Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)
Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)
Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)
E-book460 pagine6 ore

Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook


Open Arms è un’isola sperduta del Pacifico dove sorge una società tecnologicamente avanzata. Uno Stato fondato sull’accoglienza, con regole rigide e un sistema economico senza precedenti. Un paradiso futuristico in cui è pos­sibile avere una seconda opportunità.
L’improvvisa scomparsa dell’uomo che ha reso possibile questo mi­racolo, il governatore Cassini, desta sospetti: Cassini si è dato fuoco, ma alcuni particolari suggeriscono invece che possa trattarsi di un omi­cidio.
Il nuovo governatore, Mr. Wang, decide così di affidarsi a un detec­tive tra i mi­gliori in attività: John Barnard di Plymouth, in realtà un neofita che si è ritrovato ad avere una straordi­naria quanto fasulla reputazione.
Seguito dal suo improbabile team, e a dispetto della sua totale in­competenza, Barnard cercherà di risolvere il caso.
John e la sua squadra daranno adito a tutta una serie di situazioni esilaranti, paradossali e grottesche, ma avranno anche l’occasione per confrontarsi con un nuovo e sconcertante mondo.

 
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788829514830
Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)

Leggi altro di Gennaro Loffredo

Autori correlati

Correlato a Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Open Arms -I segreti dell'isola- (Nuova edizione) - Gennaro Loffredo

    © Copyright 2013, 2018

    Prima pubblicazione: Settembre 2013

    Seconda edizione: Settembre 2018

    Tutti i diritti riservati

    Vietata qualunque duplicazione.

    Eventuali marchi e loghi citati, sono di proprietà dei legittimi proprietari.

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    Gennaro Loffredo

    Open Arms

    I segreti dell’isola

    1

    Il corpulento ambasciatore dell’Azerbaijan stentava a credere alle proprie orecchie.

    «Spiacente, qui non si fanno eccezioni», gli aveva ripetuto un funzionario della sicurezza. Il diplomatico aveva cercato in tutti i modi di fargli intendere con chi avesse a che fare, ma era stato del tutto inutile: quella zucca vuota non aveva battuto ciglio. Il funzionario, durante il battibecco, gli aveva spiegato che sull’isola non venivano fatte distinzioni, men che meno si teneva conto dello status sociale degli individui. In chiesa, ammesso fosse riuscito ad entrarvi, non vi erano posti d’onore: le panche prossime all’altare erano riservate a chi le avesse occupate per primo. «Buon senso», aveva concluso. Buon senso del cazzo! si era detto l’ambasciatore.

    Ripercorse le ultime ore di quell’orribile mattinata. Era approdato all’isola dopo uno snervante volo a bordo del jet di rappresentanza, era stato scaricato sulla portaerei, infine traghettato verso quello stravagante luogo. All’accettazione era stato trattato come un delinquente della peggiore specie. Dopo le classiche formalità lo avevano perquisito da capo a piedi, gli avevano controllato il contenuto dei bagagli, poi, non contenti, lo avevano rinchiuso in una saletta e fatto denudare. Al solo ripensarci sudava freddo e si detergeva la fronte con un fazzoletto. Ci mancava solo che mi ficcassero un dito su per il culo.

    In tutta la sua vita non si era mai sentito così umiliato, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco: era la regola numero uno per un Diplomatico di professione. In simili circostanze, il suo modo di sfogare l’ira consisteva in una serie di contrazioni dei muscoli del collo, durante i quali agitava i suoi occhioni indipendenti. Concludeva la pantomima con un principio di starnuto che implodeva nel suo ventre dando vita ad un rumore imbarazzante. L’effetto risultava tragicomico.

    Durante il viaggio si era grossolanamente documentato sugli aspetti geografico-folkloristici della piccola isola. Open Arms, rifletté. Isola indipendente a sud del Pacifico, abitanti 15.000 circa, clima mite. Troppo poco per un ambasciatore serio. Riaprì l’opuscoletto e rilesse: «Sull’isola non circola moneta, ma ci si avvale di crediti virtuali; Tutti lavorano e possiedono villetta con giardino; Non vi sono armi né altri oggetti contundenti; Le droghe leggere sono liberalizzate, d’altra natura irreperibili; La popolazione partecipa attivamente alla vita di Governo e alle strategie politiche, sia per questioni interne che per affari esteri; È tassativamente proibita ogni forma di violenza, anche solo verbale -nella fattispecie: ingiurie, schiamazzi e altre scurrilità, verranno segnalate al governatorato-; È d’obbligo mostrarsi socievoli verso tutti: un qualsiasi cenno di saluto o scambio di cortesie è considerato "il primo mattone", la base sulla quale si fonda il Progetto Open Arms. Eventuali infrazioni alle regole non saranno punite con mezzi tradizionali: non sussistono forme di detenzione, eccetto la custodia cautelare da scontarsi in ambito domestico. La forma più utilizzata per scoraggiare le manchevolezze consiste nell’ammonire chi è in fallo, come avviene nel gioco del calcio: alla terza sanzione si applica il "punto di non ritorno", ovvero si viene espulsi dall’isola».

    Questo era tutto ciò di cui era venuto a conoscenza. È patetico, si disse. Questi sono fuori dal mondo, un’isola di populisti! La vedeva come una sorta di moderna comunità Hippie, fatta di regole all’acqua di rose, radicale e perbenista, ma soprattutto poco incline a riconoscere i tributi dovuti ad un personaggio della sua levatura. Questi rottinculo se ne fregano altamente. Eppure, egli doveva ammettere che nessuno gli era stato scortese, lo avevano considerato come una persona qualunque e ciò feriva il suo amor proprio, la sua dignità quale servitore di una florida Nazione. Continuava a rimuginarci sopra.

    Tornato in sé, ripensò al motivo della propria sortita. Era venuto per partecipare al lutto originato dalla scomparsa del governatore Cassini, leader e fondatore di quel paradosso che veniva spacciato come Società del futuro, come nuovo modello di sviluppo e bla bla bla!

    Si guardò intorno alla ricerca di un punto di riferimento. Dalla sua posizione la chiesa si intravedeva appena; era sommerso dalla calca. Durante gli inevitabili urti i malcapitati gli rivolgevano un cordiale cenno di scuse, cosa che lo faceva ulteriormente uscire dai gangheri; li avrebbe volentieri mandati a farsi fottere.

    Tutto ciò è farsesco, pensò mentre cercava invano l’occhio di una telecamera che lo riprendesse a testimonianza della sua venuta. Qualcuno dovrà pur essere informato che l’ambasciatore azerbaijano si è unito al cordoglio! In parte lo sollevava il fatto che una moltitudine di personaggi di calibro internazionale, compresa l’arcinota amichetta del ministro Kukù, condivideva il suo disagio.

    Si rassegnò all’idea di dover assistere alla funzione dalla piazza antistante la chiesa. All’accettazione gli avevano riferito che erano previsti circa tremila visitatori, i quali si sarebbero aggiunti alla popolazione locale. Riconsiderò quelle straordinarie circostanze. Fatte le debite proporzioni, tremila anime erano un’enormità: era scontato che l’isola sarebbe collassata.

    Per vincere l’attesa, decise di attaccar bottone con un vecchietto che sostava alla sua destra. Nonostante la pesante atmosfera, aveva l’aria di un personaggio bizzarro e bonario: indossava uno Stetson e stivali da cowboy corredati da speroni di gomma, sul gilet appuntava una stella da sceriffo e aveva le tipiche gambe arcuate. L’ambasciatore non poteva certo sapere che quell’ometto, Humphrey James, aveva anche gergo e modi da pioniere del vecchio West.

    L’Ambasciatore gli accordò un cenno che voleva essere di rimando ad un saluto. Poi aggiunse: «Gran brutto affare, la morte».

    Il vecchietto si voltò dalla sua parte e prese a squadrarlo con fare indolente. Ripresosi dal torpore, strizzò gli occhietti e disse tutto d’un fiato: «Corpo di mille ambasciate! Voglio passare il resto dell’estate impalato sul più spinoso cactus del deserto dell’Arizona, se la tua vecchia carcassa non ha ragione!» Poi aggiunse: «Proprio un affaraccio della malora!» e gli diede una tale pacca sulle spalle che per poco non lo fece stramazzare al suolo.

    Il diplomatico ebbe una piccola crisi delle sue e, seppur sorpreso dal gergo e dalla forza del nonnetto, domandò: «Di cosa soffriva?»

    Il vecchio ripensò alle circostanze. Gli si inumidirono gli occhietti, un fiumiciattolo percorse la sua guancia raggrinzita fino a formare sul mento un minuscolo delta stagnante, destinato a disperdersi sul collo. «Oh! Nessuna malattia, vecchio mio.» Aveva la voce rotta dall’emozione. «Ti hanno informato male, sigh! Il Governatore si è suicidato… Kaput!»

    Cristo Santo, pensò l’ambasciatore. Un uomo che aveva praticamente tutto. Potere, fama, donne, l’isola e chissà che altro. Lo immaginava vedersela spassare a destra e a manca, mentre tutti gli leccavano il culo. Poi, come in una visione mistica, se lo figurò depresso, stanco e stressato. Fantasticava sulla scena dei suoi ultimi istanti. Aveva preso una massiccia dose di sonniferi e si era recato in camera da letto, si era addormentato e… «Una morte serena», rifletté a voce alta.

    «Macché!» gli fece il vecchio di rimando. «Si è dato fuoco. È arso vivo!» e concluse, «Proprio un brutto affare.»

    2

    Non vedevo l’ora di parlare a Chris della mia idea. Alla fine avrebbe acconsentito. Era il mio migliore amico ed avevo sempre avuto un forte ascendente su di lui. Ammetto che, in alcune circostanze, i suoi modi potevano risultare alquanto stravaganti e che il suo cadaverico aspetto non avrebbe aiutato la causa, ma Chris era un genio, Chris era il genio, l’uomo che mi ci voleva. Magari si sarebbe messo dapprima a protestare, ma alla fine lo avrei convinto a seguirmi; d’altronde la struttura doveva mettercela lui. A pensarci bene, avrebbe anche dovuto finanziare il progetto, ma la cosa non mi preoccupava. Lo avrei convinto a diventare mio socio.

    Eravamo cresciuti insieme; dei due io ero la motrice, eppure, in quanto a talento… al suo cospetto ero uno zero. Chris era un inventore nato. Nonostante fosse costretto a gestire un’agenzia di onoranze funebri, tra le miriadi di quelle possedute dal papà, nei suoi ritagli di tempo creava e disfaceva. Clonava, sintetizzava, filtrava, mescolava, calcolava, teorizzava… a volte concretizzava.

    Ricordo come tutto cominciò; a quei tempi eravamo adolescenti. Un giorno mi condusse nel suo scantinato e mi mostrò la sua prima invenzione: la sedia a due gambe. Era partito dall’assioma che l’essere umano è dotato, salvo amputazioni, di due arti inferiori. Secondo la sua logica, per una sedia due supporti sarebbero stati più che sufficienti, bastava sedersi tenendo le gambe larghe e ben incollate al suolo. Ne fui entusiasta e volli provarla. A parte il fatto che si stava un po’ scomodi, che la sedia oscillava e che alla lunga ci si stancava, lo applaudii. Gli dissi che, certo, necessitava di qualche ritocco, ma senza dubbio sarebbe diventato un arredo indispensabile in tutte le case della Cornovaglia. Spronato dal mio incoraggiamento, si mise immediatamente a lavorare sul modello a tre gambe, concepito per mutilati di guerra. Predissi che quella sarebbe stata la sua strada.

    Con il passare del tempo, i suoi progetti si facevano sempre più astrusi. Ne ricordo ancora alcuni: la porta senza pomello, la bicicletta a tre ruote e mezzo, lo yo yo a impulsi antigravitazionali. Le invenzioni degli esordi erano bizzarre ma innocenti. Lo indirizzai verso oggetti più utili ai bisogni dell’umanità. Venne fuori quasi il suo meglio. Purtroppo gli effetti collaterali delle sue invenzioni suscitavano le mie perplessità. Ad esempio, ricordo quando realizzò la lampadina a scissione subatomica: emanava una luce accecante. Chris ne sconsigliava l’utilizzo in ambienti caldi. Infatti, spiegò, nei casi in cui l’aria circostante avesse raggiunto una temperatura al di sopra dei 99.9°F, si sarebbe verificato un noioso inconveniente. A quel punto, il calore esterno avrebbe sovreccitato i nuclei subatomici di idrogeno, i quali si sarebbero prima appesantiti e quindi trasformati in deuterio ed elio3, infine sarebbero collassati generando elementi più complessi come il ferro ed il piombo, i quali, fondendo, avrebbero innescato una detonazione paragonabile all’impatto provocato dalla Shoemaker-Levy9 sul pianeta Giove con conseguente disastro: della vita sulla Terra non ne sarebbe rimasta traccia. Ma il suo non plus ultra doveva ancora essere partorito. Lo rivedo ad addestrare la scimmietta che dovrà testare il disco volante agli ioni di stronzio compresso, realizzato combinando sostanze di cui si ignoravano, e si ignorano, le composizioni. Eccolo, dopo alcuni mesi, accingersi a depilare la cavia e a vestirla con una tutina da bebè color ardesia fosforescente. Confesso che nella circostanza mi mostrai scettico, non per mancanza di fiducia in Chris, ma non riuscivo a comprendere che cavolo di manovre avrebbe potuto fare una scimmietta che anziché entrare nel disco si aggrappava al lampadario e non voleva saperne di scendere. Non so come, ma il disco decollò. Lo vedemmo zigzagare tra le nubi di Plymouth e per diversi anni non ne sapemmo più nulla.

    All’inizio di quest’estate leggemmo un articolo di giornale che menzionava i resti di un oggetto non bene identificato, rinvenuto nella Terra del Fuego. Al termine di accurate analisi gli scienziati non si erano ancora espressi su che accidenti di oggetto avessero scoperto.

    «C’è vita nell’Universo?… Mah!»

    Appena misi piede nella rinomata succursale della Happy End di Doyle and son, udii il rintocco del campanellino a morto. Non era la prima volta, ma nel sentirlo provavo sempre una leggera inquietudine. L’ingresso dell’agenzia era deserto. Mi ritrovai di fronte cinque bare dischiuse, disposte in modo da formare un pentagono. Di queste, una mi impressionò per dimensioni e forma: un sarcofago in stile egizio raffigurante il dio Ra che se ne stava sulle sponde del Nilo in compagnia di un grande ibis. Bizzarrie dei nostri tempi, immaginai. Quest’anno andranno di moda imbalsamazioni e bendaggi. La sala era tutta in ciliegio ed in pregiato mogano, gli antichi arredi si confondevano con il parquet, dando l’inquietudine di trovarsi all’interno di una gigantesca cassa da morto. «Effetto depressivo garantito due mesi», era solito sghignazzare il padre di Chris.

    Chiamai senza ricevere risposta, evidentemente il mio amico doveva essere uscito a far colazione. A meno che… Mi accostai alla porta della sala adiacente. Chris poteva essersi rinchiuso a fare qualche esperimento; in questi casi andava come in trance, e non c’era verso di farsi udire. Bussai speranzoso; non mi andava di starmene lì tutto solo ad attenderlo. «Chris?» Ancora nessuna risposta. Spalancai la porta.

    Fui investito da un puzzo nauseabondo, un lezzo di cadaveri putrefatti. Istintivamente mi turai il naso e serrai la bocca. Non vedevo quasi nulla, l’unica luce presente proveniva da chissà quale diavoleria in fondo a sinistra della sala. Irradiava un colore violetto, tenue ed intermittente, riusciva appena ad illuminare i contorni degli oggetti. Man mano che i miei occhi si abituavano all’oscurità notai l’ennesima bara, anch’essa dischiusa, ma non vuota. Sprigionai adrenalina, ero come paralizzato. Il cuore pompava come un martello pneumatico dandomi la sensazione che un ipotetico spettatore potesse vedermelo saltar fuori dal petto, mentre un gelido sudore mi si cristallizzava sulle tempie. Avevo i brividi. Avanzai di alcuni passi, potevo trovarmi a non più di quattro metri dal cadavere. La luce irregolare faceva strani scherzi; a volte restava spenta per qualche secondo in più, creando intorno a me un’atmosfera irreale, da horror. Mi sforzai di mantenere il controllo e di essere razionale: quella cosa doveva essere una pratica inevasa dall’agenzia. A giudicare dal fetore poteva essere lì da un paio di secoli, quel cadavere si sarebbe dovuto trovare sotto un paio di metri di terra da un bel pezzo, eppure… Mi avvicinai circospetto ancora di qualche passo. Ora che la mia prospettiva era cambiata, potei rilevare alcuni dettagli. Notai, ad esempio, un braccio penzolante dalla cassa. Che Chris, o chi per lui, avesse omesso di sistemarlo? Dopo alcuni istanti dovetti fare un’altra scoperta. Sul fianco destro della bara, all’altezza di una delle maniglie, scorsi fuoriuscire il lembo di un lenzuolo. I miei neuroni si scambiavano informazioni all’impazzata cercando di dare un senso a ciò che i miei occhi andavano a comporre. Alla fine la logica venne in mio soccorso. Ripresi il controllo e mi avvicinai ancora. Volevo dare un volto a quel corpo, ma l’intera figura giaceva sotto un tessuto di seta nera. Dai rilievi che emergevano in quella penombra si capiva che la salma era stata riposta senza criterio. Non avevo un’ipotesi definitiva, ma sembrava che lì sotto ci fosse un enorme insetto stecchito. Per infondermi coraggio mi costrinsi a pensare di non essere da solo, ma quando udii un tonfo sordo provenire dalla cassa ero saettato fino alla porta d’ingresso dell’agenzia. Respiravo con affanno ed ero incazzato nero, volevo fare l’investigatore e al minimo intoppo scappavo come una verginella in fuga da un aspirante stupratore. Dovevo rientrare ed essere più razionale. Per l’ennesima volta sobbalzai al suono del campanellino a morto. Fanculo anche a Chris e alle sue idee del cazzo. Afferrai tutto il coraggio che riuscii a trovare, riattraversai il pentagono degli orrori e rientrai nella sala del dottor Frankenstein. Le lenzuola erano riverse sul pavimento. La cassa… vuota. Dov’era finito? «Chris?» sibilai.

    Giunse un urlo alle mie spalle: «Èureka!» E svenni, come corpo morto sviene.

    Quando riaprii gli occhi, Chris mi sovrastava. «Accidenti a te!» esclamai irato, «mi hai fatto prendere un colpo! adesso dormiamo nelle casse? e poi, che cazzo ci fai vestito da zombie

    «Veramente, questo è il mio vestito buono», rispose con una punta di acredine.

    Mi meravigliai dei nuovi vezzi del mio amico, ma non volli replicare; non mi ero ripreso del tutto dallo spavento. E così lui proseguì: «Il disgregatore di particelle sarà un successone. Ci siamo, John! Il pianeta Terra potrà essere disintegrato e ricostituito a nostro piacimento».

    Aveva sempre voglia di stupirmi, ma non mi era ancora chiara l’idea e, soprattutto, ne temevo gli effetti collaterali. «Il disgregaché

    Mi guardò felice come un bambino. «Possiamo disgregare molecole, atomi e quark, e ricomporle a una distanza di 10.000 anni luce», quindi aggiunse, «Ad essere sinceri, qualche iarda in meno, ma preferisco arrotondare per eccesso.»

    Sarebbe superfluo dire che, come al solito, mi aveva lasciato esterrefatto. Poi il suo umore passò dall’entusiastico al pensieroso.

    «Purtroppo non riesco ancora a ricomporre la materia ad una distanza che non sia diversa dai 10.000 a.l. meno 14,852 iarde, non un miliardesimo di milionesimo di millimetro in più o in meno, ehm… questione di orbite, dell’interferenza delle Pleiadi e della curvatura dell’universo.»

    Che cazzo avrebbe dovuto farci la Terra laggiù resta un mistero, ma a Chris ero solito dare sempre e comunque il mio appoggio, anche quando non lo capivo. «Ah queste Pleiadi!» dissi, «sempre tra i coglioni!» Poi mi accigliai e, memore delle controindicazioni, gli chiesi: «Effetti collaterali?».

    Abbassò lo sguardo prendendo a grattarsi la chierica.

    «Chris, dunque?»

    «Durante l’operazione di disaggregazione, la materia potrebbe entrare in conflitto con l’antimateria trasformando i neutrini semplici in una sostanza più complessa, che battezzerei "neuterini", poiché per forma ricorderebbero l’organo riproduttivo femminile, i quali, aggregandosi, partorirebbero un buco nero di seconda generazione in grado di inghiottire la Terra e il Sistema Solare, fino a Proxima Centauri in pochi millesimi di nanosecondi. Ma la curvatura nel cuore della Via Lattea non risentirebbe degli effetti…» e concluse, «trovandoci ad occupare una regione periferica.»

    Stava peggiorando. «Stai dicendomi che rischieremmo di essere tutti inghiottiti da un’immensa fica?»

    «Il lessico non è tecnicamente corretto, ma questa sarebbe una possibilità.»

    Era giunto il momento di parlargli del mio progetto.

    «Un’agenzia investigativa? No, no e poi no! Pensa a cosa direbbe papino.»

    Per nulla avvilito, ribattei: «Che vuoi che dica, sei troppo in gamba per startene qui ad aspettare che crepi qualcuno. La medicina ha fatto passi da gigante. Ormai non muore più nessuno.» Addolcii il tono della voce. «Inoltre, potresti continuare con gli esperimenti senza il timore che possa arrivare papino a metterci il becco.» Feci una pausa ad effetto e continuai: «Mi occuperò io di tutto, tu sarai il mio asso nella manica. Verrai chiamato in causa solo nel caso in cui le indagini dovessero finire in un vicolo cieco. Sai bene che ti lascerei tranquillo nel laboratorio e disturberei le tue ricerche solo per ragioni improcrastinabili». Ennesima pausa e stilettata finale. «Ho troppa stima di…» Dio benedica le adulazioni. Chris si sciolse completamente.

    Passai a spiegargli che avremmo trasformato l’agenzia di papino in qualcosa di nostro, che saremmo stati soci e che avremmo assunto un paio di segugi in gamba.

    Fu allora che mi caddero le braccia. Il mio più caro amico, mio fratello di latte, la mia stella del mattino mi chiese: «Ma tu cosa ne capisci di investigazioni?»

    Avrei dovuto ucciderlo nella culla. «Che ne capisco… moi?» vedevo sangue dappertutto. «Ma se ho letto tutti i libri di Sherlock Holmes!» e aggiunsi, «Ho visto anche i telefilm con Peter Falk. E intendo l’intera serie. Posso andare avanti all’infinito, vuoi che continui?»

    Farfugliò titubante: «Be’… stando così le cose…».

    Avremmo dovuto crearci dei solidi precedenti, un curriculum di tutto rispetto per convincere i papaveri più facoltosi a rivolgersi alla DAOI: Discovery Agency of Investigations di Barnard e socio. E così chiamammo un hacker truffaldino di mia conoscenza.

    La figura di Bob faceva a cazzotti con chi ti aspetti che faccia il suo mestiere. Bob era scuro di pelle, villoso, tarchiato, basso, e grezzo come uno scaricatore di porto.

    Alcune leggende metropolitane raccontavano che la Microsoft, la McAfee ed il social del Signor Zuckerberg gli passassero mazzette sottobanco pur di farlo stare lontano da un pc. Ma queste società hanno sempre negato tutto e Bob fa lo gnorri, per cui non conosceremo mai la verità.

    Gli spiegammo le nostre esigenze. Ci chiese un paio di giorni per stravolgere completamente quella che era stata la storia mondiale dei servizi segreti degli ultimi vent’anni. Gli raccomandai soltanto di non esagerare. In fondo contavamo di pedinare mogli e mariti che tradivano i loro consorti e adolescenti che scappavano di casa. I serial killer, i preti pedofili ed i politici non sarebbero stati pane per i nostri denti.

    Annotò i nostri dati, ci fece alcune domande e sparì.

    Nel frattempo ci dedicammo ad arredare l’ingresso di quella succursale dell’aldilà con un paio di scrivanie, otto sedie da ufficio munite di quattro gambe cadauna e qualche computer. Acquistammo perfino alcuni gadget che dessero l’idea di un’agenzia estremamente professionale, come la locandina originale del primo film di 007.

    Lo spot per l’agenzia era stata una mia idea, e ne andavo fiero. Raffigurava il volto corrucciato di Bin Laden sotto cui si poteva leggere: «Se siamo stati in grado di scovare quest’uomo, saremo pur capaci di recuperare il vostro Fuffi».

    «Ora avete un passato», ci disse Bob aprendo la sua valigetta e passandoci alcune carte. «Qui ci sono i vostri tesserini, il vostro attestato di qualità e i vostri diplomi.» Aveva falsificato proprio tutto. «Ah, quasi dimenticavo… Andate su Google e digitate il nome della vostra agenzia: resterete meravigliati.»

    Ed ebbe ragione. Risultavamo sulla piazza da una decina di anni, con ottimi risultati ed una clientela di prestigio. Avevamo risolto delicate questioni internazionali, smascherato diversi banchieri dediti al riciclaggio di denaro sporco e collaborato con l’FBI in alcune indagini su giochetti di potere tra mafia e Stati.

    Avrei voluto sputargli in faccia, ma la frittata era fatta. Chris, che aveva la testa nel disgregatore di particelle, annuiva senza ascoltarlo. Era evidente che il fardello della società gravava tutto sul mio groppone. Così, in un ghigno a denti stretti, mi limitai a dirgli che, a mio parere, ci era andato giù un po’ pesante. Lo pagai, sperando di non incontrarlo mai più.

    Infine, mettemmo un annuncio su alcuni siti di job: «Rinomata agenzia investigativa ricerca apprendisti».

    3

    La chiesa di St. Patrick era uno dei tanti centri di culto presenti sull’isola. Sopra la cima di una collina, ad esempio, si trovava l’abbazia di St. Francis, molto grande ma inutilizzabile per l’occasione proprio a causa della sua pittoresca ubicazione. Poi vi era la chiesetta del centro di accoglienza situato ad ovest. Queste strutture coprivano le esigenze spirituali delle culture di tipo occidentale, ma essendo una società multirazziale, sull’isola si trovavano piccoli centri di preghiera destinati ad agevolare le necessità di tutte le principali correnti religiose. In linea di massima, i timorati di Dio, di Buddha e di Allah, tendevano a convivere in armonia e senza interferire nell’altrui credo. In dieci anni di storia, a dispetto degli attentati degli estremisti islamici perpetratisi nel resto del mondo, qui non si era mai verificata la più piccola scaramuccia.

    Padre Leonard osservava gli addobbi. Ghirlande di fresche rose rosse e bianche facevano capolino tutt’intorno all’altare, spandendo nell’aria la loro delicata fragranza. Il prete chiuse gli occhi e inalò quei profumi che andavano mescolandosi al forte aroma di incenso, come a volersi stordire. Le fiammelle dei ceri si alternavano a quelle più tenui dei lumi: erano disposte in ordinate file, ai fianchi dell’altare e lungo la navata centrale. Alle pareti si potevano ammirare colorati dipinti raffiguranti la vita di San Francesco, mentre sotto la cupola a tutto sesto c’era un enorme affresco dominato dall’immagine di Gesù Cristo inchiodato ai pali della croce. Questa maestosa figura non aveva la testa inclinata verso il basso, bensì eretta; guardava di fronte a sé con aria fiera, come a voler sfidare Satana in persona. Ai suoi piedi, Maria e la Maddalena lo osservavano inginocchiate, neppure i loro volti recavano tracce di dolore. Infine, una schiera di bellicosi angeli armati di spada faceva da sfondo al dipinto: sembravano in procinto di scendere in battaglia.

    Vi erano poi tanti, tantissimi pacchi ed altri addobbi, biglietti e mazzi di fiori. Tutti manifestavano il loro cordoglio e si accalcavano intorno ad Hilary per le rituali condoglianze. Riuscivano a raggiungerla al termine di una silenziosa processione, e Leonard, dall’alto della sua postazione, poteva osservare quella fiumana farsi spazio tra quelli che rimanevano assorti in preghiera. Tutti avevano voluto partecipare all’estremo saluto, non solo gli isolani, ma personalità venute da ogni dove si erano sottoposte alle invadenti perquisizioni, pur di non mancare. Il governatore era stato un uomo saggio e lungimirante, aveva avuto intraprendenza, spirito di sacrificio, ed una notevole dose di testardaggine. Ma aveva reso possibile un innovativo stile di vita. Quelli che durante gli anni erano approdati sulle coste di Open Arms erano relitti, gente ridotta all’elemosina, bisognosa di cure e di un pasto caldo. E Cassini non si era limitato ad accoglierli e sfamarli, aveva dato a ciascuno un’opportunità: aveva incoraggiato le loro aspirazioni, li aveva motivati, un poco per volta, come un ragno che tesse la sua tela. Con il tempo, ogni abitante acquisiva quelle abilità che gli consentivano di ottenere il lavoro più congeniale alle proprie attitudini. Cassini aveva fatto in modo che, partendo dai bungalow, dove venivano ospitati, arrivassero a potersi permettere una decorosa villetta e, se lo avessero desiderato, di formarsi una famiglia e dar vita ad una discendenza che avrebbe ricevuto la migliore istruzione e potuto anelare ad un futuro sereno. Aveva restituito all’uomo il suo bene primario: la dignità. Aveva messo in pratica ciò che gli altri paesi sviluppati si limitavano a promettere. Cassini era stato l’artefice di un miracolo sociale.

    Dall’altare, il prete poteva osservare gli sguardi afflitti degli astanti. Gente turbata e commossa si mescolava a gente pallida e stanca. Tutti pigiati, ma composti come semi di melograno. Padre Leonard si fece forza e cominciò il suo sermone.

    Dalle navate, la folla ascoltava le parole accorate del sacerdote. Era un uomo sopra i cinquanta, imponente, la cui mole avrebbe intimidito chiunque non ne avesse conosciuta l’indole. Aveva il collo taurino e, nonostante la tonaca, si poteva intravedere la muscolatura di un antico guerriero. Era un servitore fedele, umile e caritatevole.

    «[…] e per le tue opere, mancherai a quelli che ti hanno conosciuto […] Amen. Cari fratelli, preghiamo affinché il mio e…» Il sermone, nonostante la retorica, era stato seguito nel più totale silenzio. La platea era rimasta incantata dalla semplicità e dalla bellezza degli aneddoti con cui padre Leonard aveva ricordato lo scomparso.

    Nel salone della chiesa si trovavano alcuni tra i più stretti collaboratori di Cassini. Seduta ai primi posti c’era naturalmente Hilary Antoniadi, la compagna del defunto, l’unica persona avente diritto ad una panca riservata. La vedova era addetta all’istruzione e alle politiche sociali dell’isola. Dal fondo della sala si scorgeva il piccolo signor Wang, supervisore al centro d’accoglienza e responsabile della produzione. Lungo il corridoio di una navata laterale si muoveva irrequieta Nastassja Oort, l’ex moglie di Cassini, cofondatore del progetto Open Arms, vice governatore e coordinatore dei servizi ai cittadini.

    Si sarebbe creduto che questi fossero dei privilegiati, esponenti di potere ai quali tutto era consentito… e così sarebbe stato in qualsiasi altro luogo. Ma non qui.

    Padre Leonard invitò Mrs. Hilary a salire sul pulpito: avrebbe letto dinanzi a tutti le ultime parole del governatore. Poggiò un foglietto sopra il leggìo, si schiarì la voce e lesse. «Non pretendo né voglio che approviate il mio gesto, non nell’immediato. Ma sappiate: sarete sempre e comunque parte di me. Vi seguirò da lontano. Mark.» Hilary lesse quella riga con distacco, non aveva nemmeno rispettato la punteggiatura. Quel comportamento non stupì padre Leonard: non tutti reagiscono alla perdita di un caro nello stesso modo. In fondo, chi siamo noi per sentenziare?

    Nell’udire quelle parole sibilline, il signor Wang aggrottò le sopracciglia. Aveva già trascorso parte del tempo fissando Nastassja Oort e l’aveva trovata fredda e distante, anni luce dalla funzione in onore del suo ex compagno. Ad un certo punto gli era parso addirittura che sbuffasse. La donna si era dimenata tra la folla cercando con i suoi occhi azzurri qualcosa in fondo alla navata di sinistra. Il Signor Wang, da principio, non si era dato pena. Sapeva quanto Nastassja fosse rimasta legata al governatore, ma lo shock doveva averla resa apatica. E adesso aveva appena constatato con quanta sciatta monotonia Hilary avesse letto quel biglietto: c’era qualcosa che non quadrava.

    Erano entrambe affascinanti. Nastassja aveva un corpo slanciato. La bionda chioma lasciava le orecchie scoperte, i lobi attaccati al viso le donavano una sensualità aliena. Hilary, invece, era più alta e formosa. I suoi seni, pieni e rigogliosi, svettavano come massicci vulcani a scudo; le curve dei fianchi scivolavano via, inafferrabili; i glutei sporgevano eleganti, reclamando l’occhio dell’esteta. Faticava parecchio a nascondere le proprie grazie, e così andava in giro rigorosamente abbigliata. Non aveva mai imparato a gestire quel corpo capace di mille conquiste, temendone forse le conseguenze.

    Cassini aveva buon gusto, pensò il signor Wang.

    Milla Orion, l’atletica donna a capo della polizia, era tra i pochi intimi del defunto a non aver potuto assistere al rito funebre. Doveva gestire lo straordinario flusso di persone giunte per l’occasione, operazione non semplice. Aveva assunto diversi volontari delegandoli alle mansioni più inconsuete. Quella massa spropositata si era riversata sulla piccola isola, il cui delicato ambiente andava salvaguardato con la massima accortezza; per non parlare delle perquisizioni, dei controlli nei distretti e dei continui monitoraggi ai monumenti, alle piazze e alle strade. Si sentiva stremata.

    Il telefono dell’ufficio squillava ancora. Milla sollevò la cornetta. «Ufficio del comandante.»

    «La dottoressa Orion?» chiese una voce.

    «Chi è che parla?»

    «Sono Schiaparelli, si ricorda di me? Il reporter della Pernacchia Quotidiana.»

    Milla se lo ricordava bene. Antonio Schiaparelli, uno scribacchino che lavorava per un quotidiano italiano di terza categoria, noto soprattutto per quei titoli scurrili che i blogger riportavano in tutto il pianeta. Un tipo viscido e senza scrupoli che stava realizzando un servizio sulla morte del governatore. «Ah sì, mi dica.»

    «Mi chiedevo se… ehm, se per caso non aveste qualche immagine nitida del luogo dell’incidente. Quelle in mio possesso sono tutte sfocate. Insomma, per farla breve, non so cosa passare in redazione. Sa com’è… i lettori vogliono anche vedere, non posso semplicemente…»

    «Mi ascolti bene», l’interruppe Milla. «Sa che giorno è oggi?»

    «Sì, ma mi chiedevo se…»

    «Vedo che ancora non le è chiaro. Stiamo tutti a lutto, e le garantisco che qui non c’è un’anima disposta a lucrare su questa faccenda. Io mi chiedo come lei possa pensare di…» e senza terminare la frase, sbatté la cornetta sul ricevitore. Che stronzo!

    4

    Avevo trascorso gli ultimi due giorni ad affiggere la faccia di Bin Laden per tutta Plymouth, mentre Chris se ne stava rinchiuso in laboratorio. Non avevamo ricevuto nessuna chiamata, a meno che il mio Edison fingesse di non sentire gli squilli. La cassetta delle lettere, appena fuori dall’ingresso, conteneva un’unica bolletta intestata alla vecchia società di papino. Sulla posta elettronica compariva una sola e-mail, da parte di una ditta pseudo-farmaceutica che pubblicizzava il suo miracoloso prodotto.

    Ero appena rientrato in agenzia, avevo tra le mani il quotidiano trovato conficcato sotto la porta d’ingresso e volevo assicurarmi che il nostro annuncio fosse stato pubblicato. In prima pagina c’era un articolo riguardante i funerali di un certo Cassini. Mai sentito, mi dissi. A fondo pagina un trafiletto attirò la mia attenzione. "Il mistero dell’Ufo si infittisce: trovata buccia di banana all’interno del disco. Gli scienziati brancolano nel buio. Nessuna traccia dell’alieno". Entrai nel laboratorio di Chris, volevo approfondire quell’articolo insieme a lui. Mi liquidò con un gesto significativo, avevo scelto il momento sbagliato.

    Quando rientrai nella sala principale, mi trovai di fronte un energumeno. Se ne stava lì seduto, tutto assorto nella lettura di un libro. Sulla copertina si scorgeva l’immagine di una Luna deforme. Il titolo recitava: Il culo: questo sconosciuto.

    Era un nero enorme e grasso, tutto cicatrici e tatuaggi. Pregai che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1