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101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita
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E-book401 pagine4 ore

101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita

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Info su questo ebook

La Sardegna come non l'avete mai vista!

Ecco alcune delle 101 esperienze:

• Fare fuoco e fiamme dentro un Nuraghe

• Cercare il segreto della longevità dei sardi

• Passeggiare tra i murales di Orgosolo

• Sorseggiare il Nepente di Oliena

• Scovare un esemplare di cervo sardo

• Infilarsi nel labirinto del castello di Cagliari

• Rotolarsi sulle dune desertiche più alte d’Europa

• Essere ospiti di un sedilese nel giorno dell’Ardia

• Verificare il colore dei denti delle capre di Tavolara

• Comprare un coltello a Pattada

• Condire gli spaghetti con l’oro di Cabras

Nuova edizione tascabile: costa la metà ma le cose da fare sono sempre 101!

Gianmichele Lisai

Ozierese di nascita e maddalenino di adozione, ha collaborato a varie antologie, scritto per riviste e curato, con Gianluca Morozzi, la raccolta di racconti Suicidi falliti per motivi ridicoli. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Sardegna che non ti hanno mai raccontato, 101 misteri della Sardegna (che non saranno mai risolti), Sardegna giallo e nera e Sardegna esoterica.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2014
ISBN9788854166745
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    Anteprima del libro

    101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita - Gianmichele Lisai

       1.

    MONTARE IN MACCHINA

    Chi è nato e cresciuto in Sardegna già lo sa. Chi frequenta l’isola da molto tempo, ugualmente, non ha bisogno del suggerimento. Ma chi si avvicina per la prima volta a questo mondo, sarà meglio che entri subito nel seguente ordine di idee: la Sardegna, come recita il titolo di un librone fotografico pubblicato molti anni fa, è quasi un continente. Un continente nel quale si possono trovare panorami incredibili e provare infinite sensazioni: dal canyon al deserto, dai carnevali delle maschere barbaricine alle discoteche sul mare, dalle donne in lunghe vesti nere alle aspiranti veline in abiti succinti.

    Un continente di profumi, senza ridurre tutto al solito mirto che, per carità, in quanto a profumi ha pochi rivali, ma non di solo mirto è fatta l’isola!

    Un continente di colori: dai mari di smeraldo, alle verdi foreste, agli incendi nel cielo che altrove sono semplici tramonti.

    Un continente unico.

    E se, a onor del vero, questo continente al suo interno non è proprio collegato benissimo, per strappargli anche solo una piccola porzione di tutto ciò che custodisce è necessario arrivarci con scarpe buone, tanta voglia di conoscere ma, soprattutto, con un proprio mezzo di trasporto. Montare in macchina, recita il titolo, perché questo è il mezzo più diffuso. Il consiglio è quindi rivolto, principalmente, ai viaggiatori ordinari. Ma se amate spostarvi in moto, sappiate che la strada statale 131 sembra asfaltata apposta per questo scopo.

    Un discorso diverso deve essere fatto nel caso in cui siate abili camminatori-escursionisti (esperti e ben equipaggiati in tal senso) e desideriate trascorrere un lungo periodo in assoluta libertà, con tempi dilatati, per calpestare a piedi tutto ciò che è permesso calpestare in ragione. In questo caso le vostre scarpe dovranno essere davvero buone e la vostra volontà assai più forte del ferro che arma il cemento.

    Un termine ricorrente, in questo libro, sarà suggestivo. Forse lo incontrerete fin troppe volte, anche se non amo le ripetizioni. Sarà però inevitabile, perché è una parola tanto povera di sinonimi quanto la Sardegna lo è di simili. E se, come recita un noto dizionario, la suggestione è un «fenomeno psicologico per cui un convincimento, un’idea, un’aspirazione si impongono alla coscienza per azione diretta o indiretta di un’altra personalità o comunque in virtù di una forza esterna cui non si riesce a opporre una valida resistenza», provateci voi a opporre una valida resistenza a questa terra straordinaria.

    In questo momento forse vi illudete di esserne in grado, ma ne riparleremo poi, a fine viaggio.

       2.

    FARE FUOCO E FIAMME DENTRO UN NURAGHE

    In qualunque punto della Sardegna voi siate, non avrete difficoltà a trovare nuraghi: ce ne sono più di settemila sparsi per tutta l’isola, distribuiti equamente da nord a sud e da est a ovest, in pianura come in collina. Dovete solo individuare quello meglio conservato nella vostra zona. Prima di raggiungerlo, procuratevi della carta (un foglio di giornale andrà benissimo) e dei fiammiferi. Arrivati al nuraghe, cercate di corrompere il custode in qualche modo, con questo libro alla mano, ad esempio, e dite che vi mando io. Se ci riuscite, una volta entrati mettetevi al centro della camera e date fuoco al foglio di giornale: lo vedrete levitare.

    Sebbene alcune antiche leggende attribuiscano ai nuraghi poteri magici (per lo più terapeutici), in questo fenomeno c’è ben poco di paranormale: il foglio viene semplicemente attratto verso l’alto dalla gigantesca cappa megalitica.

    Difficile però considerare questa caratteristica come una casualità: sembrerebbe piuttosto il prodotto di un sapiente studio architettonico. Ma quando si parla di nuraghi – monumenti di pietra che, in quanto a dimensioni e stato di conservazione, non trovano degni rivali in Europa – non si può avere alcuna certezza.

    Uno dei più diffusi dizionari della lingua italiana definisce il nuraghe un «fortilizio caratteristico della Sardegna preromana, per lo più a forma di torre tronco-conica con porta architravata e corridoio di accesso a un’unica camera circolare interna, coperta di cupola ad anelli concentrici. [Dal tema mediterraneo paleosardo nurra (mucchio di sassi), col suff. sardo -aghe]».

    Secondo alcuni studiosi sarebbe più corretto se il termine fortilizio venisse sostituito dal termine tempio. Infatti, anche se a tutt’oggi la maggior parte degli archeologi si ancora alla consolidata teoria che attribuisce ai nuraghi una funzione esclusivamente militare, negli ultimi anni sono stati rinvenuti alcuni reperti che deporrebbero a favore dell’ipotesi sacra. Ovvero, di quella che sostiene che il nuraghe fosse utilizzato per il culto religioso e, in particolare, per quello dei morti.

    Ma torniamo per un attimo al nostro giochino con il fuoco. Considerando l’attuale distribuzione dei nuraghi nell’isola (circa uno ogni tre chilometri quadrati) e supponendo che un tempo ce ne fossero almeno il doppio (ma si pensa addirittura il triplo), risulta verosimile l’ipotesi che allora si comunicasse di torre in torre attraverso segnali di fumo, allo scopo di controllare e difendere la più ampia superficie di territorio possibile. Questa teoria motiverebbe in modo plausibile l’effetto canna fumaria a cui avete appena assistito, sempre se siete stati abbastanza abili da corrompere il custode.

    Certo, anche quando costruiamo un camino a casa nostra pretendiamo che il fumo vada verso l’alto e che non si diffonda per tutta la casa… Allora vuoi vedere che anche questi nuragici preferivano convogliare il fumo all’esterno – piuttosto che spartirlo tra la camera e i loro bronchi – quando, costretti dall’inverno, accendevano un fuoco per scaldarsi?

    Secondo Aristotele i nuraghi erano mausolei destinati agli eroi, all’interno dei quali si curavano alcune turbe psichiche. In che modo? Semplice: era sufficiente che il malato dormisse per alcuni giorni, aiutato dall’assunzione di qualche droga, nella tomba, vicino alla venerabile salma, immerso negli influssi benefici emanati da questa.

    Per quanto mi riguarda, preferisco evitare di schierarmi in favore di una o dell’altra ipotesi: non ho le competenze necessarie e non è certo questa la sede adatta per cercare di scoprire i misteri nuragici. Ma se queste poche curiosità hanno innescato in voi la voglia di saperne di più non vi sarà difficile reperire informazioni sull’argomento. Giovanni Lilliu, archeologo sardo di fama internazionale, viene considerato il massimo esperto in materia. Secondo lui i nuraghi erano, nella loro forma più semplice, torri di avvistamento e, nelle loro forme più complesse, dei veri e propri castelli.

    Tra i principali sostenitori della tesi che attribuisce a questi monumenti una funzione esclusivamente religiosa merita invece di essere citato il linguista Massimo Pittau, autore di numerosi articoli sull’argomento. Se desiderate farvi un’idea più precisa e confrontare i differenti approcci potete leggere Sardegna Nuragica (Il Maestrale, 2006) o La civiltà dei Sardi dal Neolitico all'età dei Nuraghi (Il Maestrale, 2004), entrambi di Giovanni Lilliu; oppure Storia dei Sardi Nuragici (Domus de Janas, 2007) e La Sardegna Nuragica (Edizioni Della Torre, 2006) di Massimo Pittau.

    Per quanto riguarda la classificazione tipologica dei nuraghi, la questione risulta essere molto più semplice: i loro resti sono sotto gli occhi di tutti e hanno forme che non lasciano spazio a troppe diatribe.

    Le strutture cambiano in base alle diverse epoche di edificazione. I primi, risalenti all’Età del Bronzo Iniziale (1800-1500 a.C.) furono i protonuraghi, di pianta irregolare, mal tagliati e tozzi. Al loro interno non avevano l’ampia camera circolare, bensì un corridoio; per questo vengono chiamati anche nuraghi a corridoio. Un ottimo esempio di questa tipologia è il nuraghe Brunku Madugui, nel territorio di Gesturi. Dal perimetro irregolare, è composto da grossi massi di basalto scarsamente rifiniti. All’interno presenta una scala che conduce a due camere, una delle quali conserva ancora bene il tratto di corridoio. I primi studi effettuati sui reperti degli scavi collocherebbero l’edificio intorno al 1829 a.C., ma di recente si è proposta una diversa datazione (XV-XIV sec. a.C.) che potrebbe metterne in discussione l’attuale interpretazione architettonica.

    Un altro esempio di protonuraghe è Sa Korona, situato nel campidano dalle parti di Villagreca, la cui forma è tendenzialmente ellittica. Con un diametro esterno che oscilla tra i dieci e i dodici metri, questa sorta di grossa capanna potrebbe risalire addirittura all’Età del Rame (2000 a.C.).

    Nell’Età del Bronzo Medio (1500-1200 a.C.) si diffusero i nuraghi a tholos. Composti da un’unica torre, sono quelli che maggiormente si sono radicati nell’immaginario collettivo. Avevano un ingresso architravato e un corridoio disseminato di nicchie che conduceva all’ampia camera circolare. Tra i nuraghi di questa tipologia quello meglio conservato è il Succuronis. Situato nel territorio di Macomer, in una zona ricca di strutture simili, è uno dei monumenti più noti dell’isola. La torre, dalla classica forma troncoconica, è regolare e massiccia. Ha un diametro di circa quattordici metri e raggiunge un’altezza massima che supera gli undici. Le mura, costituite da blocchi di notevoli dimensioni, hanno uno spessore medio di quattro metri e mezzo alla base, e diventano progressivamente più sottili all’aumentare dell’altezza. La camera principale presenta tre nicchie e una scala d’accesso interna, non interamente accessibile. Sono riconoscibili anche tracce di una cella superiore che però purtroppo è andata distrutta.

    Non altrettanto ben conservato, ma comunque meritevole di essere visitato, è il nuraghe Erismanzanu, nei pressi della foresta Burgos. Aldilà dell’aspetto puramente architettonico, questo monumento è reso unico dall’imponente leccio che ne ingravida la torre e che svetta all’esterno coprendo parte delle mura.

    Un’evoluzione della tipologia a tholos è il nuraghe a tancato che vede, in aggiunta alla prima, anche una seconda torre. Tra queste due si trova spesso un pozzo, confinato da un cortile condiviso. Un nuraghe a tancato piuttosto noto è il Santa Barbara, di Villanova Truschedu, in provincia di Oristano, nel quale si ritiene che la torre più piccola fosse utilizzata come fucina per fondere il bronzo.

    Un altro raro esempio di questa tipologia è il nuraghe Còvunu, le cui torri, costruite in momenti diversi, un tempo erano collegate da due muraglie che delimitavano il cortile interno.

    La progressiva aggiunta di torri nello sviluppo di tali monumenti ha portato infine, nella Prima Età del Ferro (900-600 a.C.), a strutture nuragiche polilobate, massima espressione conosciuta di queste antiche costruzioni. Esse consistevano in un agglomerato di più torri che, nel caso dei complessi maggiori, erano unite tra loro da bastioni e formavano delle vere e proprie regge, intorno alle quali poteva svilupparsi il villaggio di capanne. Prima fra le più importanti strutture polilobate è la reggia di Barumini, riportata alla luce dal già citato Giovanni Lilliu (non a caso, anche lui baruminese) e dichiarata dall’UNESCO, nel 1997, patrimonio mondiale dell’umanità. Battezzata Su Nuraxi (il nuraghe), si tratta del più grande complesso della Sardegna fin ora conosciuto. Realizzato in differenti periodi storici, si presenta come un’ampia fortezza quadrilobata che cinge l’imponente torre centrale e che è circondata a sua volta da un villaggio di capanne costruito all’esterno delle possenti mura.

    Poco da invidiare a questo monumento ha il nuraghe Santu Antine, nel territorio di Torralba, non a caso chiamato anche Sa domo ‘e su Re, ovvero la casa del re. Secondo solo alle piramidi egizie, si pensa che in origine raggiungesse un’altezza di circa ventiquattro metri. La torre centrale è quella più antica: intorno a questa, circa due o tre secoli dopo, ne sono state erette altre tre. Il villaggio, sorto nel circondario in un periodo ancora successivo, è stato riportato alla luce solo in minima parte e chissà quali altre sorprese custodisce la terra che lo ha nascosto per tutto questo tempo.

    Trilobato come il Santu Antine è il nuraghe Losa, situato nel comune di Abbasanta. Alcuni reperti dimostrano che questo monumento megalitico, interamente costruito con massi di basalto, fu utilizzato anche per scopi funerari. Una cinta muraria circonda l’intero complesso, comprese le capanne del villaggio sorte intorno all’importante edificio centrale.

    Nel territorio di Orroli, infine, in provincia di Cagliari, si può ammirare un’architettura pentalobata unica in tutta l’isola: quella del nuraghe Arrubiu. Ben cinque torri legate da uno spesso bastione e circondate da una seconda muraglia che unisce sette torri minori. Una terza cinta muraria, ancora più esterna, presenta altre cinque torri e racchiude un perimetro totale di circa tremila metri quadri, oltre il quale si sviluppava il villaggio di capanne.

    I passaggi da una tipologia all’altra (e da un’era all’altra) che nei secoli hanno reso questi edifici sempre più complessi – fino a giungere agli ultimi esempi qui proposti – chiaramente non furono netti come li ho descritti. Nel periodo di transizione dai protonuraghi ai monotorre, per esempio, comparvero alcune architetture di tipo misto che si ritiene fossero vecchie strutture a corridoio modificate per far fronte a nuove esigenze. Ne è un esempio il nuraghe Orgono di Ghilarza, ancora una volta nella provincia di Oristano. Molto ben conservato, è stato realizzato in fasi diverse e con diverse tecniche di costruzione. La base è formata da grossi massi tagliati rozzamente, mentre per la sommità, che risale a un periodo successivo, sono state utilizzate pietre più piccole, come è ovvio che fosse, e soprattutto ben rifinite. Ma la vera curiosità di questo nuraghe è la presenza di una grande nicchia nelle mura esterne che non comunica con la lunga camera interna e sulla cui funzione gli esperti non sono in grado di fornire una spiegazione precisa.

    Aldilà di tutto quello che si può dire, delle scuole di pensiero, delle teorie e delle contro teorie, i nuraghi sono l’indiscusso emblema della Sardegna e, data la loro diffusione nell’intera isola, la prova più evidente dell’esistenza di un’antichissima identità nazionale che solo ai giorni nostri, forse, sta perdendo vigore.

    E loro, i nuraghi, rimangono lì, pietrone su pietrone, imperturbabili, da millenni. Alti anche venti metri, con mura spesse quanto sono profonde le camere da letto in cui oggi dormiamo. Quando penso a questa cosa, io mi domando: «Ma i miei minuti antenati, come diavolo facevano a portare in cielo massi così grandi?». E non vengano Giovanni Lilliu e Massimo Pittau a raccontar fole, che tanto, come fosse possibile questa operazione, non riusciranno mai a spiegarcelo neppure loro.

       3.

    RICORDARE GRAZIA DELEDDA (NELLA SUA CASA-MUSEO E NELLA SUA CHIESETTA-MAUSOLEO)

    Grazia Deledda è la madre di tutti gli scrittori sardi. E a qualsiasi scribacchino dell’isola che si affanni per contestare questa affermazione io nego insindacabilmente ogni diritto di replica.

    Maria Grazia Cosima Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871, da Francesca Cambosu e Giovanni Antonio Deledda, imprenditore benestante, proprietario terriero, poeta e uomo politico locale (eletto sindaco di Nuoro nel 1892).

    Terminata la scuola primaria prosegue gli studi con un professore privato che le insegna il latino, l’italiano e il francese. Per conto proprio ne approfondisce le letterature, cosa che, anche in futuro, non smetterà mai di fare.

    Esordisce come scrittrice pubblicando alcuni racconti su una rivista di moda, ma la sua vera opera prima, Nell’azzurro, è del 1890. Nel 1895 pubblica Anime oneste e a distanza di cinque anni Il vecchio della montagna, due opere importanti della sua produzione. Nel 1900 si sposa con Palmiro Madesani, un funzionario del ministero della Difesa con il quale, poco tempo dopo, si trasferisce a Roma. Scrive su numerose riviste, come Nuova Antologia, che tra i tanti collaboratori ha in seno due futuri premi Nobel: Luigi Pirandello e, per l’appunto, la stessa Deledda. L’opera della scrittrice sarda comincia così a incuriosire la critica e a essere apprezzata da alcuni importanti colleghi. C’è qualcosa di nuovo nell’aria, in questa scrittura che non è italiano accademico e non è pura lingua sarda, che è sintassi sarda sporca di morfologia italiana e lessico italiano innestato nella semantica sarda. Una scelta di criterio e consapevolezza. Perché Grazia Deledda è cosciente del fatto che la lingua nazionale non la contiene interamente, e capisce bene che le sue storie d’amore e di morte, di vita e dolore, perderebbero tutta la loro forza espressiva se raccontate in italiano standard. Ecco come nasce questa mistura in cui la lingua nazionale rincorre il dialetto. Non potrebbe essere altrimenti, perché la Deledda non sta facendo letteratura italiana, ma sta costruendo una letteratura sarda per tutta la nazione; e sa bene che la Sardegna è un mondo, e che ogni narrazione è un mondo, dunque la terra delle sue storie deve essere un mondo al quadrato, e per raccontare un mondo al quadrato è necessaria una lingua al quadrato.

    Con questa consapevolezza scrive Elias Portolu, pubblicato nel 1903, testo che spiana la strada a una serie di successi: Cenere nel 1904, L’edera nel 1906, poi Sino al confine, Colombi e sparvieri e Canne al vento, pubblicati tutti tra il 1910 e il 1913. Nel 1918 esce L’incendio nell’oliveto e quattro anni dopo Il Dio dei venti. Altri quattro anni più tardi, Grazia Deledda vince il premio Nobel per la letteratura.

    Nel giorno di ferragosto del 1936 la scrittrice muore, all’età di sessantacinque anni.

    Grazia Deledda può essere ricordata ovunque e in qualsiasi momento: sarebbe sufficiente leggerla. Ma i luoghi fisici della sua memoria sono principalmente due: la casa in cui ha vissuto dalla nascita al giorno del matrimonio e la Chiesetta della Solitudine.

    La casa natale è situata in uno dei quartieri più antichi del centro storico di Nuoro, il rione San Pietro, un tempo dei pastori, nella via che oggi è dedicata alla scrittrice. È un piccolo palazzo del secondo Ottocento, sviluppato su tre piani, con ampie camere e corti interne. Abitazione tipica delle famiglie benestanti nuoresi, nel 1913 (quando la Deledda è ormai via da dodici anni) viene venduta.

    Dopo la morte della scrittrice l’edificio viene dichiarato monumento nazionale e comprato, nel 1968, dal comune di Nuoro. Passeranno altri due lustri prima che l’Istituto superiore regionale etnografico lo rilevi, al prezzo simbolico di mille lire, e cominci ad allestirvi il museo. Importantissimo sarà il contributo della famiglia MadesaniDeledda che donerà manoscritti, fotografie, documenti e oggetti della scrittrice.

    Il Museo Deleddiano viene così inaugurato nel 1983. Chiuso nel 1997 per essere restaurato, alla sua riapertura si presenta arricchito di nuovi materiali fondamentali per ricreare gli ambienti presenti nell’opera di Grazia Deledda.

    Oggi visitare quel museo significa vivere la scenografia di un romanzo.

    L’ultimo allestimento risale al 2006. I tre piani dell’abitazione sono suddivisi in dieci sale nelle quali è tracciata l’intera esistenza della scrittrice. Si trovano la cucina e la dispensa, ricostruite come furono descritte in Cosima. In quella che era un tempo la stanza dei genitori della Deledda sono esposti la medaglia e il diploma del Nobel, più vari documenti che ricordano il viaggio a Stoccolma e la premiazione. Un’altra sala è dedicata all’Atene Sarda, com’è stata definita, per il suo fermento culturale, la città di Nuoro. Qui si trovano le vite e le opere di alcuni importanti personaggi locali.

    La camera da letto della scrittrice, arredata con lo stesso criterio della cucina e della dispensa, ha una piccola finestrella dalla quale il visitatore potrà volgere lo sguardo al monte Ortobene. Proprio all’inizio della strada che conduce a questo monte, si trova un secondo luogo alla memoria di Grazia Deledda: la Chiesetta della Solitudine. Costruita tra il 1950 e il 1957 su progetto dell’artista locale Giovanni Ciusa Romagna, sorge sui resti di una piccola chiesa seicentesca da sempre cara all’autrice nuorese che a questa dedicò un romanzo. È una chiesetta di campagna, con la facciata di granito e un modesto campanile. Al suo interno, dal 1959, si trova la tomba di Grazia Deledda.

    Non è un caso se ho intitolato questo capitolo Ricordare Grazia Deledda.

    Negli anni Quaranta e Cinquanta, forse per la recente assegnazione del Nobel, i testi di storia e letteratura italiana le dedicavano numerose pagine. Ma, a partire dalla metà degli anni Sessanta, l’autrice è quasi scomparsa dalle antologie. Forse, dopo tutto questo tempo non siamo ancora stati capaci di metabolizzarla (neanche in terra sarda). A farmelo supporre, è l’atteggiamento di molti critici che, nell’incertezza, le infilano l’abito stretto di verista.

    Invece che diavolo di vestito dovrebbero metterle?

    Se dovessi seguire le povere classificazioni che ho imparato da studente, neanche io ne avrei la più pallida idea. Condivido in pieno, però, l’opinione che esprime Marcello Fois nel suo libro In Sardegna non c’è il mare (Editori Laterza, 2008): «La Deledda ha prodotto il modello di romanzo in Sardegna».

    Voglio considerare questo pensiero dell’autorevole scrittore (non a caso nuorese anche lui) come il sigillo su quanto ho detto all’inizio: Grazia Deledda è la madre di tutti gli scrittori sardi. Quindi, forse, sarebbe più opportuno se iniziassimo a infilarle un abito tradizionale di questa terra.

       4.

    TOCCARE IL DITONE DEL PIEDE DEL CRISTO REDENTORE

    Il Cristo Redentore di Nuoro ha il ditone del piede giallo. Lordato dalle mani di migliaia di visitatori, sembra oggi un’appendice di carne marcescente. Detto questo, il mio consiglio di toccarlo, oltre che poco igienico, potrebbe apparirvi istigazione al deturpamento. In realtà – e posso assicurarvelo per esperienza personale – quando ve lo troverete davanti in tutta la sua irresistibile prominenza, non avrete né la forza, né il giusto rigore morale per trattenervi. Così, miseramente sconfitti dalla tentazione, ci getterete sopra le mani. Dirvi di non farlo sarebbe, quindi, perfettamente inutile.

    «Il Redentore sopra la roccia con la grande croce che pareva unisse il cielo azzurro alla terra grigia», scriveva Grazia Deledda, finito il primo decennio del Novecento, in Canne al vento. La scrittrice, quando

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