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101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato
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E-book325 pagine3 ore

101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

La magia di un'isola attraverso i suoi personaggi e le sue leggende

La Sardegna, luogo esotico per eccellenza, slegato perfino dalla nazione a cui appartiene, è impressa nel Mediterraneo come l’impronta divina da cui, secondo la leggenda, nacquero l’isola e il suo antico nome: Ichnusa. Partono da qui le 101 storie raccolte in questo libro, molte delle quali sono giunte a noi grazie al “telefono senza fili” della ricca tradizione orale. Proprio per questo, forse, sono in equilibrio tra realtà e leggenda, mito e folclore, ingredienti essenziali per raccontare vicende e figure storiche o fantastiche. 101 grani che si snodano nel rosario di un mondo seducente, di una cultura unica. 101 storie che, unite da una traccia immaginaria, conducono il lettore in una Sardegna onirica, magica e sconosciuta. Leggende antiche in cui compaiono streghe e demoni, episodi che hanno come protagonisti personaggi celebri, da Napoleone a Nelson, da Gramsci a Lawrence, immortalati in questo libro da una penna raffinata ed elegante.

Tra le storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato:

- Ulisse e i sardi

- Eroe, dio o demone con quattro occhi

- Il santuario dei banditi e il burrone degli sposi

- La maledizione di Ollolai

- Il sassarese che Dante mise all’inferno

- Perda Liana, la porta degl’inferi

- Un pastore sardo che crebbe pirata e diventò re

- L’Ammiraglio Nelson protettore della Maddalena

- Il fantasma che legge Paperino e suona le launeddas

- Elio Vittorini e i “bronzi d’inferno”

- Il gentile omaggio reso da un laconico ferroviere a David Herbert Lawrence

- San Michele arcangelo e il bandito

- Il potere terapeutico dei nuraghi

- Le tombe di granito dei giganti dai tre occhi

- L’origine dei Barbaricini e del loro nome

Gianmichele Lisai

Ozierese di nascita e maddalenino di adozione, ha collaborato a varie antologie, scritto per riviste e curato, con Gianluca Morozzi, la raccolta di racconti Suicidi falliti per motivi ridicoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato, 101 misteri della Sardegna (che non saranno mai risolti), Sardegna giallo e nera e Sardegna esoterica.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2015
ISBN9788854183094
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    Anteprima del libro

    101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato - Gianmichele Lisai

       1.

    L’IMPRONTA DI DIO

    Dio, creato l’universo, decise di concludere la sua opera plasmando la Terra, luogo destinato a dimora dei suoi figli. Aveva quindi conservato, per questo scopo, il meglio a sua disposizione: splendide piante e fiori sgargianti come ornamento, alberi dai frutti saporiti, bestie mansuete da cui ricavare il latte, sorgenti dalle acque cristalline, fiumi e laghi pescosi e tanto altro ancora.

    Quando ogni cosa nel mondo fu messa al proprio posto, Dio si accorse che gli era avanzata una manciata di pietre. La gettò in mare con noncuranza, scatenando la furia delle onde.

    Quei massi, in balia delle acque, vennero sbattuti da una parte all’altra e, con il loro movimento, alimentarono ulteriormente la furia del mare, dando avvio a un ciclo che mai avrebbe raggiunto uno stato di quiete. Così Dio, per porre rimedio alla sua negligenza, calzò un sandalo infuocato e con questo calpestò le pietre per trattenerle finché i moti del mare non fossero cessati.

    Tornata la calma Dio sollevò il piede e, scoprendo che le pietre si erano fuse formando un’isola a immagine e somiglianza della propria orma, esclamò: «Ichnusa», che significa, appunto, impronta. Così battezzò quella terra desolata. Sapendo che mai su quelle pietre sarebbe cresciuto un fiore, gli venne un po’ di malinconia nel vederla tanto spoglia. Si rammaricò di aver originato una terra così sterile dopo aver sperperato tanta abbondanza nel resto del mondo.

    Per rimediare al maltolto, Dio raccolse dal creato le piante migliori e i fiori più sgargianti mettendoli a ornamento della terra appena nata. Trasferì sull’isola anche gli alberi dai frutti più saporiti e le bestie dal latte più nutriente. Portò su Ichnusa ruscelli, fiumi e sorgenti dalle acque limpide. Vi mise montagne, strapiombi e colline scoscese ricche di uve per il buon vino; e poi pianure, foreste selvagge, cale esposte al sole e campi aperti per i pascoli. Dopodiché, riempì di pesci e di coralli lo splendente mare circostante. Infine portò sull’isola sette donne bellissime e affiancò loro sette uomini forti.

    Dopo tanto lavoro l’isola gli apparve variopinta e ricca più di ogni altro continente, simile a un microcosmo perfetto: un mondo nel mondo.

    Orgoglioso di quanto aveva creato, Dio capì che era giunto il momento di ritirarsi e, innalzandosi verso il cielo, osservò la magnifica impronta che aveva lasciato sulla Terra come simbolo del suo passaggio.

    Passarono i secoli e Dio, ripensando a tutto questo, si chiese che fine avessero fatto le creature a cui aveva affidato Ichnusa, così lontane dal resto del mondo e per questo così sole tra le acque sconfinate. Decise quindi di tornare sull’isola per sincerarsi che ogni cosa fosse rimasta pura e incontaminata com’era in origine. Rivide le piante rigogliose e i fiori sgargianti, colse un frutto da un albero e assaggiandolo riscoprì antichi sapori, osservò le bestie pascolare serenamente nei campi e bevve l’acqua limpida di una sorgente… Tutto gli apparve come lo aveva lasciato. Confortato dal rispetto che i suoi figli avevano dimostrato per quella terra, vestì i panni di un vecchio viandante, si fermò nel primo villaggio che incontrò lungo il cammino e si avvicinò a un pastore che stava mungendo una pecora. Questi, non riconoscendo il Creatore e scambiandolo per un povero stanco e affamato, subito lo ospitò nella sua capanna, invitandolo a mangiare alla sua tavola insieme alla propria famiglia.

    Alla fine del pasto Dio chiese a quella gente ospitale dove fosse capitato dopo tanto peregrinare.

    «Questa è Sandalia», gli rispose il pastore.

    «Che nome bizzarro», esclamò Dio, continuando a celare la propria identità, «da dove viene?»

    «L’ha chiamata così un antico eroe venuto dal mare perché l’isola ha la forma di un sandalo».

    Il Creatore, soddisfatto per l’ospitalità ricevuta, volle ricambiare donando una storia a quella gente generosa e semplice. Quindi si mise comodo e iniziò a raccontare: «Dio, creato l’universo, decise di concludere la sua opera plasmando la Terra, luogo destinato a dimora dei suoi figli…».

    Il pastore e i suoi familiari restarono svegli tutta la notte ad ascoltare rapiti quel racconto: lo avrebbero tramandato nei secoli ai loro discendenti.

    Quando infine giunse l’alba, Dio si congedò colmo di gratitudine per avviarsi verso la sua dimora celeste. Nei secoli successivi tornò sull’isola altre cento volte e, incontrando sempre la stessa ospitalità, ogni voltà si curò di ringraziare i suoi abitanti regalando loro una storia.

       2.

    TORCO, L’EROE DI SANDALIA

    Anticamente, quando lo spettro della civiltà era ancora lontano dall’isola, Torco, figlio del dio Nettuno e abile marinaio, proteggeva le coste di Sandalia dagli attacchi dei pirati e dei popoli del mare che intendevano conquistarla. Al comando di una nave costruita con fascioni di canne e giunchi intrecciati, che solo lui sapeva governare, perlustrava le coste giorno e notte, senza mai riposarsi. Era un eroe forte e coraggioso e gli abitanti del luogo si sentivano al sicuro.

    Fu lui, giungendo da lontano per volontà del dio del mare, a scoprire che l’isola aveva la forma di un sandalo, e per questo la chiamò Sandalia.

    Suo acerrimo nemico era Atlante, capo della ciurma piratesca più temuta del Mediterraneo. Spesso gli uomini dell’equipaggio di Torco avevano combattuto contro questi avidi saccheggiatori provenienti dall’Africa, uscendone sempre vincitori. Ma gli anni passarono anche per il valoroso figlio di Nettuno e la sua origine divina non lo preservò dal decadimento fisico: come ogni altro essere umano, Torco divenne vecchio. Atlante, assai più giovane di lui, credendolo stanco e affannato pensò che fosse finalmente arrivato il momento giusto per impossessarsi dell’isola e si organizzò per sferrare il suo attacco più imponente: alleandosi con tutte le flotte di pirati dell’Africa, condusse più di cento navi fino alle coste di Sandalia. Molti nemici riuscirono a raggiungere la terraferma. Il loro numero era così elevato che quando questi venivano ricacciati in mare, presto altrettanti ne sbarcavano. Ogni insenatura era un possibile approdo, ogni approdo un pericolo certo.

    Tuttavia, nonostante la flotta di Atlante fosse assai più numerosa, gli uomini di Torco erano così abili in mare, così forti e valorosi, che a un certo punto della battaglia riuscirono a prendere il sopravvento. Ma proprio quando tutto sembrava volgere per il meglio, la grossa nave del capo dei pirati speronò quella di canne e di giunchi su cui era imbarcato l’eroe di Sandalia. Insieme a tutto il suo equipaggio, Torco fu inghiottito dal mare. Gli abitanti dell’isola precipitarono nel terrore: senza il loro condottiero si sentivano perduti.

    Nettuno, che dal fondo del mare aveva assistito al sanguinoso scontro, accolse tra le braccia il figlio esanime e, dopo averlo adagiato su un giaciglio di posidonia, gli soffiò nella bocca. A quel punto, le gambe di Torco si unirono in una coda simile a quella dei pesci e i suoi peli si trasformarono in squame. Sul collo gli spuntarono delle piccole branchie e al termine di un lungo respiro, improvvisamente, riaprì gli occhi. Vide il padre Nettuno e gli sorrise.

    Solo dopo aver cercato di muoversi senza riuscirci, si rese conto della metamorfosi. Si guardò le gambe scoprendo che la parte inferiore del suo corpo era divenuta simile a quella di un pesce, constatando nello stesso istante che il busto, al contrario, non era cambiato affatto. Si toccò il volto e sentì che anche quello aveva ancora sembianze umane. Si domandò come facesse a respirare sott’acqua e si accorse così delle piccole branchie sul collo. Capì allora che suo padre, per tenerlo in vita, gli aveva insufflato lo spirito del mare trasformandolo in un tritone.

    Nel suo corpo rinnovato, Torco divenne ancora più abile nel muoversi tra i flutti marini e, più forte di prima, riemerse per difendere l’amata isola. Chiamò a sé tutti i tritoni del mare e li condusse fino alla superficie dove, uniti, circondarono le navi dei pirati.

    Quando la battaglia sembrava ormai vinta dalla flotta di Atlante, i tritoni al comando di Torco iniziarono a smuovere le placide acque facendo frustare contemporaneamente le loro code. Il mare si ingrossò come mai prima di allora e onde altissime si infransero contro le navi nemiche che naufragarono inesorabilmente.

    Anche quell’ultima battaglia fu dunque vinta e Torco, sebbene non sia ridivenuto uomo, vive sempre nei mari che bagnano l’isola. Ancora oggi, spesso, percuote furiosamente le acque con la sua coda per avvisarci di qualche pericolo imminente.

    Tritone

       3.

    I CADAVERI CHE RESTITUIRONO IL BOTTINO

    Intorno al 705 a.C., un califfo egiziano di nome Azîz, diede ordine a Râfi, il suo ufficiale migliore, di condurre una flotta in Sardegna. Fu la prima delle incursioni arabe sull’isola.

    Nonostante fossero abili navigatori, gli uomini del califfo non avevano mai avuto a che fare con i venti di Sardegna e colpiti da una tempesta improvvisa furono costretti a rifugiarsi a Tunisi, territorio amico nel quale avrebbero avuto la possibilità e i mezzi necessari per rimettere a posto le imbarcazioni gravemente danneggiate.

    Appena furono pronti per riprendere la navigazione, gli equipaggi guidati da Râfi raggiunsero le coste di Sant’Antioco e vi approdarono.

    I poveri indigeni, pacifici e non organizzati per un contrattacco adeguato, subirono violenze e saccheggi da parte degli invasori e molte donne e molti uomini del luogo furono addirittura fatti prigionieri. Tuttavia, quando venne per gli egiziani il momento di ripartire, il dio dei venti si servì nuovamente del suo soffio difensore. Colti di sorpresa da una nuova tempesta più devastante della prima, gli uomini del califfo ripiegarono ancora una volta in Tunisia dove l’amico emiro Nuzayr, in cambio della sua ospitalità, si fece pagare con l’intero bottino proveniente dalla Sardegna, compresi i prigionieri.

    Râfi capì che non sarebbe stato il caso di tentare oltre perché quell’isola maledetta sembrava essere protetta da forze soprannaturali a loro avverse. Così, notando l’interesse di Nuzayr per la nuova terra, lo convinse a organizzare una spedizione. Con questo gesto di alleanza il comandante egiziano mascherò il suo vero scopo: confidava, infatti, in una nuova tempesta che vendicasse l’affronto del bottino sottratto.

    L’emiro tunisino, che già aveva in mente di conquistare la Spagna, stuzzicato dalla nuova idea, decise di organizzare un’unica grande spedizione. Mise a capo della flotta Murrâh, il suo ufficiale migliore, proprio come un tempo aveva fatto il califfo Azîz, e dopo pochi mesi le sue navi salparono verso le coste di Cagliari.

    Gli abitanti della città, vedendo arrivare da lontano gli invasori, nascosero tutti i loro beni, ma i feroci tunisini, più con le torture che con il fiuto, riuscirono ugualmente a trovarli.

    Il dio dei venti era sempre lì, a vegliare sui suoi poveri figli, e quando per l’equipaggio di Murrâh giunse il momento di tornare in patria, scatenò una nuova tempesta, più devastante delle due precedenti messe insieme.

    Mentre le sue navi venivano distrutte dal quel mare d’inferno, l’emiro Nuzayr, chiuso in una stanza del suo palazzo, sentì una voce che lo fece rabbrividire: chiedeva al Signore, come castigo, una sciagura immensa contro i suoi uomini.

    Così accadde: ogni nave della sua flotta fu risucchiata dalle acque e i cadaveri dei tunisini, riportati sulla costa dalle onde, restituirono agli abitanti di Cagliari tutto quanto era stato loro sottratto.

       4.

    IL DIFENSORE DI NORA

    Un marinaio in transito nella costa sud della Sardegna, nei pressi della mitica città di Bithia, si trovò improvvisamente al centro di una tempesta. La sua barca, ostaggio delle onde, divenne in breve ingovernabile e l’uomo, costretto a camminare in equilibrio precario, cadde battendo la testa. Perse i sensi e con essi il controllo della situazione, ma la fortuna fu dalla sua parte perché la barca, trascinata dal mare, si arenò su una spiaggia di sabbia bianca finissima.

    Quando la tempesta cessò, il marinaio ancora non era rinvenuto. Stremato, rimase per lungo tempo assopito sulla morbida sabbia, ancora inconsapevole della sua salvezza, poiché tra quelle onde spietate più volte aveva creduto di essere prossimo alla morte.

    Passata la notte, l’uomo fu trovato in quelle condizioni da Nora, la bella figlia del re di Bithia che era solita recarsi alla spiaggia per una passeggiata mattutina. Incuriosita, la giovane principessa osservò attentamente quel corpo dalle fattezze insolite: il marinaio era molto diverso dagli uomini che aveva incontrato nella sua breve vita – uomini che provenivano tutti dall’interno dell’isola. Lo misurò con lo sguardo: era alto quasi il doppio dei maschi del suo villaggio. Ne studiò i lineamenti: morbidi e aggraziati. Aveva il mare negli occhi e capelli chiari come lei non aveva mai visto, tanto che non riuscì a resistere alla tentazione di accarezzarli con una mano.

    A quel punto il naufrago si svegliò e vide china su di lui una donna stupenda, dalla pelle olivastra e dai profondi occhi neri. Gli parve un sogno e così, spostando lo sguardo, cercò il mare: era calmo e smisurato. Allora il marinaio, incredulo, si toccò in volto ed ebbe la conferma di essere ancora vivo. «Dove sono?» chiese.

    Nora non capì le parole pronunciate in quella lingua portata da terre lontane. L’uomo allora, per farsi comprendere, disegnò sulla sabbia un continente lontano e un mare in burrasca. La principessa, a sua volta, diede forma a un piccolo gruppo di capanne e indicò un punto dietro di loro. Così, tra un gesto e un’immagine impressa sulla rena, i due riuscirono ugualmente a comunicare.

    La fanciulla invitò il naufrago a seguirla e questi si fece scortare senza timore.

    In breve raggiunsero un villaggio nel quale lo straniero, essendo accompagnato dalla figlia del re, fu trattato con tutti i riguardi: venne medicato, poté bere acqua limpida di fonte e nutrirsi. Gli diedero perfino degli abiti nuovi e una capanna tutta sua nella quale riposarsi.

    Tornato in forze, il forestiero andò sulla spiaggia in cerca della sua barca. La trovò completamente distrutta e iniziò i lavori per rimetterla a posto. Ma poiché si sentiva in debito con il popolo benevolo che gli aveva dato accoglienza, decise di dedicare a quella sua attività soltanto la mattina. Dopo l’ora di pranzo infatti risaliva al villaggio e dava una mano agli abitanti della comunità, che erano principalmente pastori. Quindi imparò come si conducono le greggi al pascolo e come si mungono le bestie, scoprì l’arte di fare il formaggio e divenne, da abile marinaio, buon pastore.

    Passarono alcune stagioni e arrivò il giorno in cui la barca fu pronta per essere rimessa in acqua. Il marinaio, finalmente, era libero di salpare per tornare alla sua terra lontana. Ma gli abitanti di Bithia si erano ormai affezionati a lui e una grande tristezza avvolse i loro animi, soprattutto quello di Nora. Anche l’uomo venuto dal mare provava una certa malinconia perché si era innamorato di quel posto incantato, apprezzava la semplicità della gente che vi abitava, la loro ospitalità e poi, sebbene per rispetto non lo avesse mai dato a vedere, si era invaghito della bella principessa. Ma non poteva farsi prendere da certi pensieri: sapeva che era suo dovere rimettersi in mare per tornare a casa.

    La notte prima della sua partenza, nel villaggio venne data una grande festa d’addio.

    Giunta la mattina, mentre si stava preparando per salpare, il marinaio vide una flotta di pirati che si avvicinava minacciosamente alla costa. Diede prima l’allarme e poi, per lasciare ai suoi amici pastori il tempo di organizzarsi, senza esitare un solo istante, puntò dritto contro la prima nave nemica e la speronò. Entrambe le imbarcazioni coinvolte nello scontro affondarono e mentre il marinaio tornava a nuoto verso la riva, alcuni pirati riuscirono a sbarcare sull’isola. I pastori si difesero come meglio poterono ma, non conoscendo l’arte della guerra, in un primo momento subirono la prepotenza degli invasori. Quando il marinaio raggiunse la terraferma organizzò immediatamente l’esercito dei pastori che, sotto la sua guida e armato di soli bastoni, riuscì a respingere il nemico. Ma non era ancora finita: i pirati, battendo in ritirata, cercarono di rapire le donne più belle del villaggio. Tra queste presero anche Nora. Il marinaio, dopo aver mostrato a tutti di essere un possente guerriero abituato a condurre eserciti in battaglia, solo, si lanciò contro il nemico per liberare la principessa. Uccise tutti quelli che si misero sulla sua strada, finché non ebbe la bella Nora tra le braccia. Fu chiaro a tutti che i due si amavano, e poiché il bel forestiero tanto si era speso per la comunità di Bithia, il re accettò volentieri di offrigli in moglie la propria figlia e di donargli una terra poco distante sulla quale costruire una nuova città, della quale sarebbe stato padrone. Acclamato a gran voce dai pastori come difensore di Nora, il marinaio decise che avrebbe dato alla nuova città proprio quel nome: il nome della sua futura sposa.

       5.

    ULISSE E I SARDI

    Mirar credeste di un nemico il volto?

    Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti

    Guerra portar: tanto agli Dei siam cari,

    Oltre che in sen dell’ondeggiante mare

    Solitari viviam, viviam divisi

    Da tutto l’altro della stirpe umana¹.

    Con queste parole Nausicaa si rivolge alle sue ancelle quando incontrano Ulisse.

    È certo che per molto tempo la Sardegna sia sfuggita alla colonizzazione di popoli stranieri e i sardi, come dimostra il patrimonio genetico di cui sono dotati, sono rimasti lungamente in disparte, proprio come i Feaci, mitici abitanti dell’isola di Scheria.

    Che Ulisse nel corso delle sue peripezie fosse capitato proprio in Sardegna?

    Stando alle descrizioni del poema omerico, tra le due terre ci sono molti punti in comune, primo fra tutti la collocazione di Scheria in un grande mare occidentale.

    Altre analogie sono di tipo folkloristico: la danza circolare dei Feaci, per esempio, sembra essere stata molto simile al ballo tondo caratteristico della Sardegna.

    Le descrizioni delle barche prive di timone presenti nell’Odissea, trovano invece riscontro nei celebri bronzetti delle navicelle nuragiche, di cui sono stati ritrovati numerosi esemplari. Così anche il modo di salutare dei Feaci, con la mano tesa, è rappresentato in molte statuette dello stesso periodo. Nell’immaginario collettivo, il dovere di ospitalità è un solido principio del popolo sardo e Ulisse viene accolto dai Feaci con tutti gli onori del caso. Riceve in dono delle vesti nuove, gli viene offerto un ricco banchetto e messo a disposizione un letto su cui riposare. Il re Alcinoo lo fa addirittura sedere sullo scranno del proprio figlio, che senza indugio cede il posto all’avventore.

    La capitale dell’isola, nei racconti antichi, è ricca di torri e nella stanza del re Alcinoo un grosso fuoco si alza dal centro, come pare accadesse proprio all’interno dei nuraghi, la cui struttura a canna fumaria aveva la capacità di aspirare il fumo verso l’alto.

    E infine, molto importante, il ruolo della donna all’interno dell’organizzazione sociale:

    Né rimase di lui che una fugliuola,

    Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse,

    E venerolla fieramente: donna

    Non vive in nodi maritali stretta,

    Che sì alto al suo posto in mente sieda.

    E in gran pregio non men l’hanno, ed amore

    Portanle i figli, e i cittadini ancora,

    Che a lei, quandunque va per la cittade,

    Gli occhi alzan, come a Diva, e con accenti

    Festivi la ricevono; ché senno

    Né a lei pur manca vêr chi più tien caro,

    E le liti non rado ella compone.

    Se un loco prender nel suo cor tu sai […]

    I noti volti riveder confida².

    Così Atena si rivolse a Ulisse, mettendolo al corrente di quale peso avesse la moglie di Alcinoo nelle decisioni di palazzo. Questo aspetto rappresenterebbe un ulteriore punto di contatto tra le due civiltà: quella sarda è l’unica nel Mediterraneo ad aver sempre avuto un’impostazione, se non proprio matriarcale, quantomeno matrilineare. Basti pensare ai regni delle giudicesse,

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