane viene alloggiato nella dependance, ma ottiene comunque il permesso dalla castellana d’ispezionare il cimitero e la chiesa appartenenti alla tenuta. Sfortunatamente questi luoghi sono stati incendiato alla fine del 1600 e Jean teme di non riuscire più a trovare il tesoro, mentre Katherine scopre che il marito è un evaso di prigione. Dopo un iniziale astio tra i due giovani inizia una certa attrazione. Assieme partono per Londra, per andare a festeggiare il compleanno della regina Vittoria. Durante questo soggiorno londinese la duchessa ritrova i suoi famigliari, furenti di rabbia. Tra Jean e Katy scoppia l’amore, ma lei sospetta che il giovane uomo abbia un’amante e lo rispedisce in Scozia. Mentre lui è in viaggio, deciso a dimenticare la giovane nobile e a riprendere le ricerche del suo tesoro, la duchessa viene avvelenata. Jean apprende la notizia riguardante l’attentato alla moglie attraverso un giornale e decide di tornare a Londra per indagare. Nel frattempo i primi sospetti ricadono proprio su di lui, ma...
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2014
ISBN9788869092046
Il bacio di uno sconosciuto

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    Il bacio di uno sconosciuto - Greta Simmons

    Il bacio di uno sconosciuto

    Greta Simmons

    UUID:44727328-b130-11e3-8ba7-27651bb94b2f

    Questo libro è stato realizzato con BackTypo

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Il bacio di uno sconosciuto

    Indice dei contenuti

    Antefatto

    1

    La locanda del Gabbiano

    2

    Il giorno seguente

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    Il giorno seguente

    10

    Buckingham Palace

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    In riva al fiume

    18

    19

    20

    21

    Epilogo

    Precisazioni

    Antefatto

    Ruad 1303

    Su di una collinetta rocciosa, sotto l’occhio attento del cane, cinque pecore si arrampicavano in cerca di cibo, mentre il padrone, un pastorello cencioso, riposava all’ombra di un platano. L’arido paesaggio degradava verso il mare, le onde, con le loro creste spumeggianti, s’infrangevano sulla spiaggia dorata, intanto, all’orizzonte, il sole calava scarlatto e fiammeggiante. L’oceano, piatto e luccicante, e la natura, calda e abbagliante, sembravano indifferenti alla tragedia che si era consumata qualche giorno prima.

    Per le strade della città si camminava letteralmente sul sangue; a ogni passo s’inciampava in qualche cadavere: Ruad era caduta.

    I passi di un giovane sul selciato rompevano il silenzio che dominava la città, un silenzio profondo, denso, che s’immetteva in qualsiasi vicolo. Si aveva quasi l’impressione che il silenzio si divertisse nel ritirarsi in ogni angolo, nell’estendersi su ogni strada, nell’avvolgersi attorno a ogni casa.

    Il giovane percorreva le vie della città morta senza una meta, senza un perché. Il più impercettibile rumore richiamava la sua attenzione e lo faceva rabbrividire di paura; allora, tremante, si rintanava dietro un muro e smetteva quasi di respirare. Tra quest’alternanza di panico e speranza gli tornò alla mente il sogno che la notte prima lo aveva quasi fatto morire di terrore: rivide il suo corpo ondeggiare mentre lo calavano nella fossa, udì il suono aspro prodotto dalla pala che raschia il terreno, percepì la terra gettata contro il sacco dove lui era racchiuso, avvertì i passi delle persone che calpestavano il luogo della sua sepoltura. Quell’angosciante sensazione di terrore assoluto si estese nuovamente per tutto il suo essere. Come uno spettatore si rivede putrefatto, con il viso devastato e i vermi che gli divorano le carni. Vide quegli esseri immondi frugarlo ovunque: uscirgli da un orecchio, annidarsi nell’orbita dell’occhio sinistro ed entrargli in una narice.

    Era ancora ben viva in lui la sensazione d’impotenza che aveva provato durante il sogno, quando si era reso conto di non riuscire a muoversi. In quegli attimi, infatti, il suo corpo non reagiva più ai comandi; lui sapeva di essere vivo con la mente, ma non con il corpo, ridotto oramai a un pezzo di carne fredda e putrescente. Era in grado di udire ogni rumore: i discorsi di coloro che lo tumulavano, o il biascicare dei vermi intenti a mangiarlo, ma il suo corpo era immobile. Un grido era dentro di lui, un grido mentale che nessun altro poteva udire.

    Nonostante fosse abituato ad affrontare il pericolo sapeva che, se non avesse trovato in tempo una soluzione, quel sogno si sarebbe tramutato in realtà.

    L’uomo, nel suo vagare, scorse, a qualche metro di distanza, il cadavere di un Templare; era privo di testa e il resto del corpo era in uno stato pietoso. Sicuramente i mamelucchi prima di ucciderlo l’avevano torturato.

    Il giovane si chinò sui resti del cavaliere, tutto a un tratto si batté la fronte con la mano e sulle sue labbra si delineò un sorriso spaventoso.

    Sapeva che i mamelucchi erano ormai padroni dell’isolotto, e che, dei templari che si erano salvati, solo alcuni sarebbero potuti tornare sul continente, poiché per gli altri si profilava la prigionia.

    Lui: un fantasma, un uomo privo d’identità, e quindi anche di un passato, non poteva certo mimetizzarsi fra i mussulmani. Indossare i panni del Templare? _ si domandò mentalmente. No, i mamelucchi avrebbero potuto ucciderlo o farlo prigioniero, e i Cavalieri di Cristo sopravvissuti alla strage si sarebbero subito resi conto dello scambio di persona.

    Sapeva, però, che quel corpo martoriato poteva tornargli utile.

    _ Guarda, guarda! _ disse a un tratto il giovane, chinandosi sul corpo con un moto di sorpresa _ Un medaglione!

    Il ragazzo prese la catenella fra le mani e si rese subito conto del valore, non solo sostanziale, dell’oggetto. Questi, infatti, recava la croce Templare, uno stemma nobiliare e la scritta Virtute duce, comite fortuna

    Il giovane si guardò attorno per assicurarsi che la strada fosse deserta: non si vedeva anima viva. Allora afferrò il corpo del Templare per i piedi e lo trascinò in una casetta diroccata. L’edificio, composto di due sole stanze, era crollato per metà; nell’angolo che volgeva ad est si scorgeva un enorme cumulo di macerie.

    La casa doveva essere stata abbandonata in tutta fretta, perché la tavola era ancora apparecchiata e sul caminetto, la cui fiamma si era ormai spenta, giaceva un calderone contenente della zuppa raggrumata. Proprio qui il giovane spogliò il cavaliere, ma non ne indossò gli abiti: portare le vesti dei cavalieri del Santo Sepolcro in una città piena zeppa di mussulmani equivaleva a suicidarsi. Decise quindi di nascondere quei vestiti in un barile di legno lì vicino; solo al calar della notte sarebbe tornato a recuperarli. Con l’aiuto delle tenebre avrebbe gettato i resti del povero Templare in un pozzo poco distante. Il suo piano prevedeva anche l’impiego di un carretto sul quale avrebbe caricato delle verdure appassite, sgraffignate qua e là durante la giornata. Fingendosi barrocciaio, avrebbe camminato fino a raggiungere il porto, qui, liberatosi del carretto e nascoste le vesti in un barile di merce, precedentemente svuotato, si sarebbe imbarcato come mozzo, raggiungendo così il continente.

    1

    Londra - 11 Aprile 1842

    La villa cittadina della famiglia Horton si affacciava su Byward Street, vicino alla Torre di Londra. Era un edificio slanciato, con torri, torrette e guglie, proprie dello stile gotico.

    Charles, seduto vicino alla vecchia madre nel bersò, attendeva l'arrivo di Flora, per prendere tutti insieme il tè.

    La dama arrivò dopo pochi minuti, comparendo dietro alla cameriera che recava con sé la colazione.

    Sir Horton osservò l’abbigliamento impeccabile della donna, che indossava un bellissimo abito di taffettà color crema, molto alla moda.

    Che donna affascinante pensò.

    La dama si avvicinò a passi rapidi, guardando quel bel quadretto familiare: Charles e sua madre seduti vicino a dei profumati vasi di narcisi.

    _ Oh, mio caro Charles, che piacere rivederti _ la voce squillante della donna parve scuotere anche la vecchia e annebbiata mente di lady Anne Horton.

    _ Ben venuta a Londra _ disse il sir, andandole incontro e baciandole la mano.

    _ Città stupenda; non vedo perché quella sciocca della mia figliastra non voglia viverci. E' sempre stata stravagante, in questo ha preso da sua madre; la defunta lady Conway era una donna fragile e isterica, poverina.

    I due si accomodarono e iniziarono a confabulare assiduamente. Neanche a dirlo l'argomento preferito fu proprio la giovane figliastra di Flora.

    Intanto Anne, con la sua solita aria sperduta, continuava a giocherellare con i bottoni dell’abito, trascorrendo così intere giornate. La vecchia dama aveva il volto rugoso e gli occhi molto vicini, ma nel complesso il suo aspetto era simpatico. La poverina era completamente andata da anni, tanto che i famigliari erano stati costretti ad assumere un’infermiera.

    Flora e Charles si somigliavano molto: entrambi, infatti, erano infingardi, opportunisti e venali, ma mentre la donna era briosa ed espansiva, l'uomo era compito, silenzioso.

    Lui era un uomo distinto, con un fisico asciutto, le tempie brizzolate e dei baffi ben curati. Aveva l'abitudine di strofinarsi di continuo le mani dalle dita magre e nodulose, unico segno, in quella figura perfetta e signorile, della sua meschina natura. Mentre Flora era una donna sui quaranta anni, con le gambe secche come due pertiche, i capelli ricci e biondi, la pelle bianca come il latte e dei modi un po' troppo leziosi.

    _ Credete che non riusciremo a convincerla; voi non le siete mai stato molto simpatico.

    _ Oh, sciocchezze. Non vedo perché debba rifiutare. Sono un uomo bello, colto e dotato di savoir faire, inoltre la mia è una famiglia prestigiosa; mio padre era un giudice. Questo matrimonio è quello che ci occorre: voi otterrete, in modo indiretto, attraverso di me, l'eredità che vostro marito non vi ha voluto lasciare e la mia banca raggiungerebbe un notevole prestigio e un cospicuo vantaggio economico _ disse Charles, mentre spianava macchinalmente le pagine finanziarie del Times.

    _ Suo padre le ha lasciato uno dei patrimoni più consistenti di tutta la Gran Bretagna, ma credo che siate troppo ottimista, mio caro _ aggiunse Flora._ Voi, Charles, non sapete cosa voglia dire vivere con quel misero assegno mensile che mi passa Katherine. Nessuno sa quale martirio sia il mio. Non mi piace parlare male dei morti, ma mio marito mi ha lasciato in ginocchio _ riprese la nobildonna_ E' andato tutto quanto a Katherine _ Flora fece una pausa per asciugarsi le lacrime di coccodrillo_ Mi aspettavo che Henry avrebbe provveduto a me, _ riprese poi_ ma nel testamento non mi ha neanche menzionato, come se non esistessi, e io che ho dedicato gli ultimi dieci anni della mia vita ai Conway. Se solo fossi stata più accorta e avessi dato un’occhiata al testamento...

    _ Non temete, sistemeremo tutto. Illustratele quanto vi ho spiegato ieri e se dovesse rifiutare so come farle cambiare idea. Le riserverò un trattamento speciale _ insisté l'uomo e nei suoi occhi guizzò un lampo di perfidia.

    _ Ah, avete già un piano, mio dolce Charles. Si sentono le rotelle del vostro cervello che lavorano_ esclamò tutta fremente la donna _ Ditemi, ditemi tutto.

    _ Oh, lasciate fare a me. Sono un uomo che non si arrende facilmente; saprò ricondurla alla ragione _ tagliò corto il sir.

    A quelle parole Flora fu scossa da un brivido d’esaltazione; credeva ciecamente nel suo fidato amico.

    La donna continuò a lagnarsi sul testamento ingiusto redatto dal marito prima di morire, ma sir Horton non l'ascoltava più. La sua attenzione era stata attratta da un articolo finanziario che troneggiava in prima pagina.

    Sconvolto lesse e rilesse l’articolo in terza riga. No, non era possibile!

    Crollano i fondi di Haiti

    I fondi di Haiti scendono da 406 sterline a 209 sterline. Vanno forte i buoni spagnoli, ma crollano quelli dell'isola caraibica; molte le banche che ci hanno rimesso.

    Sono stati giudicati sicuri i titoli dei grandi stati, come la Francia, l'Austria, l'Olanda e l'Inghilterra, molto meno stabili, invece, quelli di paesi come Cina, Perù e, giusto appunto, Haiti.

    Alcune tra le più piccole e spregiudicate banche inglesi, nel tentativo di ingrandirsi e farsi notare, hanno tentato il tutto per tutto, ma alcune volte, come in questo caso, il rischio di perdere ingenti somme di denaro è molto elevato.

    L'uomo si sentì gelare il sangue. Dopo la concessione per costruire la ferrovia in Algeria andata a rotoli, il piano di sviluppo del porto di Maputo in Mozambico mai realizzato e gli allevamenti di Alpaca in Bolivia senza gli Alpaca, le cose si stavano mettendo davvero male per lui. Nel tentativo di ingrandirsi, di farsi notare sul mercato, di acquisire prestigio e di aumentare il proprio numero di clienti, si era fatto stregare da questi affari facili e molto rischiosi, ma, per adesso, non aveva azzeccato neanche un’operazione. Aveva bisogno di denaro subito per evitare uno scossone finanziario alla sua banca. Doveva sposare la figliastra di Flora, e di corsa. 

    La locanda del Gabbiano

    "Sto camminando lungo un corridoio con pareti e pavimento a lastre di pietra. La luce che penetra dalla miriade di finestre a nord è così avvolgente da percepirne quasi il calore.

    Mi addentro sempre più in questa galleria sperando di scorgerne presto la fine. Mi chiedo cosa si possa vedere dalle finestre e così provo a guardare; la luce bianca è così intensa che devo serrare gli occhi per non rimanerne abbagliato. Da una di queste finestre sento dell’aria fresca che mi arriva sul volto; sembra quasi che questo strano corridoio di pietra sia sospeso nel cielo.

    Arrivo a una porta e l'apro, ma dietro ce n'è subito un'altra, poi un'altra ancora, alla fine mi trovo in una sala ottagonale sulla quale si affacciano otto nicchie. Tutti questi vani sono occupati da impavide statue di cavalieri con la Croce Cristiana dipinta sul petto.

    La luce dorata prodotta dal sole mattutino scorre come acqua sulle superfici bronzee dei crociati creando un fantastico gioco di luce ombra.

    Odo dei canti gregoriani in lontananza, mentre sento l’odore penetrante dell’incenso che pervade l’aria.

    D’un tratto, al centro della sala, compare un rogo, pronto per accogliere qualche condannato a morte, e a stento trattengo a un grido di paura.

    Sento un tintinnio metallico, qualcosa che batte contro il mio fianco. Guardo in basso e vedo una chiave attaccata alla cintura dei miei pantaloni. Strano, perché un attimo prima non c’era. Anche se è arrugginita e un po' piegata, sembra la chiave di un forziere.

    Alzo di nuovo la testa e con sconcerto mi accorgo che la pira al centro della stanza è svanita, adesso al suo posto c'è un grande scrigno.

    D’improvviso uno strano bagliore mi acceca, ma non è il sole. Le pareti della sala ottagonale risplendono; il pavimento si è fatto di smeraldi, il soffitto di rubini e le pareti di zaffiri. Sembra il libro Mille e una notte.

    Vengo preso dalla frenesia e mi lancio sul forziere per aprirlo; cerco

    di fare con cautela, perché la chiave è ridotta così male che ho paura

    si spezzi dentro la serratura. Alla fine riesco ad avere la meglio sul lucchetto, sollevo il coperchio e resto abbagliato. Il forziere è ricolmo di scudi e lingotti d'oro, di diamanti, di perle,

    di rubini, di zaffiri, di smeraldi e di quanto altro ancora la mente possa

    immaginare.

    Tocco, palpeggio e immergo il volto e le mani nell'oro e nelle pietre, poi mi rialzo e inizio a correre per la stanza come un pazzo, preso nell'esaltazione. Ma sogno o son desto? Forse è tutto frutto della mia immaginazione?

    Preso dal terrore torno a vedere il mio tesoro, ma questi non c'è più. Lo scrigno è vuoto, l'oro e le pietre sono scomparsi.

    Mi guardo attorno smarrito, stravolto. Indietreggio, con gli occhi sbarrati dallo sbigottimento e il cuore che mi martella in petto per il terrore.

    Mi scaglio contro il forziere vuoto e lo prendo a calci, poi cado in ginocchio e mi stringo la testa fra le mani, come per impedire alla ragione di fuggire via."

    Il giovane si svegliò di colpo, gridando a squarciagola e mettendosi di botto seduto sul letto. Nella sua mente scorrevano ancora, con la dirompenza di un fulmine, le immagini di tutte le pietre preziose e dell'oro.

    Il ragazzo si guardò attorno disorientato; il suo corpo era un bagno di sudore, mentre il busto si alzava e abbassava in respiri frenetici.

    Gli ci volle un po’di tempo per riprendere il controllo di sé ed emergere da quel senso di irrealtà.

    Nel vedere gli scuri della finestra scortecciati dall'usura dal tempo e l'interno della stanza annerita dal fumo del focolare, si rese conto di essere nella sua camera alla locanda.

    Il giovane, ancora ansante, si alzò dal misero letto e si diresse, appunto, verso quell'unica finestra. Guardò il panorama da dietro le tende sporche. La caligine della sera trasudava dal vicino Tamigi, mentre l'oscurità avvolgeva la periferia orientale della città. La notte era calma, pacifica, quieta.

    Scorse le fatiscenti abitazioni al di là del grande fiume. Vide i tetti con i camini mezzi crollati e le grondaie sgangherate. La strada era ampia e percorsa sporadicamente da qualche carrozza.

    L’attenzione del giovane fu attratta da un pover'uomo, sporco e vestito di stracci, che mendicava all'angolo della via. Un sorriso amaro gli piegò le labbra; le sue attuali condizioni di vita non si discostavano tanto da quelle del mendicante. Ma lui ambiva a ben altro: avrebbe rovesciato le sue misere sorti. Aveva vissuto quasi trent'anni nella miseria, adesso la buona sorte doveva girare anche dalla sua parte. Lui finora non aveva avuto niente, ma adesso voleva tutto.

    Sbuffando per l’irritazione, si girò verso l'interno della camera. L'aspetto poco attraente dell'immobile denotava quanto misera fosse la clientela di quella pensione.

    Lungo le pareti della stanza spiccavano vistose macchie d’umidità, mentre il pavimento era di vecchi mattoni sconnessi.

    Le angoscianti emozioni scatenate dall’incubo appena vissuto agitava ancora l’anima dell'uomo.

    Soffocato dalla frustrazione e dall’impotenza si lasciò travolgere dalla collera; un brivido gli scivolò lungo la schiena, mentre un nodo alla gola gli impediva quasi di respirare.

    Quanto tempo doveva attendere ancora per trovare il castello di Kildrummy? Sapeva che l’occasione propizia si sarebbe presentata, ma quell’attesa lo snervava.

    Chiuse gli occhi e afferrò con la mano il medaglione, dal quale non si separava mai, poi riaprì gli occhi; l'ansia lo tormentava.

    Un silenzio denso come la nebbia accompagnava i suoi pensieri.

    L'uomo con un sospiro di sconforto tornò a guardare il panorama. Le tenebre si addensavano, nascondendo in una inquietante coperta nera il grande fiume. Il giovane sperò che quella notte stranamente cupa e silenziosa per una città come Londra, non preannunciasse sventure. Lasciandosi mollemente dondolare sui talloni, mirò le lontane e flebili luci del porto, offuscate dalle nebbie esalate dalle acque del Tamigi.

    La stanchezza sembrò sopraffarlo; a fatica riusciva a tenere gli occhi aperti. Decise di stendersi

    nuovamente sul letto, sperando di poter dormire bene per qualche ora; quel strano sogno ricorrente lo angosciava da troppo tempo.

    A occhi chiusi ascoltò il respiro del fiume. Il buio e il lento fluttuare delle acque del Tamigi gli conciliavano la meditazione, rilassandogli la mente. Tutto era pace e silenzio.

    Silenzio sì, ma pace no. Come invisibile spettatore ripercorse, attimo dopo attimo, scena dopo scena, un incubo vissuto molto tempo addietro.

    Rivide la scala umida che conduceva alle segrete, inserite a venti piedi sotto terra. Sentì lo stridere delle massicce serrature, il cigolare dei catenacci arrugginiti e, aperta una porta, si vide accovacciato in un angolo della cella. La stanza era in penombra, con pareti a lastre di pietra; il soffitto così basso da incutere ansia; e una candela, che a malapena illuminava la zona circostante, poggiata su una sedia sgangherata al centro della stanza.

    Vide le sue vesti stracciate e un tozzo di pane vecchio stretto avidamente fra le mani.

    Quella massiccia fortezza era a strapiombo sul mare e isolata molte miglia dal primo centro abitato. Al giovane parve addirittura di rammentava l'intenso odore d’acqua salmastra che si respirava nelle celle che volgevano verso il Mare Ionio nei giorni di tempesta.

    Rivide la cella sporca, umida e fetida, e la brodaglia che gli rifilavano tutti i giorni e che la direzione definiva cibo.

    Rannicchiato sul suo gelido pagliericcio, godeva con gioia dei tenui raggi di sole mattutino che filtravano dagli stretti spiragli dell'inferriata.

    Come un flash gli tornarono alla mente i tratti dei suoi carcerieri, le loro risate aspre e sferzanti.

    Rammentò la brocca e la vaschetta con le quale era costretto a lavarsi, le stesse stoviglie che lui aveva provveduto a rompere per farne degli strumenti di salvezza. Gli tornarono alla mente tutte le notti in cui, nascosto sotto il letto, aveva lavorato grattando con quelle appuntite schegge di cocci contro la parete della cella. La calce delle mura, infatti, era diventato friabile a causa dell'umidità. Si rivide mentre lanciava i pezzetti di intonaco fuori dalle inferriate della cella, in modo da non lasciare tracce. In meno di due anni era riuscito a scavare un pertugio, adatto al passaggio di una persona, che sbucava direttamente sugli scogli a strapiombo sul mare, e da lì era evaso. Aveva temuto di trovare la pietra durante le operazioni di scavo, poi durante l'evasione aveva rischiato di battere la testa sulle rocce, ma la fortezza di Capomarino, ex magione templare convertita in prigione, era vecchia, malandata e dimenticata dall'apparato giudiziario del Regno delle due Sicilie.

    Dopo un attimo il suo umore cambiò. La rabbia subentrò nel suo animo soppiantando la tristezza che finora vi aveva dimorato.

    Con uno sforzo sovrumano scacciò quelle immagini e giurò a se stesso che non sarebbe mai tornato in un buco simile. Adesso le cose sarebbero cambiate: lui sarebbe diventato un uomo ricco. Avrebbe impiegato tutta la sua vita per cambiare le sue condizioni sociali, e ci sarebbe riuscito. Con Kildrummy non sarebbe più stato costretto a rubare per vivere. La sua voglia di riscossa era pari alla rabbia che provava per quella prigione e per i dannati sepolti dentro di lei.

    Il senso di frustrazione lo travolse; si mise di nuovo seduto sul letto. Respirò a fondo cercando di riacquistare un po' di calma. Non doveva pensare al passato, doveva concentrare le sue attenzioni sulla Scozia. 

    2

    Al Castello il 3 Maggio 1842

    Quella era una bella giornata primaverile; i vigorosi raggi del sole sollecitavano la natura a fiorire ed esplodere di colori e di profumi. Il cielo limpido, di un intenso color azzurro, era solcato da soffici e ampie nuvole bianche che interrompevano quello sfondo monocromo.

    Katherine galoppava allegra per il parco, accompagnata da una bella coppia di levrieri. La ragazza tirò le redini per frenare Whisky, un bellissimo sauro d’otto anni, e si fermò a guardare estasiata un corposo stormo d’anatre che migravano verso l'Africa.

    Per un attimo invidiò quei simpatici animaletti: loro, almeno, erano liberi. Lei, invece, aveva sempre creduto di esserlo, ma negli ultimi mesi si era resa conto che, appartenendo al mondo della nobiltà, era vincolata a una innumerevole quantità di regole e di schemi.

    Molte volte aveva pensato di fuggire lontano, di allontanarsi dalla sua matrigna, ma andarsene senza denaro, lasciando tutto lì, equivaleva a vivere di stenti. Il vero problema era che la sua vita era parte integrante della nobiltà ed era quindi legata indissolubilmente alla casata e al blasone.

    La fanciulla si voltò a fissare il paesaggio che la circondava; lì tutto sapeva di indipendenza, di libertà. Su di lei gravava anche un altro dovere quello di non lasciare neppure uno spicciolo alla sua matrigna. Il padre, infatti, in punto di morte, aveva pregato la figlia di stare attenta alle manie spenderecce della signora Conway. Non poteva scappare in Oriente e nelle Americhe, lasciando Flora padrona di sperperare il suo patrimonio con quello scellerato di sir Charles Horton.

    La ragazza scacciò quei tristi pensieri e lanciò il cavallo al galoppo per la brughiera, divertendosi a saltare cespugli di erica, fossati e staccionate, assaporando con gioia quel paesaggio selvaggio e l'aria fresca che le accarezzava il volto.

    In quei momenti, libera di correre felice e spensierata per la sua tenuta, si sentiva appagata e soddisfatta, anche se quella sensazione d’indipendenza era effimera e di breve durata.

    La lontananza dalla vita mondana di Londra le giovava immensamente; nonostante le pressioni di Flora non avrebbe mai rinunciato a vivere in Scozia. Per nessuna cosa al mondo sarebbe stata disposta a modificare le sue abitudini.

    La fanciulla arrivò davanti al castello, ma, appena smontata da cavallo e affidata la bella bestiola nelle mani dello stalliere, la vecchia Lydia Clement, moglie dell'avvocato, la raggiunse tutta trafelata.

    _ Signora, vostra madre vi aspetta in biblioteca; deve parlarvi ed è di pessimo umore _ si limitò a dire con ansia la dama di compagnia.

    Katherine sospirò sconsolata: quella giornata cominciata così bene era stata subito rovinata dall'arrivo della matrigna.

    _ Cara Lydia, Flora non è mia madre _ la rimproverò bonariamente _ Dille che mi devo cambiare e che poi sarò subito da lei.

    La seconda moglie di suo padre viveva in una bellissima ed enorme villa nella vicina cittadina di Glenkindie e spesso piombava in casa della figliastra senza dare il minimo preavviso.

    Detto questo la duchessa si avviò verso le sue stanze con aria rassegnata. Lydia, alle sue spalle, non poté fare altro che scuotere la testa sconsolata, alzando gli occhi al cielo e sperando in un miracolo che salvasse quella giovane e già infelice creatura dalla vedova Conway, donna perfida e maligna.

    Flora stava comodamente seduta nel salottino verde nell’attesa della figliastra. La stanza, inondata dall'intensa luce mattutina, che penetrava dalla finestra, era cara a Katherine perché arredata con gusto sobrio e confortevole. Ai rispettivi lati della stanza erano posti, simmetricamente, due segretaire alla francese con gambe corte e sottili ed un corpo centrale dalla tipica forma panciuta. Nella parete di nord si apriva un ampio finestrone dal quale si accedeva a un grazioso balconcino di ferro battuto. Proprio di fronte a questa finestra si trovava un elegante tavolino tondo in acero e tre poltroncine tappezzate di un color verde brillante.

    Katherine camminava lungo un ampio androne che conduceva al salottino, le cui pareti erano interamente ricoperte da antichi arazzi, l'unico suono che si udiva era il fruscio dell'abito colore pesca.

    Flora indossava un abito rosa vivace che la faceva sembrare una ragazzina, come ebbe modo di notare Katherine entrando nella stanza. Al collo portava una collana di ametista e perle raccolte in ben quattro lunghi fili.

    _ Cara figliola, era così tanto tempo che non ci vedevamo. Sono tornata proprio ieri da Londra e non crederete mai chi ho trovato in città _ disse la matrigna alla fanciulla, che si stava accomodando nella poltrona vicina.

    _ Fatemi indovinare: sir Charles Horton _ aggiunse la ragazza con tono annoiato.

    _ Brava, esatto_ continuò con tono volutamente ostentato.

    _ Io e sir Horton pensavamo che per voi sia giunta l'età di trovare marito. Siamo ancora in lutto per la scomparsa di vostro padre, ma questo non ci deve impedire di continuare la nostra vita. Dopo tutto siete giovane e bella, ed è giusto che provvediate al vostro futuro _ finì Flora con aria compiaciuta e un sorriso smagliante sulle labbra.

    L'eccessiva accondiscendenza nel tono della sua voce, quasi sdolcinata, suonò sospetta alle orecchie di Katherine, che capì le intenzioni della matrigna. Lei non aveva voglia di sposarsi, né aveva l'intenzione di maritarsi con qualcuno presentatole da quei due. Fin ad adesso anche Flora si era sempre opposta all'idea di un suo eventuale matrimonio, adducendo proprio la scusa che sarebbe stato sconveniente festeggiare le nozze quando lord Conway era morto da appena sei mesi. Perché adesso questo cambiamento di opinione? Cosa c'era sotto? Quei due tramavano qualcosa.

    La fanciulla si mise subito sulla difensiva.

    Questa volta, dolce Katherine, sei in un vicolo cieco. Ti abbiamo messo in trappola. Io avrò la mia eredità finalmente. Andrà tutto come stabilito, piccola intrigante! disse a se stessa la matrigna

    _ Vedrete, vi piacerà; il matrimonio è il più bel giorno di tutta la vita. Vedete, a Londra circolano delle voci insistenti riguardo alla vostra decisione di rimanere zitella. Sono ingiurie, ma dobbiamo stroncarle sul nascere. I Conway sono in lutto ed è quindi giusto che non facciate vita mondana in questo particolare momento, ma nei salotti ci si chiede se la vostra non sia una scelta permanente. Ricordate che avete il dovere di dare degli eredi alla casata.

    Katherine non disse nulla, si limitò ad ascoltare con occhi scaltri quegli strani discorsi, avendo già una mezza idea di chi le sarebbe stato proposto come marito.

    Doveva subito correre ai ripari e prenderli in contro piede. Ma cosa fare? Come sbrogliarsi da quell'impiccio?

    _ Avevamo preso in esame alcuni giovani scapoli delle migliori famiglie del Regno, ma sapete l'idea di darvi a un estraneo, a un uomo che non avete mai visto non ci entusiasma.

    L'espressione della fanciulla divenne guardinga; anche Flora era stata data in moglie a lord Conway senza averlo mai visto neppure in un ritratto. Lei credeva che le volessero affibbiare qualche debosciato damerino londinese, ma le loro

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