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Vincent, ultimo atto: Le ultime ventiquattro ore di Van Gogh
Vincent, ultimo atto: Le ultime ventiquattro ore di Van Gogh
Vincent, ultimo atto: Le ultime ventiquattro ore di Van Gogh
E-book158 pagine5 ore

Vincent, ultimo atto: Le ultime ventiquattro ore di Van Gogh

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Info su questo ebook

In una calda domenica di luglio, in un campo assolato vicino Auvers sur Oise, Vincent Van Gogh si spara un colpo di pistola al torace. Alphonse Duval, uomo cinico e meschino, parte da Parigi per incontrare il pittore: gli rimarrà accanto fino al momento della morte. Trascorrono insieme solo poche ore, ma sufficienti a scardinare certezze e convinzioni. Vincent rivela all’ambiguo personaggio i suoi valori attraverso lo sguardo intimo e appassionato di dodici dipinti, quelli più importanti per lui. Si entra così in un mondo di colori che svela l’universo creativo del pittore e la sua tormentata vita, proiettando la sua poetica direttamente al cuore del lettore. L’alternarsi di più voci narranti rivela le diverse sensibilità dei personaggi: il locandiere Ravoux, sua moglie Adeline, Theo Van Gogh e l’imprevedibile monsieur Duval. Ciascuno, a suo modo, diffonde una visione personale dei fatti accaduti, ponendo il lettore davanti a originali prospettive, scoprendo episodi intimi e dinamiche inconfessabili
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2020
ISBN9788835807100
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    Anteprima del libro

    Vincent, ultimo atto - Annalisa Fabbri

    Bibliografia

    Parigi, giugno 1890

    Sarebbe bello poter pensare che tra cent’anni il mio nome sarà degno di fama. E perché, del resto, non dovrebbe essere così? In fondo ho avuto a che fare, seppur a mia insaputa, con i più grandi pittori oggi non viventi.

    Anche se nessuno mi riconoscerà un ruolo determinante nella storia artistica del nostro secolo, posso affermare di aver sempre svolto il mio lavoro con grande dedizione.

    A Parigi sono conosciuto come il becchino degli artisti.

    Nulla di disdicevole: è un lavoro come un altro, anche se petulanti malelingue spettegolano sulla mia puntuale presenza al capezzale di anonimi imbrattatele.

    So quel che dico e se li considero degli imbrattatele è perché sono privi di alcun talento, oltre che della voglia di lavorare.

    Altrimenti sarebbero ricchi, vivrebbero in sontuosi palazzi, pranzerebbero con posate d’argento riveriti da domestici in livrea. Eccoli, invece, all’interno di umide e maleodoranti soffitte, mentre contendono briciole di pane ammuffito ai topi che lì vi abitano da più tempo di loro. Sono soli, senza neanche una donna che li pianga nel momento della dipartita.

    Si fanno chiamare artisti: per me sono solo imbianchini.

    Vorrei tanto non dovermi confondere con questa gente ma, ahimè, il lavoro me lo impone. Infatti la mia professione consiste nell’arrivare a casa dei moribondi sempre qualche istante prima che passino a miglior vita.

    Vivendo in condizioni disperate non potrebbero permettersi un funerale dignitoso, ma solo un’umiliante sepoltura in qualche fossa comune, ammucchiati a corpi mai visti, conosciuti, amati.

    «Non vorrete certo esser gettato in un’anonima fossa, condannando così l’umanità all’impossibilità di piangervi e venerarvi per i capolavori che le avete lasciato?», esordisco al malcapitato, non appena mi presento al suo capezzale.

    Oppure: «Non intenderete gravare su quella povera donna, che a malapena riesce a sfamarsi, facendole pure sostenere le spese del vostro funerale?».

    Di volta in volta valuto i casi e mi comporto di conseguenza.

    Non si tratta di circonvenzione d’incapaci, come certi benpensanti insinuano.

    Sono convinto di far loro del bene in quanto, alleviando da ansie il momento del trapasso, muoiono meglio perché tranquilli e confortati.

    L’accordo che generalmente sottopongo è molto semplice: io mi impegno a pagare le spese funerarie in cambio dei dipinti ancora in loro possesso. Trattandosi, il più delle volte, di fannulloni e nullatenenti, i quadri invenduti sono moltissimi. Per loro è sempre un ottimo affare, mentre io rischio di ritrovarmi con decine di tele arrotolate senza alcun valore. In soffitta ne conservo centinaia: si presentano così raccapriccianti che neppure i ragni osano tesservi la tela.

    Sono un imprenditore e, in quanto tale, mi accollo i rischi del mestiere. Quando, però, riesco a mettere a punto quello che definisco il colpo grosso, in poche ore il valore del dipinto decuplica sotto i miei occhi.

    Ciò che conta è essere sempre ben informato sullo stato di salute degli artisti parigini ed esserci nel momento cruciale.

    A parole appare semplice, ma è necessario frequentare gli ambienti giusti, nei momenti giusti: il Café Guerbois, il giovedì prima di cena, la Brasserie Libertè, il martedì in tarda serata, il Cafè du Tambourin, verso mezzogiorno e il Cafè de la Novelle Athènes, il mattino presto, per liberare i tavoli dagli ubriachi della notte.

    In Place du Tertre, a Montmartre, è consigliabile passare nel pomeriggio, quando quei disgraziati, coperti da stracci, occupano l’intera piazzetta desiderosi di rifilare qualche dipinto a svampiti passanti. Immortalano da sempre gli stessi soggetti, scorci di Parigi e vedute di Caffè, al fine di raccattare qualche spicciolo, più per compassione che per merito, per poi andarli a spendere al primo bistrot fino a notte tarda.

    Vivono di stenti e puzzano come capre: considerano il sapone l’emblema del conformismo borghese, pertanto da osteggiare. In questo modo si sentono migliori e al di sopra delle convenzioni. Bevono assenzio, fumano oppio, poi pennellano alla rinfusa un telo bianco, in stato perennemente confusionale, ed ecco a voi: gli artisti di Montmartre!

    Non hanno alcuna voglia di lavorare, tanto meno di alzarsi la mattina per rientrare la sera sporchi di sudore e segnati dalla fatica. Molto meglio destarsi quando la sbornia è esaurita, le gambe reggono e il cervello può distinguere un pennello da una spatola.

    Ne ho visti spirare tanti senza mai provare alcun sentimento.

    So bene di non essere considerato un uomo benevolo: spesso capita che, al mio cospetto, alcune persone facciano gesti scaramantici come fossi portatore di sventura. Sicuramente questa infelice nomea ha contribuito al mantenimento del mio stato di celibato. Di questi tempi le donne sono diventate così pretenziose da indurmi a credere che, alla fine, sia stato un bene non averne sposata nessuna.

    Ho un solo desiderio: un mezzo busto di prezioso marmo caolino sulla tomba che mi ospiterà, per ricordare ai posteri chi io sia stato. Puntualmente, una volta al mese, Antoine mi scatta una fotografia, così da avere un’immagine sempre aggiornata del mio ritratto, sotto il quale un epitaffio reciterà:

    Di affari vorace

    Alphonse qui giace.

    Anch’egli in cielo ascese

    Senza più badare a spese.

    Modestia a parte, posso dire di essere davvero un benestante. A Parigi possiedo cinque appartamenti, tre automobili e sette orologi d’oro. Risiedo, però, in un monolocale della periferia, dove gli affitti costano meno, mi muovo a piedi e non sperpero nulla perché, come diceva mia madre, solo vivendo da poveri si può diventare ricchi.

    Le mie giornate sono tutte uguali: mi alzo di buon’ora, sorseggio un caffelatte tiepido, non zuccherato, e indosso un completo nero gessato, rigorosamente di tweed in inverno e di lino in estate. Di me si dice che sono un uomo tanto spilorcio da avere solo un abito per stagione. Che falsità! È che possiedo tutti vestiti uguali per evitare di perdere tempo nel decidere quale indossare e, ancor meglio, non rischiare accostamenti stonati. Minimizzo tempi e rischi, valutando ogni particolare che misuro su costi e benefici.

    Esco verso le otto per raggiungere un Caffè, un bistrot o una bottega, tenendo sempre le orecchie bene aperte e facendo domande mirate a interlocutori affidabili.

    A metà giornata consumo uno spuntino veloce nei malfamati bistrot che servono vino a ogni alzata di mano e dove i commensali, tra un bicchiere e l’altro, sono soliti dispensare generose informazioni sugli artisti del quartiere. Insomma, non faccio altro che camminare da mattina a sera, entrare e uscire dai locali, per raccogliere notizie non sempre utili ai miei affari.

    Ci sono periodi in cui tutti sembrano godere di ottima salute e, in quel caso, verso le cinque del pomeriggio imbocco la strada del ritorno perché sarebbe sconveniente sprecare energie senza ragione. Diversamente, se riesco a ottenere informazioni interessanti, mi sposto di locale in locale per saperne di più, sempre di più.

    L’unico risvolto divertente del mio lavoro, se così posso chiamarlo, è legato alla figura di un bambino di sette anni che, appena mi vede percorrere rue des Saules, la strada dove lui abita, mi raggiunge di corsa e non mi lascia più. Non ho mai capito che cosa voglia da me e neppure perché mi dimostri tanta simpatia, ma un fatto è certo: è più demente che sano.

    Dice di chiamarsi Maurice, Maurice Utrillo.

    Sua madre, una certa Suzanne Valadon, squattrinata e alcolizzata, ha affidato il piccolo alle cure della nonna che l’ha allevato a suon di sberle e vino rosso. Forse è per questo che il suo cervello ha patito, tuttavia sembra avere le idee molto chiare sul suo futuro: dice di voler fare il pittore, proprio come la madre.

    «Madre, hai detto?», ho commentato, quando mi ha confidato il suo desiderio. Ora anche le donne si son messe a dipingere! Cose da matti! Da quel che si dice in giro, il piccolo Maurice non può rientrare a casa prima delle sette perché, fino a quell’ora, sua madre soddisfa i piaceri di clienti occasionali. Credo sia questo il motivo per cui, appena mi vede, mi si attacca alle gambe come una ventosa e insiste per stare con me fino a sera. Non provo tenerezza per Maurice, tantomeno affetto: è soltanto uno stupido rompiscatole che non riesco ad allontanare, neppure trattandolo male. Parla in continuazione, elaborando pensieri sconnessi e privi di sostanza: l’unico modo che ho trovato per contenere la sua schizofrenia è portarlo nel negozio di colori di Tanguy.

    Abbiamo fatto un patto: quando, per lavoro, devo recarmi in quella bottega, Maurice può entrare con me solo se tace tutto il tempo. Devo ammettere che, in mezzo a pennelli e tubetti di colore, sembra persino un bambino normale perché li scruta con attenzione e non tocca nulla. So che lo renderei felice se gli comprassi qualcosa, ma non ho soldi da spendere per un moccioso e poi non voglio che si affezioni.

    Frequento abitualmente il negozio di Père Tanguy, che gestisce con la moglie in Rue Clauzel, perché nessuno, meglio di lui, è informato sulla salute dei pittori parigini: tutti si riforniscono lì.

    Quei disperati si ostinano a stendere interi tubetti di colore sulla tela, quando non hanno neppure il danaro per un pezzo di pane. Sebbene io lo creda uno stolto, tutti lo considerano buono e generoso perché prende a cuore i loro problemi e, se può, cerca di risolverli: ecco il motivo per cui vanno da Père. Spesso fa credito e, a volte, regala pure pennelli, spatole e colori perché si ostina a credere nella loro arte.

    In realtà Père non è il suo nome, ma un soprannome che gli hanno attribuito i suoi clienti, poiché lui li sostiene proprio come farebbe un padre con i suoi figli.

    Sono certo che, tra qualche anno, anche Maurice entrerà a far parte di quella banda di spiantati, se nel frattempo non verrà internato, e vedrà in Père il padre che non ha mai conosciuto.

    Prima di entrare nel negozio, mi accerto sempre che non ci sia madame Tanguy nel locale. In tal caso rimando la mia visita perché, in presenza della moglie, Pére non si lascia sfuggire neppure un insignificante pettegolezzo. Lei non ammette svaghi durante il lavoro: energia e concentrazione devono essere destinate al magazzino, alle vetrine e all’aggiornamento del listino. Non mette nelle mani di un cliente neppure un carboncino se non vede subito il danaro: solo così potrà essere garantito un buon profitto.

    Fosse

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