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(Stra)ordinarie nevrosi di un allenatore dilettante
(Stra)ordinarie nevrosi di un allenatore dilettante
(Stra)ordinarie nevrosi di un allenatore dilettante
E-book218 pagine3 ore

(Stra)ordinarie nevrosi di un allenatore dilettante

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Info su questo ebook

Un protagonista (il narratore), nessun personaggio contraddistinto da nome proprio, nessun riferimento temporale, diversi episodi della stessa storia privi del vincolo di interdipendenza, eccezion fatta - ma non è condizione necessaria - per introduzione ed epilogo.

Una figura disturbata, nevrotica, un individuo alla deriva, ma... con un'insospettabile intransigenza per tutto ciò che concerne la sola realtà nella quale riesce a esprimersi, immaginandosi protagonista: il calcio.

Prima da giocatore, ora da allenatore, si confronta con l'ambiente insidioso che ha frequentato fin da piccolo attraverso una vita parallela, per quanto reale. Sullo sfondo il disagio della propria esistenza, tra dipendenza da alcol e fumo, l'abuso di psicofarmaci e ricorrenti pensieri di suicidio.

Storie di sesso invise al sentimento, complicati rinnovi contrattuali, metodi di allenamento e sistemi di gioco, riflessioni profonde sul significato della vita, vividi ricordi di partite esaltanti vissute in prima persona, inossidabili principi di etica sportiva, litigi furiosi, tentate combine, l'ipocrisia imperante del 'suo' mondo.

Come uscirne indenne per un uomo dissoluto con la personalità labile e instabile, ma sostanzialmente vittima di se stesso?
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2019
ISBN9788831620307
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    Anteprima del libro

    (Stra)ordinarie nevrosi di un allenatore dilettante - Enrico Di Bernardo

    Ines

    intro

    Ammetto, neppure io avrei saputo coglierne l'essenza. Ovvero, non sarei stato in grado di darle una connotazione specifica, così da poterla collocare tra le variegate emozioni endogene capaci di assoggettare l'essere umano: adrenaliniche piuttosto che rivelatrici, o ansiogene. Comunque, aleatoria. Per cui, non che fosse importante, decisi di classificarla genericamente come sensazione impropria. L'unica cosa certa è che mi sentivo terribilmente eccitato - evento che non capitava da lustri - come un gatto che rizza il pelo di fronte alla tracotanza del bastardino in calore.

    Avevo un aspetto trasandato, i jeans e la camicia - tappezzati di macchie preistoriche e di residui recenti - stavano in piedi da soli. I lunghi capelli castani, ormai scherniti dalle scorribande del tempo, avrebbero anche potuto luccicare di un fisiologico riflesso perlaceo se solo fossero stati quantomeno pettinati, senza con questo pretendere il dimenticato rito dello shampoo. Le rughe profonde sulla pelle incartapecorita del volto non lasciavano trasparire il ricordo del bell'uomo che ero stato, almeno così dicevano. Negli occhi, la devastazione ereditata in dote dall'abuso di amfetamine, dalla disintossicazione, dalla ricaduta nella morsa delle benzodiazepine e da una nuova riabilitazione, questa volta duratura.

    Negli occhi, in fondo, la sofferenza di una persona umiliata.

    Ora il mio sguardo aveva ripreso vigore; trasmetteva, in alternanza con la malinconia, una luminosità che accennava all'entusiasmo e invitava alla speranza. La postura, ormai non più dignitosa, sottendeva all'orgoglio ed i gesti acquisirono vitalità. Era la lectio magistralis di un uomo provato nel silenzio della solitudine.

    Eppure, nonostante tutto, non cercavo rivincite. In realtà non avevo rivincite da prendere con nessuno, se non - banale retorica - con me stesso. Sapevo bene di essere sempre stato un mediocre, in ogni percorso della vita: la scuola, il lavoro, i rapporti interpersonali in genere. In una cosa eccellevo, o al più pensavo di poter dare un piccolo contributo alla materia; insomma, qualcosa fuori dall'ordinario e, seppur fossi consapevole della leggerezza dell'argomento, ne andavo davvero fiero.

    Poi c'era la mia cerchia di amicizie - certo, persone mediocri quanto me, stando al verdetto che avevo emesso - la letteratura come passione, i classici greci, l'indagine introspettiva della narrativa sovietica soprattutto, con qualche sporadica incursione nella produzione intimistica mitteleuropea del primo '900. Ma niente poesia; io odiavo l'assonanza delle rime, l'imposizione della ritmica, le allitterazioni, le ridondanze; ero uno spirito indisciplinato, mi avvicinavo insofferente agli schematismi.

    E, dei tempi ormai remoti, potevo ricordare le morigerate ambizioni da seduttore che, a fasi alterne, contraddistinsero con ingiustificabile generosità gli slanci epicurei dei miei trascorsi.

    Tuttavia, e lo dico sottovoce, io qualcosa avrei salvato: per esempio, riconoscevo in me la pregevole qualità di trasformare un moderato eloquio in un colto turpiloquio, arricchito da un ordinato intercalare di epiteti ma anche di suggestioni. Inoltre non ero prevedibile, il che, se da un lato mi emarginava dal contesto dell'ordinarietà, dall'altro mi preservava dall'imbarazzo dell'ovvio.

    E ancora, causa le perpetuate riflessioni sulla precarietà dell'esistenza, avevo acquisito una certezza che rasentava la blasfemia; Dio non è artefice degli avvenimenti. Dio osserva, e forse giudica, ma non interviene. Mai. Qualora esista. Ai miei occhi questo assioma rivalutava un luogo comune fin troppo abusato: ognuno è artefice del proprio destino, affermazione che divenne per me un feticcio di speranza, un paradigma taumaturgico e rassicurante allorquando provai ad alzare la testa.

    Di qui la mia storia, tra flashback e ricordi sbiaditi, nella quale la confusione detta i tempi. Confusa, d'altronde, è stata tutta la mia vita, e ringrazio la passione per il calcio, àncora di salvezza alla quale aggrapparsi prima della deriva.

    riflessioni

    Scusa... scusami. E' la prima volta che mi succede le dissi senza peraltro provare imbarazzo, nonostante si trattasse di una palese falsità. Non avrei dovuto essere qui… scesi dal letto e mi avviai nudo giù per le scale.

    Dovevo recuperare subito i vestiti, sparpagliati per i gradini e lungo il corridoio, e andarmene immediatamente da quell’appartamento un po’ troppo naif.

    Lei cercò di trattenermi, prima con le parole: Non importa, dai… non importa, resta, a te ci penso io, conosco molti rimedi… un timido tentativo di afferrarmi il braccio con cui avevo scostato il lenzuolo. Ma non mi corse dietro. Per lei non ero altro che una facile preda - che forse le aveva anche minato l’autostima sulle comprovate capacità seduttive, nonché su quelle di suscitare desiderio - in ogni caso una conquista da esibire come trofeo alle amiche intime, quelle che sapevano. Nemmeno si sarebbe sognata di sprecare troppe energie per convincermi a rimanere, per ascoltarmi e magari comprendermi, era un comportamento che esulava dalla sua spiccata declinazione erotica.

    Piuttosto, si buttò sconsolata sul materasso spiegazzando disordinatamente la biancheria di raso grigio perla, scatenando scintillanti riverberi sintetici alla luce soffusa della lampada bohémien lasciata deliberatamente accesa. A lei piaceva guardare e guardarsi durante i contorsionismi cui obbligava i propri stalloni e con cui espletava l’amplesso.

    Indispettita, si sistemò supina liberando completamente il corpo virtuoso dal lenzuolo e allargò le lunghe gambe cominciando ad accarezzarsi.

    Prima ancora che varcassi la soglia dell’uscita la sentii gemere soddisfatta; non mi sarei mai curato di sapere se avesse usato quell’espediente come strumento di umiliazione nei miei confronti o se fosse stata l’espressione sincera del suo piacere. Ormai non era più affar mio.

    'Ma come cazzo ho potuto finire in quel letto!' mi dico mentre accendo una Marlboro Light. Sono passato alle Light da quando, facendo il 3 contro 3 con i miei giocatori, mi sono accorto di non beccarla proprio mai e di vedermi superare da diciottenni sbarbati al doppio della velocità a cui riesco andare io. E poi l’affanno.

    Sarà l’età o saranno i polmoni? Nel dubbio - l'idiosincrasia per i camici bianchi mi tiene ben distante dagli ippocratici generici quanto da quelli specializzati - vale la pena fare una piccola rinuncia. Peccato che non riesca a rinunciare anche alle donne, soprattutto quelle degli altri.

    Pensai a quanto fossi fortunato che il capitano in estate avesse accettato le lusinghe del Rivarolo, almeno non avrei dovuto guardarlo negli occhi.

    Pensai anche a quanto fosse sfortunato - al netto della mia conclamata passione per la carne e la perseverante induzione al peccato altrui - ad avere una moglie così troia.

    Riuscirò mai un giorno a trasferire nella vita privata i principi integerrimi che sottoscrissi con me stesso all’inizio della carriera da allenatore e che avevo perseguito senza compromessi fin da quando cominciai a calcare i terreni erbosi di mezza Italia? Principi etici, morali, fondamentalmente sportivi intendo. E non ho mai pensato, viceversa, fosse un paradosso disattendere puntualmente le indicazioni di buon comportamento prescritte da ognuno degli altri ambiti dell’esistenza, almeno della mia.

    No caro mio, non mi prendere per il culo! urlai al Mister lasciando il campo, sfilandomi in un gesto di stizza la gloriosa maglia azzurra della Strambinese proprio nel bel mezzo di un’azione avversaria, dopo venti minuti dall’inizio della partita, acquisita la certezza che l’incontro era combinato.

    Nell’intervallo fu il putiferio.

    Ero giusto uscito dalla doccia quando i miei compagni rientrarono nello spogliatoio. Li guardai uno per uno negli occhi, occhi nei quali potei leggere solidarietà mista a vergogna, oppure disprezzo e superiorità.

    Per ultimo arrivò l’allenatore, titubante, intimidito dalla mia presa di posizione.

    E’ una vergogna! gli urlai in faccia. E’ una vergogna! urlai in faccia a tutti.

    Ma piantala! fu la reazione di un senatore della squadra, e impara a stare al mondo! sentenziò, senza peraltro cercare il mio sguardo.

    Cazzo, complimenti! sei proprio un bell’esempio da seguire. Quanti siete? Tutti?

    Mister, io non rientro mormorò il nostro libero.

    Neanche io gli fece eco il capitano.

    Cambi anche me si aggregò uno dei più giovani del gruppo.

    Io non aspettai oltre, terminai frettolosamente di vestirmi, guardai il Mister, che naturalmente rimase in silenzio a testa china, lanciai un’occhiata di biasimo a chi lo stava sostenendo - a parole o col silenzio - e me ne andai sbattendo la porta.

    Al rientro in campo erano in undici. L’allenatore, o chi per esso, aveva fatto le due sostituzioni che gli erano ancora concesse dal regolamento, inserendo due ragazzini, i più giovani della rosa, che non si sarebbero mai permessi di dissentire. Il capitano era regolarmente in campo, convinto da qualcuno a continuare o chissà se per un rigurgito di spirito corporativo.

    La sera stessa affrontai il Presidente. Mi dica che lei non sapeva esordii.

    E’ stato davvero squallido fu la sua risposta.

    Mi aspetto provvedimenti seri, altrimenti me ne vado. Potevo permettermi l’arroganza con cui lo incalzai, ero un leader dello spogliatoio, e per attaccamento alla Società avevo rinunciato a proposte molto allettanti, oltre che a ingaggi cospicui. Lui lo sapeva bene.

    Mancano quattro partite, dai, i provvedimenti li prenderò per l’anno prossimo, puoi starne sicuro.

    E così ci congedammo con un tacito accordo.

    Le settimane successive, ottenuto il suo consenso, mi autoesclusi dalla rosa, andandomi ad allenare con la juniores fino al termine della stagione. Ero troppo orgoglioso, fedele a principi di coerenza non negoziabili, per presentarmi di fronte alla squadra con le orecchie basse.

    In estate venni a sapere, in via informale, che il Mister, il capitano e i personaggi più ambigui furono tutti confermati. Non attesi oltre, chiesi immediatamente di essere ceduto. Non era quello il mio mondo, il mondo nel quale mio padre mi aveva introdotto a nove anni. E se certamente qualcuno avrebbe potuto mettere in discussione uno stile di vita a dir poco dissoluto, nessuno poteva attaccarmi sul piano dell’etica sportiva. Però dovevo accertarmene; per sopravvivere nel complesso universo che mi ospitava avevo ormai rinnegato ogni forma di compromesso. Forse ero anche un ingenuo, ma come potevo continuare se avessi mai scoperto che l’eccezione in realtà fosse la regola?

    metodo

    Ho sempre diffidato di chi abusa delle frasi fatte, 'fa parte del percorso di crescita' o delle locuzioni stereotipate, 'assolutamente sì' o di aggettivi intercalati con inappropriata abbondanza nel discorso, 'importante', che mi sembrano un espediente per uscire dalla povertà lessicale (il che non è un peccato) piuttosto che tecnica (questo sì che è un peccato), vedi la consueta 'collaborazione' con il preparatore atletico anche quando si esercita nelle categorie minori; non rappresenta in buona sostanza la delega di una competenza che non appartiene al bagaglio professionale di chi se ne fregia? E che dire della ripetitività degli allenamenti? Il primo, il 16 Agosto, pressoché uguale all'ultimo, a fine Maggio.

    E' vero, i tempi stanno cambiando, stiamo andando verso una differenziazione delle sedute; si copia e incolla da Internet qualche esercizio suggerito dai santoni della rete o si attinge dai manuali della F.I.G.C., applicando incondizionatamente alla propria squadra quanto memorizzato, o peggio riportato sul foglietto; ora, senza addentrarsi in concetti di fisiologia, l'allenamento fisico va parametrato sulle potenzialità degli atleti - che si possono stabilire con semplici test da campo, quando impossibilitati in misurazioni strumentali - e costantemente adeguati alla crescita della prestazione, se non con improbabili allenamenti personalizzati, per lo meno con la suddivisione in gruppi di lavoro quanto più omogenei.

    E che dire della tecnica individuale? Come può insegnare a calciare un pallone colui che non è capace di farlo? Ognuno deve assumere il proprio ruolo, non ci si può improvvisare demiurghi; le ripercussioni dell'incompetenza e dell'incapacità si riflettono soprattutto a livello giovanile.

    E la tattica? Individuale, di reparto, di catena, di squadra.

    Quest'anno giochiamo a zona! ci disse l'allenatore, millantando risultati strabilianti.

    Era un periodo nel quale solo alcuni illuminati progressisti del football stavano applicando il modulo a zona in serie A, in una realtà contraddistinta da rigide marcature a uomo in ogni zolla del campo. Ebbene, sulle ali dell'entusiasmo qualche avveduto pioniere pensò di adattare il nuovo che avanza alla realtà del calcio dilettantistico, professando il verbo della spettacolarità.

    Mister, nessuno di noi ha mai giocato a zona! obiettò uno dei calciatori più esperti di tutta la rosa.

    Ma non c'è nulla di complicato! Ognuno di voi si occupa della zona di campo di propria competenza, lasciate perdere l'uomo che esce fuori dal vostro controllo, ci penserà il compagno più vicino...

    E così, senza concetto alcuno di coperture, movimenti a scalare, elastico difensivo, pressione sulla palla, e quant'altro di fondamentale nella nozionistica del gioco a zona, senza una pur minima didattica, né teorica né pratica, vincemmo il campionato di Promozione accedendo alla massima categoria dilettantistica, la serie D.

    L'anno successivo, in seguito all'esonero del Mister dopo poche partite, tornammo mestamente alla marcatura a uomo.

    Io adottai il nuovo modello per la prima volta da allenatore in Seconda categoria e posso sostenere con cognizione di causa di essere stato il precursore in Canavese e uno dei primi in Piemonte. Correva l'anno... e chi ne ha memoria! Pazienza. Ricordo però che i calciatori, pur apprezzando e concedendo la propria totale disponibilità - suggestionati evidentemente da ciò che vedevano in televisione - non erano ancora pronti, dal punto di vista mentale, a un approccio così distante dalle loro radicate abitudini. Difficoltà che venivano amplificate nell'applicazione dei precetti tattici, tali da richiedere un livello troppo alto di attenzione e soprattutto una responsabilizzazione con cui non avevano mai avuto modo di confrontarsi.

    La mia esperienza terminò alla sesta o settima giornata di campionato quando, di fronte a risultati deludenti, rassegnai le dimissioni, prontamente accettate. Immagino che neanche la Società fosse pronta per un passo così ardito, priva com'era del necessario indottrinamento. Ma in fondo, prima o poi bisognava iniziare.

    Non posso e non voglio certamente escludere quale causa dei primi fallimenti la mia scarsa esperienza nella propedeutica dell'insegnamento, non avendovi io stesso mai giocato a zona, se non per quella parentesi trionfale ma assolutamente casuale. Per cui, l'evidenza sta nel fatto che non ero ancora stato in grado di affinare gli strumenti della materia, sia metodologici che psicologici, dazio inevitabile da pagare all'autodidattica. In sostanza, pur sapendo muovermi disinvoltamente nel campo teorico, non ero in grado di rimediare con prontezza alle variabili situazionali che mettevano in difficoltà il pensiero dell'atleta, intempestivo nel risolvergli il dubbio (problema inesistente nella marcatura a uomo), e incapace di stimolarlo con la giusta spinta motivazionale.

    Il giorno del ritrovo, davanti a giocatori e dirigenza, declamai un discorso che avrebbe dovuto essere quantomeno propiziatorio. Quello che non dovete mai dimenticare, e deve essere ben chiaro ai dirigenti qui presenti, è che il vostro errore, mi riferivo ai calciatori, "è un mio errore, indirizzai l'attenzione generale sul pronome calcando il tono di voce, che non accetto critiche ai miei ragazzi intesi come singoli né come squadra perché quel che accade sul terreno di gioco è di esclusiva responsabilità dell'allenatore, e se voi sbagliate un passaggio perché non avete fatto la scelta giusta, quel passaggio l'ho sbagliato io. E se siete fuori posizione è perché io non vi ho dato gli strumenti per essere nel posto giusto al momento giusto. Su questo non ci devono essere dubbi di interpretazione guardai direttore sportivo e Presidente, affiancati accanto la porta. Se ognuno di voi riuscirà a cogliere l'essenza di quanto vi propongo, vedrete che i risultati non tarderanno ad arrivare, e non potranno che essere il frutto maturo di un gioco organizzato, consapevole, e non ultimo, bello da vedere. In cambio chiedo impegno e collaborazione, da parte di tutti. E un po' di pazienza. Non voglio alibi per nessuna delle difficoltà cui andrete inevitabilmente incontro, visto che il vostro

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