La narrazione in teatroterapia
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Anteprima del libro
La narrazione in teatroterapia - Francesca Gozzi
La presente tesi si propone di approfondire, dal punto di vista teorico-pratico, l’utilizzo della Narrazione in Teatroterapia con gli alunni di una Scuola Primaria.
I bambini amano le storie e, come piccoli giullari, possiedono la capacità innata, arcaica, di crearle e di raccontarle a chi le sa ascoltare ed apprezzare. È fondamentale che, in questa importante fase di spontaneità e immaginazione, essi possano essere affiancati da adulti preparati, aperti e accoglienti, che sappiano valorizzare e rinforzare la loro creatività. La teatroterapia è una tecnica mirabile per immaginare, creare, raccontare storie di qualsiasi tipo e far sì che esse possano essere messe in scena con spontaneità e semplicità. La teatroterapia facilita la narrazione attraverso percorsi di gioco e di consapevolezza, favorendo l’ascolto di se stessi e degli altri, il recupero dell’unicità, lo sviluppo della personalità e la coesione del gruppo. La teatroterapia è un’arte che può contenere tutte le altre arti.
La narrazione è un modo di essere, di riconoscersi e essere riconosciuti, di confrontarsi con gli altri e di esprimere parti di sé. Le fiabe, le favole, le leggende, i miti sono diversi tipi di narrazione che, se proposti con la Teatroterapia da formatori esperti, offrono occasione di conoscenza e trasformazione in un percorso volto al benessere della persona.
Ho scelto questo argomento perché, da qualche anno, ho scoperto il mondo della scrittura, per me rifugio accogliente nel quale mi sento libera di far emergere pensieri e vissuti nascosti in profondità.
Come un tamburo, che con i suoi battiti giunge dritto dritto al ritmo del cuore, così la narrazione, il desiderio di raccontare e raccontarmi, per conoscere e conoscermi, mi permette di esercitare, parallelamente all’esperienza di formazione in Teatroterapia e ad altri percorsi olistici, un lavoro di crescita personale. Sono fermamente convinta che un arteterapeuta, o chiunque si prenda cura di altre persone, solo attraverso un cammino interiore possa dedicarsi agli altri in modo ottimale, per aiutarli a scoprire, a loro volta, risorse interne inaspettate.
Come spiegherò più avanti, la scrittura non è l’unica modalità di narrazione; quest’ultima, infatti, possiede molti linguaggi, tutti diversi ed efficaci, alcuni dei quali possono essere proposti e sperimentati nei progetti di Artiterapie (come l’arte, la danza, la musica, il teatro).
La Tesi è organizzata in due capitoli.
Il primo capitolo intende fornire un inquadramento generale sulla narrazione e i diversi tipi di narrazione (miti, leggende, favole e fiabe), facendo riferimento a origini, fondamenti teorici e brevi esperienze, a loro collegati, in qualità di allieva nei laboratori Artedo. Annesso a questo capitolo è presente anche un approfondimento sulla Tecnica della Fiabazione e il metodo Autobiografico ideato dal dottor Stefano Centonze.
Nel secondo capitolo il focus di attenzione si sposta sui bambini e la Scuola, delineando caratteristiche peculiari dell’insegnante e del gioco, che introducono la mia esperienza scolastica e di teatroterapeuta in formazione con i bambini.
Sono coinvolti, in questa esperienza, due gruppi di alunni stranieri della Scuola Primaria.
Nel primo caso descrivo come, nella mia professione di insegnante, ho attivato un lavoro laboratoriale e interdisciplinare partendo da una favola che, affiancata a tecniche espressivo-creative derivate dalla Teatroterapia, ha favorito non solo l’apprendimento delle discipline, ma anche il coinvolgimento emotivo-affettivo e relazionale degli alunni.
Nel secondo caso, invece, ho proposto la Narrazione ai bambini facendo uso di diverse strategie provenienti dalla Teatroterapia, incentivandoli alla creazione spontanea di storie in collettività e alla libera espressività del loro potenziale fantastico.
In entrambe le esperienze, vissute nello stesso Istituto, ho potuto constatare quanto l’attività ludico-corporea e il linguaggio della creatività e dell’immaginazione rappresentino, per le persone coinvolte, una grande ricchezza e possibilità di espressione, di conoscenza, di valorizzazione e di trasformazione.
RONDINI DI PAROLE¹
Poesia finalista al Concorso Letterario Città di Ravenna 2018
Parole spaventate
dall’inchiostro
pensieri fluttuanti
in cerca di spazio
lettere
che danzano
in una coreografia
di cuori pulsanti.
Sillabe balbuzienti
che esitano
a vivere
consonanti stonate
che cercano armonia.
Volano
rondini di parole
sul foglio.
E la mia anima
finalmente
si svuota.
Ogni persona è una storia che merita un palcoscenico per narrarsi,
un pubblico per essere ascoltata ed un sipario per il cambiamento.
Francesco Paolo Ettari
La scrittura è una modalità di narrazione, sicuramente efficace e certamente la mia preferita. Da qualche anno, infatti, contemporaneamente alla teatroterapia, utilizzo il canale della scrittura per fare emergere spontaneamente stati d’animo ed emozioni che, altrimenti, rimarrebbero assopiti o celati.
Ma il narrare, il narrarsi, può avvenire attraverso diversi linguaggi espressivi. Raccontare oralmente, scrivere, danzare, recitare, dipingere, manipolare con molteplici materiali, fotografare, sono tutte possibilità meravigliose per narrare e narrarsi, per far sapere agli altri ci sono anch’io
, per appropriarsi di un angolino nell’Universo e sentirsi parte integrante di questa società. Tutti disponiamo di questa facoltà, la facoltà di narrare.
Ci affidiamo a racconti dalle caratteristiche più disparate, per riconoscerci e farci riconoscere, per oltrepassare i nostri confini, per fare esperienza, per vivere dentro e fuori di noi, per entrare in relazione con l’altro, per inoltrarci nel favoloso mondo dell’immaginazione, per sentirci creativi e vivi.
Narrare è prendere contatto con il nostro mondo emotivo e quindi saper utilizzare la creatività che c’è in noi.
«Saper portare alla luce la propria vita creativa non significa necessariamente produrre qualcosa di tangibile, ma adottare un atteggiamento flessibile, ricettivo e al contempo attivo nei confronti della realtà e diventarne, così, pienamente protagonisti…
Ha poca importanza, in fondo, che il gesto inventivo prenda la forma di uno scritto, di un dipinto, di un disegno, di un atto poetico
, di un’idea nuova o segua un’intuizione, così come non importa che venga terminato e, in molti casi, nemmeno quale sia il risultato. Ciò che conta davvero è che l’azione attivi risorse speciali e trasporti chi la compie in una dimensione di positività, benessere, attenzione e concentrazione»².
Noi pensiamo per storie perché siamo costituiti da storie, immersi in storie, fatti di storie.
Gregory Bateson
Come afferma Duccio Demetrio, grande saggista italiano esperto in Filosofia dell’educazione, che si è occupato della scrittura di sé come pratica terapeutica: «Essere al mondo ci fa narratori e individui che sono narrati».
Il narrare, secondo l’autore, è una capacità innata, naturale, un’importante funzione sociale e mentale. Senza di essa non potremmo vivere.
Giuseppe O. Longo, ingegnere e autore italiano, scrive: «La narrazione è insopprimibile. La parola deve circolare, altrimenti moriamo senza morire»³.
Narrare non è un semplice gioco, un’immersione nella fantasia, ma una grande possibilità di esplorare il nostro vissuto e trasmettere agli altri qualcosa di noi. Narrare non è solamente esporre degli eventi in un tempo rispettoso di una cronologia, ma è un’azione di grande valore: le storie, infatti, permettono di conoscere la realtà dentro e fuori di noi.
L’individuo ha per natura bisogno di narrare a se stesso e agli altri, per entrare in relazione. Nell’ascoltare, inoltre, costruiamo i nostri schemi mentali.
Narriamo in famiglia, a scuola, con gli amici, al lavoro, narriamo anche e soprattutto a noi stessi, dentro la nostra intimità. Lo stesso Duccio Demetrio afferma: «Forse, nel momento in cui qualcuno
si accorse che il tacere (il raccontarsi il mondo senza comunicarlo ad altri) era non solo possibile ma utile, dilettevole, conveniente e non sospendeva il lavorio mentale, anzi, lo eccitava, in quell’istante, oltre alla capacità di mentire, dissimulare, nascondere alle orecchie altrui, iniziò la storia del pensiero interiore nelle sue grandezze e miserie. Quando poi, successivamente, l’invenzione della scrittura diede luogo ai primi epigrammi, alle liriche, alle riflessioni sul proprio essere o sentire, si infransero le pareti mentali per riconquistare il piacere del contatto umano»⁴.
Abbiamo sempre qualcosa da raccontare: idee, opinioni, imprevisti, progetti, vissuti, esperienze, rimpianti, dolori, gioie, frustrazioni, soluzioni. C’è bisogno di storie, soprattutto nella società attuale, dove lo spazio personale è ritenuto poco importante, dove la tecnologia ha tolto molto alle relazioni, dove anche nel contesto familiare si corre sempre di più e c’è poco tempo per guardarsi e raccontarsi.
Jedlowski, sociologo e accademico italiano, definisce l’essere umano come «una specie narrante»⁵.
Ma per narrare abbiamo bisogno dell’altro, abbiamo bisogno di essere ascoltati, abbiamo bisogno di riconoscerci e essere riconosciuti. Desideriamo tutti dare un senso a ciò che accade e questo è fondamentale all’essere umano, unico essere vivente dotato del pensiero astratto.
La costruzione della nostra identità si forma grazie a questa duplice azione: come mi sento (quali sensazioni, pensieri, emozioni ho dentro di me) e come sono visto fuori, dagli altri (quale immagine ha l’altro di me). Naturalmente questo è un passaggio molto importante a partire dall’infanzia. Fin da bambini, infatti, abbiamo bisogno di sentirci accettati e valorizzati nelle nostre unicità, perché sarà questo a contribuire al rafforzamento del nostro sé.
Ma chi siamo noi veramente? Siamo quello che vedono gli altri? O l’immagine che essi hanno di noi si discosta dalla nostra? Siamo una persona, nessuna o molte di più? Pirandello, in Uno nessuno centomila, affronta questo tema in una situazione tragicomica. Il protagonista del romanzo alla ricerca di se stesso, infatti, guardandosi allo specchio improvvisamente non si riconosce più e decide di cambiare vita, per togliere l’immagine stereotipata che gli altri gli hanno etichettato e per sentirsi finalmente libero dalla prigionia che lo attanaglia, libero dalle regole della società, libero dal peso della sua
identità. Si immerge nella Natura per scoprire la pace, sgretolando, un po’ alla volta, le maschere che aveva indossato. Mi riconosco moltissimo in questo passaggio e lo scrivere mi accompagna in questa lenta e desiderosa rinascita.
Paul Ricoeur, (1913-2005), si occupò molto di identità narrativa (saggio del 1991). Secondo il famoso filosofo francese la formazione del sé avviene grazie alla creatività, fondamentale modalità di espressione e comunicazione. Il racconto e la metafora sono due forme della creatività umana. La nostra identità personale, egli dice, si forma attraverso l’identità narrativa, che altro non è che la combinazione tra due poli: permanenza e cambiamento.
Le storie sono collegate alla nostra esperienza e radicate nel tessuto stesso della Vita.
Ricoeur mette in evidenza che la nostra identità non è qualcosa di statico, ma muta nel tempo e rappresenta quindi la possibilità di cambiamento.
L’etimologia stessa della parola (dal latino narro=racconto, gnarus=esperto, conoscitore) mette in luce un collegamento tra narrazione e conoscenza⁶. Narrare, quindi, come strumento di consapevolezza, di introspezione, di organizzazione mentale, di costruzione del sé, di elaborazione della realtà. Narrare come terapia, come cura, «come strumento di lavoro di cui la nostra animula si dota per raccontarsi e raccontare quel che ha visto lungo il viaggio»⁷.
Secondo Duccio Demetrio, grande sostenitore dell’autobiografia, i poteri analgesici dello scrivere di sé sono ben cinque⁸:
– dissolvenze: provare piacere nel ricordare. I ricordi sono sbiaditi, vaghi, senza rumore. Il potere curativo della dissolvenza produce distacco, mentale e emozionale, e quindi benessere
– convivenze: comunicare con gli altri ci insegna a porre attenzione a come narriamo (anche il nostro corpo comunica), a come ascoltiamo e a come gli altri ci ascoltano
– ricomposizioni: ricordare ci permette di ricomporci
, di tenerci insieme
. Otteniamo un senso di pienezza e di autonutrimento vagando da un ricordo all’altro, da uno spazio mentale all’altro, costruendo immagini, forme e nuove storie
– invenzioni: è l’immaginario autobiografico che facilita la scrittura personale. Abbiamo la possibilità di staccarci da noi stessi, di dare vita ad altri personaggi, di utilizzare la creatività per manipolare la realtà a nostro piacere. Essa viene rappresentata con volti diversi (sia che venga trascritta, fotografata, dipinta, trasformata in musica…)
– spersonalizzazioni: dobbiamo essere disposti a fare ricerca, con metodi e strumenti più sofisticati, per occuparci delle storie altrui. Non c’è cura profonda se restiamo intrappolati nei nostri pensieri e non proviamo a trascendere noi stessi.
Nel ripensare a ciò che abbiamo vissuto, spiega Demetrio, riusciamo ad analizzare la nostra situazione, a vedere con un’altra prospettiva, divenendo spettatori di noi stessi. Prendiamo consapevolezza di essere stati un’altra persona o tante altre persone. Il pensiero autobiografico ci aiuta a fare questo, a sdoppiarci per conoscerci. «È l’emozione dello sdoppiamento, che ci fa temere di perderci, che, un tempo reputata sintomo di follia, è oggi sintomo di un’adultità più piena e complessa»⁹.
«Il passato ci cura forse ancor di più quando abbiamo la