Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Sale di mare e lacrime
Sale di mare e lacrime
Sale di mare e lacrime
E-book248 pagine3 ore

Sale di mare e lacrime

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una storia potente su cinque generazioni di donne e sui legami di amore e colpa che le uniscono attraverso il tempo e i confini.

"Uno splendido affresco di coraggio, determinazione e lotta per la libertà." - The Washington Post

"Sale di mare e lacrime è un meraviglioso romanzo che, come un caleidoscopio di luci, illumina la linea sfumata tra chi è stato accolto e chi rimane un fantasma." — The New York Review of Books

"Uno straordinario ritratto di donne che lottano, amano, cadono, si rialzano, si perdono e si ritrovano."— Literary Hub

"Gabriela Garcia ritrae la vita delle donne cubane in un mondo a cui rifiutano di arrendersi e lo fa con precisione, generosità e bellezza."— Roxane Gay

Cuba, 1866. María Isabel è la sola lavorante donna in una fabbrica di sigari. Ogni giorno, mentre le sue mani arrotolano incessantemente il tabacco, ascolta le parole di un uomo, Antonio, che legge per loro. Sono parole che la trasportano in mondi sconosciuti, come quello dei Miserabili di Victor Hugo, e che le aprono la mente e il cuore. Ma gli echi della guerra si fanno sempre più vicini…

Cuba, 1959. Dolores guarda il marito allontanarsi verso le montagne. Ha risposto alla chiamata alle armi di Fidel Castro e nella sua anima lei spera che non torni più. Ma se dovesse farlo, Dolores sa che per sopravvivere dovrà compiere una scelta che sconvolgerà il mondo di Carmen, sua figlia.

Miami, 2016. Carmen, immigrata cubana, negli Stati Uniti credeva di ricominciare dimenticando un passato pieno di contraddizioni per offrire alla figlia Jeanette un futuro migliore. E invece il sogno americano si rivela per lei un’illusione, perché ogni giorno ripensa a Cuba e al rapporto di amore-odio con la propria madre, che non vede da anni. La stessa donna che Jeanette, ribelle e in continua lotta contro la tossicodipendenza, vorrebbe incontrare per saperne di più della storia di famiglia e capire meglio se stessa.

Ognuna di queste donne lotta fino allo stremo per la sopravvivenza, fedele alle parole annotate su quel libro di Hugo che si tramandano da generazioni: "Siamo forza. Siamo più di quanto pensiamo".

Dalle fabbriche di sigari cubani ai centri di detenzione per migranti, passando per la periferia di Miami, Sale di mare e lacrime è un esordio di grande forza narrativa, onesto e bruciante. Con una prosa a un tempo poetica e schietta, Gabriela Garcia ci porta nel cuore oscuro dell’America moderna raccontandoci una storia di diaspora. E di madri e figlie che combattono per innalzare la loro voce dal silenzio in cui sono relegate.

LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2022
ISBN9788830538900
Sale di mare e lacrime

Correlato a Sale di mare e lacrime

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Sale di mare e lacrime

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Sale di mare e lacrime - Gabriela Garcia

    1

    SMETTETE DI DANZARE

    María Isabel

    Camagüey, 1866

    Alle sei e mezzo, quando gli arrotolatori di sigari si sedettero alla propria postazione davanti a mucchi di foglie di tabacco e il caposquadra suonò la campana, María Isabel chinò la testa, si fece il segno della croce e prese la prima. Anche il lettore si preparò sulla piattaforma rialzata, solo che lui in mano reggeva un giornale piegato a metà, non foglie scure.

    «Gentiluomini del laboratorio» disse, «cominciamo oggi con una lettera di immensa rilevanza scritta dagli stimati redattori di La Aurora. Questi uomini di cultura manifestano un affettuoso riconoscimento per quei lavoratori che, aspirando a certi ambiti del sapere, come la scienza, la letteratura e la morale, alimentano il progresso di Cuba.»

    María Isabel passò la lingua sul lato inferiore e gommoso di un’altra foglia, il suo sapore amaro, terroso, ormai le risultava familiare come se le fosse connaturato. Poi, una volta ammorbidita, la poggiò sugli strati già pronti, le lunghe venature ammassate una sull’altra. Gli arrotolatori, che potevano fumare tutti i sigari che volevano, accendevano i fiammiferi e davano tiri generosi con le mani richiuse sulla fiamma. L’aria si fece pesante. María Isabel aveva già respirato così tanta polvere di tabacco che ormai il naso le sanguinava regolarmente, ma il caposquadra permetteva loro di tenere le finestre appena socchiuse, altrimenti la luce del sole avrebbe seccato i sigari. Tossiva di nascosto, dunque. Era l’unica donna. Non voleva mostrarsi debole.

    Secondo gli standard locali, la fabbrica non era grande: solo un centinaio di dipendenti, comunque abbastanza per arrotolare le foglie di tabacco provenienti da una piantagione a un chilometro e mezzo da lì. Essiccate al sole e poi ridotte a striscioline annerite della stessa consistenza della carta, venivano conservate in un silo di legno al centro della stanza, da cui attingevano gli arrotolatori prima di tornare alla loro postazione. Accanto a esso, proprio di fianco alla sedia dove stava seduto Antonio, il lettore, era appoggiata una scala.

    Mentre sollevava il giornale, Antonio si schiarì la voce. «La Aurora, venerdì 1° giugno 1866» cominciò. «La disciplina e i sani princìpi morali che i nostri produttori di sigari hanno imposto nelle fabbriche e l’entusiasmo da essi manifestato verso la cultura, non sono forse prove evidenti del progresso del paese?»

    María Isabel rovistò nel mucchio di foglie e mise da parte per il ripieno quelle di qualità inferiore.

    «… Entrando in una fabbrica che dà lavoro a duecento persone, si rimane sbalorditi nel constatare che regna un ordine assoluto, e si percepisce come chiunque trovi ispirazione e incoraggiamento in un obiettivo comune, cioè compiere il proprio dovere…»

    La ragazza sentì un caldo pizzicore diffondersi sulle spalle. Con il passare delle ore, il fastidio sarebbe aumentato, trasformandosi in un dolore pulsante, tanto che a fine giornata a malapena sarebbe riuscita a sollevare la testa. Compiere il proprio dovere, compiere il proprio dovere… Le mani le si muovevano da sole. Al suono della campana, avrebbe guardato la pila di sigari, lisci come argilla, sorpresa di averli arrotolati tutti da sola. Si immaginò i diversi strati di marrone fondersi l’uno nell’altro – tavoli che diventavano pareti, foglie che diventavano occhi, braccia aperte che si muovevano in successione finché cose e persone non fossero diventati parte della stessa poesia fisica, della stessa canzone fatta di sudore. Pausa pranzo. Era esausta.

    In città, un’unica strada sterrata arrivava dentro il cancello della fabbrica e poi proseguiva fino alla piantagione di zucchero, un chilometro e mezzo più avanti, entrambe proprietà dei Porteños, una famiglia creola. Per tornare a casa María Isabel percorreva questa via che si snodava nell’oscurità e le concedeva brevi momenti di sollievo dal sole inclemente. Ripensò alle parole di Antonio: Per loro studiare è ormai diventata un’abitudine; ai combattimenti tra galli preferiscono la lettura di un libro o di un quotidiano; disdegnano l’arena dei tori; oggigiorno sono il teatro, la biblioteca e i centri ricreativi che li si vede frequentare con assiduità.

    Verissimo, da quando La Aurora aveva rivelato la natura incivile dei combattimenti tra galli e tori, il numero dei partecipanti era diminuito. I cubani non avevano rinunciato a quegli sport sanguinosi solo in virtù della raccomandazione contenuta nel giornale, però. Erano anche preoccupati. Altri lavoratori riferivano di gruppi ribelli che si opponevano ai lealisti spagnoli, di uomini che si esercitavano in gruppo pronti a unirsi ad altri diretti a ovest, verso L’Avana. La recente morte del padre, consumato nel giro di poche settimane da una demoniaca febbre gialla, aveva lasciato María Isabel troppo apatica per accorgersene e preoccuparsene. D’altra parte, in giro non si parlava d’altro.

    All’epoca in cui le voci sulla guerriglia avevano ormai raggiunto la parte dell’isola dove viveva lei, si erano diffuse anche storie di lotte intestine. I generali delle milizie andavano e venivano, sostituiti non appena i loro ideali diventavano un peso. L’Avana, una serie infinita di proprietà spagnole, guardava alla rivolta con indifferenza, e appariva sempre più probabile che la regina avrebbe represso con la forza qualsiasi tentativo di ribellione. Secondo María Isabel, un’ansia bruciante aveva da tempo preso il posto dei nobili princìpi originari di libertà e autonomia. Lei odiava l’ignoto. Non sopportava che la propria sopravvivenza dipendesse da un futuro politico oscuro che stentava a prendere forma.

    Casa. Aurelia, sua madre, se ne stava seduta per terra, la schiena appoggiata contro il fango fresco del bohío dove abitavano. Anche lei era appena tornata dal lavoro nei campi.

    «Mamá?» María Isabel si allarmò nel trovarla in quello stato, sul viso un rossore inusuale che le arrivava fino alla punta delle orecchie.

    «Estoy bien» le rispose. «Sono solo distrutta per la camminata. Lo sai che ormai faccio sempre più fatica.»

    «Non è vero.»

    María Isabel la aiutò a rimettersi in piedi reggendosi con una mano alla parete.

    «Mamá…» Le toccò la fronte con il dorso della mano, che emanava un odore di succo di tabacco così intenso che sua madre sussultò. «Mettiti fuori al fresco e riposati un po’ sull’amaca, ti va? Preparerò io il pranzo.»

    Aurelia le accarezzò il braccio. «Sei una brava figlia.»

    Si incamminarono verso un’amaca fissata a due palme.

    Nonostante fosse esausta dopo decenni di lutti e duro lavoro, la madre di María Isabel conservava una certa eleganza. Aveva la pelle liscia, segnata solo da qualche ruga, i denti bianchi e diritti. Dopo la morte del marito, aveva avuto parecchi pretendenti, uomini sdentati e con la pelle incartapecorita e raggrinzita dal sole, che si presentavano con ben poche ricchezze – un asino, una piccola piantagione di manghi e platani – ma le promettevano che si sarebbero presi cura di lei. Aurelia, però, li allontanava. «Una donna non rinuncia mai all’amore per Dio, il proprio paese o la famiglia» rispondeva all’epoca finché, a un certo punto, gli uomini avevano smesso di cercarla. «Morirò vedova, è questo il mio destino.»

    María Isabel, però, la vedeva sempre più debole. Trovare un marito alla figlia era diventata per lei un’aggressiva forma di devozione. Lei, invece, protestava: era più felice in fabbrica, nei campi, a sudare sul focolare, a sbucciare yucca e platani per poi buttarli in una cazuela di ferro battuto piena d’acqua bollente con le maniche rimboccate fino ai gomiti, a raccogliere sangue di maiale in un secchio d’acciaio per preparare salsicce nere lucenti, ad aprire in due un cocco gonfio d’acqua con un machete. Non c’erano dubbi che fare l’arrotolatrice di sigari era un lavoro rispettabile, che aveva a lungo agognato, visto che prima di ricevere un salario regolare era stata apprendista per quasi un anno, eppure per ogni pezzo la fabbrica la pagava la metà rispetto agli uomini; inoltre era l’unica operaia, e sapeva che ai colleghi non andava a genio. Avevano sentito parlare di una nuova invenzione in uso all’Avana, uno stampo grazie al quale chiunque avrebbe potuto arrotolare facilmente un sigaro ben stretto, e temevano che la presenza di María Isabel fosse un’anticipazione di ciò che sarebbe presto accaduto: avrebbero perso il lavoro a vantaggio di donne senza esperienza e di facili costumi e di sudici bambini che avrebbero accettato di sgobbare per quattro soldi. Le suggerivano di intrattenere uomini, così avrebbe guadagnato molto di più. Inoltre, rispetto agli altri le veniva trattenuta dal salario una somma più cospicua per pagare il lettore.

    In momenti come quello, mentre osservava dalla finestra sua madre paonazza in volto distesa sull’amaca, si immaginava un mondo in cui Aurelia non avrebbe dovuto lavorare, in cui lei avrebbe potuto prendersi cura dell’anziana, anziché passare il tempo ad arrotolare tabacco in fabbrica. Inoltre, rassegnata, sapeva che avrebbe detto sì a qualsiasi uomo le avesse offerto una vita meno dura. Era questo il suo destino.

    Dopo la pausa pranzo, dal giornale si passava ai romanzi: Victor Hugo, Alexandre Dumas, perfino William Shakespeare; Il conte di Montecristo, I miserabili, Re Lear. Alcuni titoli erano così popolari tra gli arrotolatori che i sigari avevano preso il nome dei protagonisti delle storie, come il Montecristo, scuro e sottile, o il panciuto e dolce Romeo y Julieta, le fascette impreziosite da immagini di giostre e amanti sfortunati.

    Erano all’inizio del secondo volume dei Miserabili, scelto dopo che Antonio aveva terminato Notre-Dame de Paris mediante una votazione che stranamente aveva dato risultato unanime. Al termine della lettura di Notre-Dame de Paris, dai presenti era partito un lungo applauso, per cui don Gerónimo, che dirigeva la fabbrica al pari del malvagio arcidiacono della cattedrale parigina, li aveva rimproverati. Poi, quando Antonio aveva rivelato di essere in possesso della traduzione in spagnolo di un altro romanzo di Victor Hugo, cinque volumi di ribellione e redenzione, rivolte politiche e amore, che promettevano di essere commoventi e illuminanti prima di giungere a una dolorosa conclusione, i lavoranti avevano esultato.

    Era stata la votazione meno controversa della storia della Porteños y Gómez. Ormai María Isabel passava i pomeriggi a viaggiare fino alla costa della Francia velata dalla foschia, ben oltre i campi di canna da zucchero e le piantagioni impregnate di sale marino. Si immaginava di percorrere le strade acciottolate di Parigi, di immergere i piedi nella Senna, di attraversare i ponti e gli archi sul fiume in carrozza come una nobildonna. Lisciò una foglia cartilaginosa tra le labbra e trattenne il respiro in trepidante attesa, mentre l’ispettore di polizia Javert catturava di nuovo il fuggiasco Valjean. Pensò alla fuga, alla cattura. Pensò a se stessa. All’eventualità che qualcuno scrivesse un libro sulla sua storia. Qualcuno come lei.

    «Non si è inoperosi, solo perché si è assorti. Vi è il lavoro visibile e il lavoro invisibile.»

    Antonio declamava Victor Hugo con fervore, come se la loro attività, cioè arrotolare foglie di tabacco, dipendesse dalla sua lettura. E, in effetti, per molti versi era così. María Isabel si ripeteva che lei, anziché stare a casa, come qualsiasi altra giovane donna, ad aspettare eventuali pretendenti, si vedeva costretta a sgobbare in questa fabbrica soffocante perché non aveva un padre o un fratello che coltivassero l’arido appezzamento di terra che possedeva la sua famiglia. Ma non vedeva l’ora che arrivasse ogni nuovo giorno, desiderosa di esplorare i mondi che le si aprivano davanti mentre se ne stava china sulle sue foglie di tabacco a dare gli ultimi ritocchi a rotoli e sigilli – notizie dalla capitale in cui era stata solo una volta, annunci di curiosità scientifiche e denunce contro proprietari terrieri crudeli o disonesti, diari di viaggio da luoghi remoti, quasi inimmaginabili per lei.

    E poi c’erano i regali. Una volta, uscendo dalla fabbrica, aveva visto Antonio accanto a don Gerónimo che leggeva ad alta voce i dati relativi alla produzione e alle quote del giorno. Antonio aveva legato il cavallo a un palo e gli aveva fissato una sella sul dorso, una tecnica che finora aveva visto solo all’Avana, dove la gente non montava a pelo come in campagna. Rimase colpita, e forse lui scambiò il suo sguardo assorto per un ammiccamento di altra natura perché la mattina seguente si ritrovò sulla sua postazione una ghirlanda di fiori di bouganvillea viola. E poi, prima che cominciasse a leggere le notizie di quel giorno, Antonio la salutò inclinando il cappello e le sorrise guardandola negli occhi.

    Prese paura, naturalmente, temeva che don Gerónimo vedesse i fiori sulla sua postazione e la convocasse per comportamento indecente, magari le riducesse la paga o, peggio ancora, la considerasse irriguardosa e si sentisse autorizzato a farle avance ancora più insistenti – chi mai poteva sapere cosa don Gerónimo ritenesse lecito fare o non fare. Manifestava una rabbia irrefrenabile, imprevedibile, immotivata. L’aveva minacciata spesso, addirittura l’aveva afferrata per la nuca quella volta in cui si era distratta mentre ascoltava Antonio leggere, rallentando il ritmo di lavoro. I lividi a forma di cinque dita erano durati settimane. Nessuno dei presenti l’aveva difesa, nemmeno Antonio. Perciò, si nascose i fiori sotto il colletto. E alla sera lasciò la fabbrica tenendo gli occhi fissi a terra, preoccupata che Antonio la guardasse di nuovo, perché di sicuro non avrebbe saputo cosa dire.

    I regali, però, continuarono – un mango maturo e profumato; un calamaio completo di una delicata penna d’oca; una minuscola spilla filigranata in metallo. Quando li trovava sotto strati di foglie di tabacco, li nascondeva come meglio poteva. Non raccontò a nessuno del corteggiamento e soprattutto continuò a evitare lo sguardo di Antonio, anche se a volte, quando leggeva un passaggio particolarmente dolce e lei alzava la testa per un secondo appena, si ritrovava gli occhi di lui sempre fissi su di sé.

    Poi, una mattina si era sistemata alla propria postazione e, in bella vista, aveva trovato un libro, il dorso blu ruvido al tatto, le pagine sottili e lisce come papiro. Non era in grado di leggerne il titolo, dunque lo nascose sotto la mensola dei sigari finiti. María Isabel sapeva che don Gerónimo avrebbe ritenuto presuntuoso da parte sua portare un libro in fabbrica, l’avrebbe accusata di indolenza, magari l’avrebbe pure rispedita a casa, convinto che una donna non sarebbe mai stata capace di imparare le severe norme di comportamento richieste sul posto di lavoro. All’ora di pranzo si fiondò a casa con il libro sottobraccio, e, mentre faceva bollire la yucca sui ceppi ardenti, se ne servì per allontanare il fumo. Quando fu sicura che sua madre non stesse guardando, tracciò con il dito il profilo delle parole sulle pagine, ripercorrendone le curve e gli angoli improvvisi. Il bisogno di seguire quegli archi e quelle curve sulla carta, di memorizzarne la sensazione, era come arrotolare foglie di tabacco. Nascose il libro sotto il letto.

    Quel pomeriggio, incrociò Antonio vicino al suo cavallo e gli comunicò la sua richiesta prima che lui potesse aprire bocca: «Se posso essere così sfacciata da entrare in argomento, e perdonatemi l’indiscrezione, riguardo al titolo del libro che avete lasciato sul mio…».

    «Che cosa vi fa pensare che sia stato io?» Antonio le rivolse un sorriso che si allargò sulle sue guance butterate. D’istinto María Isabel si prese l’orlo della gonna, pronta ad andarsene.

    Ma Antonio la fermò, appoggiandole una mano sul braccio. «Cecilia Valdés. Una novella. Ignoravo che non sapeste leggere. Non avrei dovuto essere così sfacciato, spero vorrete perdonarmi. In tutta sincerità, vi assicuro che non ero in malafede.»

    «Perché me l’avete dato?»

    «Vi sembrerò scontato, lo so, ma mi ricordate Cecilia Valdés, la protagonista. Forse è per questo che sono così attratto da voi.»

    Non sapendo come reagire, María Isabel si limitò a distogliere lo sguardo. «Devo tornare a casa prima che faccia buio» replicò. Prima che se ne andasse, lui le chiese come si chiamasse.

    «María Isabel, mi concedete di leggere per voi?»

    «Fuori dall’orario di lavoro, intendete?»

    «Sarebbe un immenso piacere.»

    Gli passò il libro.

    «Grazie per questa generosa offerta, ma temo di non poter accettare.»

    María Isabel era convinta di essere pronta a adempiere ai propri obblighi di donna. Ci si può innamorare della testa di qualcuno? Esaminò il lettore con il collo taurino. Gli uomini pensavano di conoscerle bene, le donne… Buffo, no? Avrebbe aspettato finché non ce l’avrebbe fatta più.

    Le condizioni di salute di sua madre peggioravano, però. Se ne accorse da quella brutta tosse che la piegava in due dai sussulti. Certe sere, Aurelia aveva così poco appetito che si coricava presto e lasciava María Isabel a cenare da sola. Eppure, ogni giorno si svegliava e si incamminava fino ai campi di canna da zucchero. Nonostante sua figlia la supplicasse, avrebbe continuato a lavorare fino al giorno della propria morte – e anche oltre, se avesse potuto. Lo sapevano entrambe.

    Poi anche a Camagüey arrivò la guerra. Inevitabile, María Isabel lo sapeva. Ogni anno su La Aurora si leggeva che la popolazione aumentava ma le possibilità di impiego diminuivano; l’economia dipendeva sempre più dallo zucchero e dalle piantagioni che prosperavano grazie al lavoro degli schiavi. Altre notizie che riportava il giornale: il movimento abolizionista e l’inasprimento della tassazione spagnola. Le era giunta voce che un ricco proprietario di una piantagione a Santiago avesse liberato i propri schiavi e dichiarato l’indipendenza dalla Spagna. Aveva saputo di riunioni clandestine. Di certo, però, non si aspettava che i combattimenti avrebbero influenzato la sua vita così in fretta.

    Una notte venne svegliata da un rumore di stivali che calpestavano la vegetazione e dai giochi di luce delle lanterne che danzavano sulle pareti. Sbirciò dalla finestra, attenta a non farsi scoprire, e distinse decine di uomini con l’inequivocabile uniforme rossa e blu della monarchia spagnola, i colori della bandiera sul bavero. Erano armati di moschetti e spade, stanchi e tirati in volto, e sui calzoni di alcuni le sembrò di intravedere del sangue rappreso.

    Non riuscì più a riprendere sonno e si strinse a sé; sentì in lontananza il rumore sordo di un fucile, poi sua madre nella stanza di fronte che si svegliava di continuo in preda ad attacchi di tosse. Trascorsero così due notti, raggomitolate sotto i rispettivi letti, come fossero scudi di legno. Grida e spari, metallo contro metallo, l’angoscia degli uomini che riecheggiava tra i boati.

    Il terzo giorno ad Aurelia vennero la febbre e i sudori freddi, e allora María Isabel la tenne in grembo, le tamponò il viso con un asciugamano e sussurrò preghiere a Nuestra Señora de la Caridad. Dopo quattro giorni, il combattimento cessò. Penetranti quanto il rumore di quella guerra improvvisa furono l’intensità della quiete che seguì e il puzzo di marcio. Le due donne non mangiavano da giorni, dunque rovistarono tra conserve di guaiava zuccherata, fruta bomba e pomodori che avevano preparato mesi prima. María Isabel li tagliò a fettine sottili e imboccò con il cucchiaio la madre supina. Quando fu sicura che la calma era destinata a continuare, si avventurò fuori casa e imboccò il sentiero che percorreva ogni giorno per andare alla fabbrica, adesso avvolto da volute di fumo, ovunque c’era odore di palma bruciacchiata. Doveva procurarsi del cibo. Doveva trovare i suoi vicini. In lontananza riuscì a distinguere un incendio, e, piena di gratitudine, pregò in silenzio perché la sua casa era stata risparmiata. Continuò a camminare nella quiete, tendendo le orecchie in cerca di altre persone e segnali di vita. Alla sua chiamata, però, rispondevano solo il fruscio della canna da zucchero e del falasco.

    Poi, mentre

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1