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Fireflies: Stelle sulla terra
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Fireflies: Stelle sulla terra
E-book428 pagine6 ore

Fireflies: Stelle sulla terra

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Info su questo ebook

Ogni mattina, dopo essere uscita da casa, Effie mette su le sue cuffie rosse. Un po’ rovinate e con una R incisa sopra, impediscono al mondo esterno di mescolarsi al suo. Ogni volta che la musica è in pausa, il distante vociare degli studenti le ricorda di essere rimasta sola. A farle compagnia, soltanto le lucciole che brillano in riva al lago. Dell’artefice di quella situazione non le resta che quella reliquia, il ricordo dei suoi sorrisi e una rabbia immensa che non sa contro chi sfogare. Effie, al sicuro dentro la bolla di musica dentro la quale si è nascosta, non immagina neanche che il proprietario di quelle cuffie sta per tornare e che si ricorda perfettamente di lei. Non sa che, al di là di ogni suo sforzo, la storia che le ha portato via le sue migliori amiche è destinata a ripetersi.
Ma questa volta con un finale ben diverso.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2022
ISBN9791281032002
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    Anteprima del libro

    Fireflies - Debora Guzzo

    Prologo

    Le cose belle, il lavoro, le amicizie

    Quando era iniziata la mia amicizia con Camille e Isabel?

    Forse a nove anni, quel giorno che ci eravamo ubriacate con la macedonia di mia nonna perché aveva esagerato con le dosi di rum. O forse qualche ora più tardi, quando avevamo vomitato dentro al lago, mentre le nostre mamme ridevano di noi. Ma no, magari era successo molto prima, quando avevamo fatto fronte comune per distruggere la capanna che i nostri compagni di scuola avevano costruito. O durante le feste giù al lago, quando ci divertivamo a cantare in playback e fingere di possedere vocioni da baritono.

    No, niente, non sapevo proprio in quale momento fossimo diventate amiche, e non avrei saputo individuare neanche quello in cui avevamo smesso di esserlo. Quasi certamente in entrambi i casi era stato un processo lungo e graduale, e solo il caldo dell’estate e il luccichio del lago erano stati testimoni di quanto accaduto. Avevano assistito prima alle nostre promesse e poi al modo in cui le avevamo infrante.

    Una volta, con l’afa ad appiccicarci i vestiti addosso e i piedi immersi dentro l’acqua del lago, eravamo scivolate in una conversazione che, col senno di poi, sembrava una premonizione di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve.

    «Oggi mio cugino ha detto una cosa strana» avevo esordito, mentre osservavo le lucciole che avevo rinchiuso nel mio barattolo. «Ha detto che le ragazze restano amiche solo finché un ragazzo non si mette di mezzo.»

    Già all’epoca affermazioni così superficiali mi mandavano fuori di testa. Per me l’amicizia era una cosa importante, e per colpa della mia timidezza era talmente raro che legassi con qualcuno che, quando accadeva, mi aggrappavo a quel rapporto con tutte le mie forze. Riconoscevo che per molte persone l’amicizia era un di più che, all’occorrenza, si poteva scaricare da qualche parte, ma io non ero così. Persino mio cugino, nonostante i suoi discorsi, cambiava migliore amico ogni due giorni, ma io, Isabel e Camille eravamo inseparabili ormai da anni. Non sopportavo che qualcuno dubitasse così della nostra amicizia.

    «Io non riesco a immaginarci a litigare per un ragazzo» aveva riflettuto Isabel ad alta voce, mentre sguazzava allegramente con i piedi nell’acqua.

    «No, nemmeno io.» Camille le aveva dato ragione.

    «È quello che gli ho detto. E poi io neanche ci penso ai ragazzi.» Il mio volto riflesso nel lago mi aveva rilanciato un’espressione disgustata.

    «Nessuno ha mai attirato la tua attenzione?» mi aveva chiesto Isabel, e non avevo avuto bisogno di guardarla per vedere la sua espressione scettica.

    «Mmmh.» Forse uno, avevo pensato, ma non ricordavo il suo nome, e lo avevo visto così poche volte che parlargliene mi era sembrato inutile. «No, nessuno.»

    Il mio interesse nei confronti di quegli esseri alieni iniziava e terminava con mio cugino. Gran parte del mio tempo lo trascorrevo a giocare con Camille e Isabel, e a fantasticare sul futuro. Un giorno volevo diventare una musicista, quello subito dopo sognavo di aprire una clinica veterinaria. E se fossi riuscita a diventare un’agente dell’FBI? Fichissimo! Mia madre diceva sempre che sposarsi era stato l’errore più grande della sua vita, ma che grazie a quell’errore aveva avuto me. Forse era l’unica cosa sulla quale lei e mio padre erano sempre stati d’accordo.

    Di conseguenza, io avevo intenzione di fare un figlio ma non di sposarmi.

    Mentre le mie amiche giocavano a indossare l’abito da sposa delle loro mamme, io cercavo di manomettere il trattore del nonno per farlo andare più veloce. Forse quello era stato il primo campanello d’allarme. Non ricordavo l’ultima volta che avevo visto i miei genitori scambiarsi una carezza, ma in me era molto vivida l’immagine di mio padre che si beava degli applausi dei suoi colleghi per qualche lavoro ben svolto, o di mia madre che stappava una bottiglia di vino per festeggiare una vendita importante. Mi avevano insegnato ad amare e a costruire, soprattutto i sogni e le amicizie, ma non erano riusciti a spiegarmi come quei due bellissimi verbi si potessero unire al concetto di famiglia.

    «Io invece ho qualcuno che mi piace» aveva confessato Camille, il volto nascosto nell’ammasso di riccioli neri che le circondavano la faccia.

    «Amore platonico in vista?» Isabel era sempre stata un’eccellente provocatrice. Non era la prima volta che stuzzicava Camille così apertamente, proprio per questo non avevo dato peso alle sue parole. Ah, che grave errore!

    Camille le aveva scoccato un’occhiataccia.

    «Io gli piaccio, non c’è nulla di platonico.» Poi aveva distolto lo sguardo e, con tono incerto, aveva aggiunto: «Usciamo insieme.»

    Isabel aveva sollevato un sopracciglio con aria indifferente.

    «Capisco» aveva sussurrato. «Quindi pensi di presentarcelo? Io e Effie moriamo dalla voglia.»

    Io morivo dalla voglia di costruire quella capanna che progettavamo dall’inizio dell’anno, ma per la prima volta il mio essere così infantile mi aveva fatta sentire in imbarazzo. Così non avevo detto nulla e mi ero limitata ad annuire. Ma sì, mi ero detta, muoio dalla voglia.

    «Magari posso organizzare un’uscita con i suoi amici» aveva proposto Camille, stranamente tesa.

    Poi avevo chiesto se per l’occasione avrei potuto comunque indossare la mia salopette e loro mi avevano bonariamente rimproverata. Tornammo ai discorsi di sempre, ai nostri piani e ai pettegolezzi.

    Io, figlia di divorziati, non avevo mai sognato il grande amore, e forse era proprio per questo che quel giorno non ero riuscita a cogliere i primi segnali di quella rivalità che non colpiva solo le mie amiche, non risparmiava proprio nessuno.

    Persino io non ero immune a quel veleno spaventoso, sebbene fossi sempre stata certa del contrario.

    1

    Irusu

    Irusu: bizzarra parola giapponese usata per indicare quando qualcuno bussa alla tua porta e fingi di non essere in casa.

    Un bel comportamento del cavolo, pensai mentre scorrevo il dito sul display del cellulare per leggere la lista delle parole Giapponesi intraducibili. Eppure, mio malgrado, non potei fare a meno di notare che quel dannato e ignobile concetto, Irusu, era parte di me più di quanto non fossi disposta ad ammettere. Io non solo ero quel tipo di persona che fingeva letteralmente e metaforicamente di non essere in casa, ma mi assicuravo persino di aver girato bene la chiave nella serratura.

    Irusu, riflettei attentamente mentre distendevo le gambe davanti a me, la testa reclinata per osservare le nuvole che viaggiavano rapide in cielo. Suona proprio come un insulto.

    Tamburellai la punta della matita contro le labbra con aria pensosa. I Foo Fighters suonavano ferocemente dentro le mie cuffie, uno splendido concerto privato che mi aiutava a prendere le giuste distanze dalla realtà che mi circondava. Se non sentivo bussare a causa della musica, come potevo fingere di non essere in casa? Quel pensiero mi faceva sentire meno orribile, ma ero abbastanza intelligente da riconoscere il mio atteggiamento per quello che era: una grande paraculata.

    Scivolai completamente contro il pavimento del terrazzo della scuola, le mani unite in grembo e lo sguardo ancora rivolto al cielo. Fortuna che non era uno specchio, perché in quel caso sarei stata costretta a fissare la mia brutta faccia con i miei brutti occhi inespressivi. A giudicare dall’arancione che tingeva l’aria le lezioni dovevano essere terminate già da un po’, e io potevo ritenermi più che soddisfatta da quell’ennesima giornata scolastica passata nell’ozio. Ormai ero una maestra nell’evitare le lezioni e le interazioni sociali che comportavano. Con una mano abbassai le cuffie attorno al collo, concedendo una tregua alle mie orecchie. 

    Il crepuscolo era il momento della giornata che preferivo. Anche quel giorno ero riuscita ad arrivare alla fine delle lezioni senza incappare in qualche seccatura come, per esempio, i compagni di scuola. Ascoltavo musica da quando mettevo piede fuori casa sino alla fine delle lezioni, e quando la mettevo in pausa il silenzio surreale che ne seguiva era sempre magico, proprio come in quel momento. Sentivo solo un fischio e delle leggere vertigini. Ero consapevole che quello stordimento non era sbagliato quanto un’esagerata scorpacciata di caramelle e cioccolata, ma tutto ciò che desideravo era silenziare il mondo e tenere alla larga la gente e i ricordi, anche a costo di farmi venire il mal di pancia.

    Guardai attentamente le cuffie che stringevo tra le mani e le accarezzai con aria distratta. Non era un caso se usavo quelle cose gigantesche rosso fiammante. Volevo che le persone le notassero e che, proprio come il cartello Attenti al cane, dissuadessero chiunque dall’attaccare bottone con me. Funzionavano egregiamente, soprattutto perché era raro che qualcuno avesse così tanta voglia di parlarmi da correre il rischio di dover urlare o essere ignorato. Tutti, nessuno escluso, avevano una paura matta di fare qualche brutta figura, e io non valevo neanche la fatica di un piccolo tentativo, figurarsi il pericolo di una notte insonne causata dall’imbarazzo di una porta sbattuta in faccia. O mai aperta, a voler restare nella terminologia giapponese.

    Il polpastrello del mio dito indice indugiò su una R incisa sull’archetto nero delle cuffie, nella parte interna della plastica, ma un rumore improvviso mi riportò bruscamente alla realtà distraendomi dai miei vaneggiamenti. Afferrai alcuni manga disseminati per terra e li sistemai rapidamente dentro lo zaino, poi spostai le cuffie attorno al collo e mi preparai ad andarmene.

    Era arrivato qualcuno, avevo riconosciuto il cigolio della porta di metallo, dunque era anche arrivato il momento di levare le tende.

    «Sono sempre io il problema, vero?  E tu la povera vittima del cazzo» tuonò con un po’ troppa prepotenza la voce di un ragazzo, in quella che aveva tutta l’aria di essere una lite tra innamorati. Che sfiga incappare in una coppia.

    «Will, andiamo, non fare così» provò a protestare una vocina più bassa e dolce, con un bisbiglio così lieve che a malapena riuscii a distinguere le sue parole. Sembrava spaventata.

    «Non fare così» le fece il verso lui. «E tu non rompermi più i co...»

    Come prego? Non gli lasciai il tempo di finire, ma svoltai l’angolo dietro il quale ero nascosta e palesai la mia presenza alla coppia. Lui rimase a fissarmi paralizzato e le parole gli morirono in gola, mentre teneva una mano stretta sul colletto della sua ragazza e l’altra sollevata come se volesse colpirla. 

    Era come se il tempo si fosse fermato.

    «Oh, Winnie!» dissi subito dopo aver riconosciuto quella ragazzina minuta che, vicina a Will Harper, sembrava ancora più piccina. Lei non osò neanche guardarmi. «Oggi ti ho sentita cantare, hai la voce di un angelo.» Me ne fregavo di risultare invadente. Non avevo intenzione di fargliela facile dopo ciò a cui avevo quasi assistito. Poi, come se mi fossi improvvisamente resa conto della situazione, aggiunsi: «Interrompo qualcosa?»

    Come se le mie parole lo avessero scosso dalla sua paralisi, Will mollò bruscamente il colletto di Winnie e infilò la mano in tasca con aria distratta. Io seguii quel movimento con attenzione per fargli sapere che, nonostante la mia apparente calma, il suo gesto disgustoso non era passato inosservato. Era già successo altre volte? Qualcuno era intervenuto come avevo appena fatto io, o non erano arrivati in tempo?

    Winnie continuava a fissare il pavimento, gli occhi nascosti sotto la frangia biondo platino e le gambe esili visibilmente tremanti.

    «No, è tutto a posto.» Will rise un po’ troppo forzatamente, mentre mi squadrava dalla testa ai piedi. Le sue labbra sorridevano con sfrontatezza, ma gli occhi mi trafiggevano come lame. «I Foo Fighter?» si informò poi, alludendo alla musica che proveniva dalle mie cuffie. Avevo abbassato il volume, ma era ancora perfettamente udibile.

    La sua era una domanda di circostanza, nella speranza di far scemare la tensione. 

    Feci spallucce. 

    «Lo sai, sono stata influenzata da mio cugino» dissi. Quello che l’anno scorso ti ha quasi spaccato la faccia, pensai, ma fu come se lui mi avesse sentita. 

    Già, conoscevo molto bene Will. Capelli color del sole e occhi che riflettevano il cielo, ma nonostante l’aspetto angelico e gli atteggiamenti amichevolmente di circostanza non era che un maledetto figlio di papà ossessionato dal proprio riflesso. Era un mistero come un simile narcisista fosse finito a fare coppia con la ragazza più dolce della scuola. Aveva la fama di comprare qualsiasi cosa: la sua posizione, i voti, persino le amicizie, ma dubitavo che Winnie, un’inguaribile e ingenua romantica, stesse con lui per il peso del suo portafoglio. La famiglia di lei, oltre ad essere benestante tanto quanto quella di Will, possedeva un animo indubbiamente più umile e meno propenso allo sfarzo.

    Passarono lunghi momenti di pesante silenzio, poi Will lanciò un’ultima eloquente occhiata alla sua ragazza e ci diede le spalle.

    «Ci sentiamo» disse semplicemente, e dubitavo parlasse con me. Il fatto che una frase così banale dalle sue labbra suonasse così minacciosa mi diede i brividi.

    Quando scomparve oltre la porta e rimasi sola con Winnie non potei fare a meno di osservarla e domandarmi come mai provassi così tanta tenerezza nei suoi confronti. Winnie era carina.

    Mentre teneva la testa china, i capelli corti e ondulati le sfioravano la nuca. In quel momento provai quasi l’impulso di allungare una mano per farle una carezza. Come si fa con i cuccioli. 

    Non era da me comportarmi così. Normalmente avrei infilato le cuffie e sarei sgattaiolata via dalla terrazza, senza lasciarmi coinvolgere.

    «Stai bene?» le chiesi titubante. Un secondo dopo mi pentii di aver posto quella domanda e mi morsi le labbra. Mancava solo che le chiedessi di uscire a fare shopping insieme.

    Winnie scosse impercettibilmente la testa, ma non rispose. Confesso che il suo silenzio mi offese, ma se non altro il suo atteggiamento era coerente con l’idea che mi ero fatta di lei. Sistemai lo zaino su una spalla e sospirai, poi la superai e raggiunsi la porta. Non sprecai fiato con qualche stupido saluto di circostanza. Non ero così rancorosa, ma sapevo riconoscere quando qualcuno non gradiva la mia presenza, così non mi feci troppi problemi e me ne andai.

    Ogni città ha la propria casa dei fantasmi, e la nostra era proprio l’antica villetta in stile Liberty nella quale abitavo. Non ero ricca e mio padre non era un miliardario con la passione per gli investimenti, tutt’altro. Anche una casa gigantesca come quella poteva sembrare molto più piccola se al suo interno ci abitavano sei persone. Il cartello arrugginito, sistemato sul cancello in ferro battuto, recitava: Casa Spencer - Dicker - Allen. Spencer era il cognome di mia madre, mia zia e la nonna; Dicker quello di mio cugino; Allen il mio. 

    Noi cinque, in compagnia di Mrs. Lorely, avevamo infatti deciso di andare a vivere tutti insieme dopo il divorzio delle sorelle Spencer.

    Era dalla fine delle medie che stavo lì con tutti loro, e mentirei se dicessi che quella situazione non mi rendesse felice. Mi sentivo molto più a casa in quel momento della mia vita rispetto al periodo trascorso con mia madre e mio padre, che con i loro continui litigi avevano reso i mesi antecedenti il loro divorzio un vero e proprio inferno. Amavo i miei genitori, ma li preferivo quando se ne stavano a chilometri di distanza, proprio come in quel momento: mamma in America con me, papà in Giappone con una nuova moglie.

    Il cancello d’ingresso della villa non era mai chiuso per colpa della pianta rampicante che era cresciuta sulle inferriate in ferro battuto, bloccandolo. Anche il giardino era in balia di arbusti selvatici e disordine, se non per il retro tenuto sempre pulito e ordinato dalla nonna e da Mrs. Lorely. Per noi era importante che la villa mantenesse il suo fascino antico e che nulla facesse esplodere quella bolla che la avvolgeva e dentro la quale il tempo aveva smesso di scorrere.

    Attraversai il giardino stringendo la bici dal manubrio e constatai con mia stessa sorpresa che molte luci erano accese. La appoggiai contro l’intonaco rovinato del muro, poi salii i pochi gradini che portavano all’imponente porta d’ingresso.

    Entrai cercando di non fare troppo rumore e il familiare e forte odore di cera mi investì. La nonna doveva aver lucidato il corrimano delle scale, e a suggerirmelo erano anche i secchi e i pennelli abbandonati sopra i primi gradini. Tolsi il cappotto e lo appesi all’appendiabiti, poi mi avvicinai in punta di piedi alla porta socchiusa della cucina.

    Sentivo delle voci. Parecchie voci. Qualche risata e anche un vago odore di fumo.

    «Sei tornata.»

    La voce rugosa della nonna per poco non mi fece prendere un colpo. Quando era arrivata? Come diavolo faceva ad essere così silenziosa nonostante ogni asse del pavimento scricchiolasse come le ossa di un anziano con l’artrite?

    «E cosa sono quei capelli spettinati? Una signorina non dovrebbe mai uscire in disordine.»

    La nonna era un po’ vecchio stampo, tuttavia non ero l’unica a doversi sorbire i suoi continui ammonimenti. Eric, pur non essendo una signorina, era costretto a seguire il protocollo tanto quanto me. Se non altro ero riuscita a convincerla che uscire in minigonna non era più scandaloso, e che addirittura esisteva una giornata mondiale dedicata a quel capo germogliato come icona della ribellione.

    «Ssh nonna!» bisbigliai, senza voltarmi a guardarla. Stavo cercando di distinguere i volti dei ragazzi in cucina. C’erano Clark, Louis, Joe... «Perché non sapevo che Eric avesse invitato i suoi amici per cena?»

    «Perché non lo sapeva neanche lui.» La nonna difese con una certa stizza se stessa e il nipote, riconoscendo nel mio tono di voce una sottile accusa. Odiavo le visite inaspettate. «Sembra sia tornato un suo vecchio amico.»

    Un vecchio amico? I miei pensieri corsero immediatamente a un doloroso e quasi sfocato ricordo. Una figura di spalle, una schiena larga e forte, morbidi capelli neri che solleticavano la pelle chiara della nuca. 

    Il mio pollice sfiorò istintivamente la R incisa sulle cuffie, mentre i miei occhi cercavano il loro precedente proprietario proprio all’interno della cucina di casa mia. Forse ero ancora in tempo per rifilare una scusa alla nonna e scappare via... forse non mi avevano vista arrivare con la bici e non sapevano che ero lì. 

    Se c’è, non deve vedermi. Se non c’è, tanto meglio.

    Eppure, al di là di ogni mia ottima previsione di fuga, proprio in quel momento la porta della cucina venne spalancata e io mi ritrovai faccia a faccia con quel passato che ogni giorno cercavo disperatamente di dimenticare. La luce abbagliante alle spalle del ragazzo che avevo davanti per un attimo lo fece sembrare una visione, un fantasma del passato tornato per perseguitarmi. Tuttavia il luccichio dentro i suoi occhi scuri, adesso spalancati dalla sorpresa, era troppo vivo per poter appartenere a un’allucinazione. 

    Lui era lì, era tornato. Per davvero.

    «Hai ancora le mie cuffie, Effie?» chiese con tono vagamente divertito, dopo aver superato quel breve attimo di stupore.

    Quella voce... la sua voce.

    Se ogni giorno ascoltavo ossessivamente musica era solo per scacciarla dai miei ricordi. E, paradossalmente, non mi ero ancora sbarazzata di quelle dannate cuffie solo per non scordarmi di lui.

    Umettai nervosamente le labbra, poi distolsi lo sguardo prima che la visione del suo volto potesse spezzarmi.

    «Ciao, Roe.»

    Mi ero dimenticata com’era pronunciare il suo nome. Mi ero dimenticata che non era solo una R incisa su della plastica, ma che esisteva e mi aveva provocato immenso dolore.

    Va bene, mi dissi quella sera stessa, non è mica la fine del mondo.

    Seduta sul cornicione del terrazzo di casa mia, fissavo incantata lo spettacolo visibile da lì e nel frattempo lasciavo che il mio cuore si decidesse a darsi una calmata. Tenevo una mano artigliata alla felpa, all’altezza del petto, quasi avessi paura che l’emozione lo squarciasse in due, e l’altra stretta attorno una vecchia fotografia che non avevo ancora il coraggio di guardare. Avevo di nuovo messo su le cuffie, ma questa volta ad accompagnare i miei pensieri non c’erano i Foo Fighters, ma una dolce playlist Lo-Fi che avevo trovato sul web.

    Twinkle era per molti aspetti la classica cittadina non troppo degna di nota, con un misero numero di abitanti la cui età media superava senza troppa fatica la soglia dei sessant’anni, ma a modo suo sapeva essere unica. Me lo ricordavo ogni volta che mi affacciavo dalla villa. La mia città natale era un cerchio perfetto costruito attorno al lago da cui prendeva il nome. Le luci delle case si riflettevano perfettamente su quelle acque che ad alcune ore del giorno sembravano brillare come sotto effetto di un incantesimo, e da qui il nome Twinkle: luccichio.

    La villa era situata in uno dei punti più alti della città, al confine con il bosco che ci abbracciava come a voler tenere nascosto quell’angolo di paradiso dal resto del mondo. In effetti certe volte la sensazione era proprio quella di trovarsi in un’altra dimensione, soprattutto quando, in sella alla mia bici, sfrecciavo tra le vecchie costruzioni delle vie abitate; o quando passeggiavo sul pontile in legno che circondava il lago, accanto ai pescherecci usurati che alcuni vecchi signori – i più coraggiosi – si ostinavano a tenere in vita. Come quei cari ammalati a cui non si ha mai il coraggio di staccare la spina. Sì, Twinkle mi aveva sempre protetta, e per molto tempo mi ero scordata dell’esistenza del resto del mondo. Era stata l’improvvisa partenza di Roe a riportarmi bruscamente con i piedi per terra, ricordandomi che il mondo e la vita si estendevano ben al di là del mio piccolo angolo di paradiso. Era stato come ricevere un dolorosissimo schiaffo. Da quel momento, dei miei amici e delle nostre risate non era rimasto che un triste ricordo e quel panorama mozzafiato. Eppure tanto splendore appariva solo infinitamente triste quando non c’era nessuno con cui valesse la pena condividerlo.

    Sollevai le gambe sul parapetto, poi abbracciai le ginocchia e ci appoggiai il mento. Chiusi gli occhi, mentre una leggera brezza mi spostava dolcemente i capelli. Era inizio settembre, tuttavia l’aria calda e afosa d’agosto resisteva tenace, e io cercavo di bearmene il più possibile.

    Socchiusi gli occhi e guardai di sotto, dove le sagome degli amici di mio cugino si avviavano verso il cancello e si lasciavano alle spalle la luce calda dei lampioni. Il sole non era ancora tramontato del tutto, ma iniziavano a intravedersi le prime stelle e il cielo si era tinto di quell’azzurro scuro che precedeva la notte. Con gli occhi seguii fin quando possibile un cappellino rosso indossato con la visiera rivolta all’indietro.

    E così stai andando via. Di nuovo.

    Mi vergognai così tanto dei miei pensieri che riaffondai la testa fra le ginocchia. La musica Lo-Fi mi rendeva davvero troppo sentimentale, forse i Foo Fighters facevano più al caso mio… proprio in quel frangente qualcuno mi strappò le cuffie di dosso, e la musica venne rapidamente sostituita dal frinire delle cicale.

    «Eric» constatai con sorpresa, mentre giravo il volto verso mio cugino. Lui sedette accanto a me e mi porse uno di quei pessimi gelati confezionati che ci davano in omaggio al piccolo supermercato locale, lungo la strada di casa. Qualsiasi gusto sembrava alla nocciola, persino quello alla fragola, e la crema era sempre bianca.

    «Non hai mangiato niente» borbottò lui, mentre scartava il suo.

    Per un attimo rimanemmo in silenzio a mordere la copertura del gelato e pulirci le labbra con il dorso della mano, come da bambini. Lo guardai fissare il cielo con aria assorta, mentre dondolava le gambe al di là del muretto. Aveva la pelle ambrata leggermente scurita dall’estate che ormai giungeva a termine, e i capelli biondo cenere che, a causa del sole, erano ornati da alcuni riflessi più chiari. In quegli ultimi anni era cresciuto parecchio e, sebbene avesse solo un anno più di me, nei suoi lineamenti morbidi rivedevo ancora quel bambino dagli occhi verdi accanto al quale mi addormentavo dopo le giornate trascorse al lago con i nostri genitori. Se mi concentravo riuscivo persino a immaginare la sensazione delle corde dell’amaca che il nonno montava in giardino apposta per noi e i nostri sonnellini del crepuscolo, così li avevamo ribattezzati.

    Sentendosi osservato, Eric mi lanciò un’occhiata. I suoi occhi avevano lo stesso taglio malinconico dei miei. Lo avevamo ereditato dal nonno.

    «Ci sono problemi con Roe, vero?» bisbigliò con tatto, quasi fossi un gattino da dover avvicinare con molta premura. Poi aggiunse con un po’ d’imbarazzo: «Sai, ho sempre pensato che non ti piacesse parlare di lui, ma credevo fosse solo una mia impressione e…»

    «Ma no, ti sbagli» tagliai corto forse un po’ troppo bruscamente, e con un non troppo velato nervosismo. Per rimediare a quel grave errore continuai a parlare, questa volta con un tono di voce più disinvolto. «Mi sembra che questi anni all’estero gli abbiano fatto bene, vero? Chissà perché ha deciso di tornare.»

    Eric continuò a fissarmi senza battere ciglio.

    Se l’è bevuta?

    Ci sperai.

    Lui arcuò un sopracciglio, quasi in risposta ai miei pensieri. La sua espressione sembrava dire: "No, naturalmente."

    «Che bugiarda che sei» pronunciò infatti, senza neanche lasciarmi il beneficio del dubbio. «Guarda che ti conosco, so quando menti. Va bene se non vuoi parlarne, ma…»

    Ma niente, perché a quel punto rimisi le cuffie alle orecchie e feci partire la prima playlist rock nel mio repertorio. Se mi conosceva così bene come diceva, allora sapeva già che non avrei aperto bocca. Riesumare quello che era o non era successo con Roe non avrebbe fatto altro che riaprire una ferita che non aveva mai smesso di bruciare. Ogni giorno cercavo faticosamente di dimenticare quegli avvenimenti di tre anni prima che vivevano solo perché ancora strettamente ancorati alla mia memoria. Ero l’unica testimone rimasta, non avrei mai coinvolto Eric.

    Mio cugino scosse la testa con rassegnazione, poi si alzò. Anche se non potevo udirlo, immaginai molto chiaramente la sua voce bisbigliare qualcosa come Non ti sopporto quando fai così.

    Solo quando restai nuovamente sola trovai il coraggio di lanciare un’occhiata alla foto che avevo abilmente nascosto, e di leggere la didascalia che vi era stata scritta con un pennarello indelebile.

    Twinkle’s golden trio.

    Quella faceva più male dei tre sorrisi ritratti nella foto. Delle tre ragazze unite in un abbraccio, con i piedi immersi nelle fredde acque del lago, le guance arrossate a causa del sole estivo e i capelli appiccicati alla pelle per colpa dell’umidità. L’estate più bella della mia vita.

    Aprii le labbra con esitazione, mossa da un improvviso e irrazionale bisogno. Quando parlai, la mia voce tremava.

    «Cami.» Passai il pollice sul volto abbronzato di Camille, con i suoi ricci castani e quel sorriso luminoso che la presentava come la ragazza forte e allegra che era. «Isa.» A quel punto accarezzai anche lei, con la sua iconica coda bionda e quello sguardo furbetto sempre acceso da un pizzico di malizia. Volevo solo ricordare com’era pronunciare i loro nomi.

    Cami e Isa.

    Cami e Isa.

    Cami e Isa.

    Le chiamai ancora e ancora, mentre mi si annebbiava la vista per colpa delle lacrime che cercavo di trattenere. Le mie migliori amiche. Le mie sorelle. E adesso non eravamo che sconosciute. I miei occhi scesero sul volto della terza ragazza in foto, stretta tra le altre due. Capelli biondo rame sempre disordinati e occhi turchesi la cui contentezza accompagnava un timido sorriso carico di felicità. Quella ero io quando ancora non avevo messo delle cuffie tra me e il resto del mondo. Purtroppo, sapevo che ero l’unica a starci ancora così male e che nessuno, proprio nessuno, avrebbe pronunciato il mio nome in preda alla nostalgia.

    E la colpa era solo di Roe.

    Maledetto, maledetto, Roe, pensai mentre una lacrima mi attraversava una guancia, hai rovinato tutto.

    2

    Il ragazzo delle cuffie

    Dopo una notte insonne sentivo sempre il bisogno della mamma. Che fosse un abbraccio, un sorriso o una rapida carezza, vederla riusciva sempre a calmarmi. Davanti alla sua allegria i problemi sembravano farsi piccoli fino a scomparire, e dei brutti pensieri che mi toglievano il sonno non ne restava neanche l’ombra.  

    Tuttavia quella mattina, quando nessuno venne a svegliarmi, capii che doveva già essere uscita per raggiungere il suo nido d’arte, una sorta di bar/bottega dove scolpiva le sue statue d’argilla, mentre la zia vendeva torte e offriva caffè. All’occorrenza mettevamo in vendita anche i fiori e le piante sistemati all’interno del piccolo locale solo per pura bellezza. 

    La mamma amava la bottega perché le ricordava il nonno e la sua infanzia e non era insolito che la mattina, quando era reduce da una notte tremenda passata in balia dei pensieri, uscisse presto per godersi il lago illuminato dalle prime luci dell’alba. 

    Quando la sentivo sgattaiolare capitava che la seguissi per fare colazione con lei con i piedi immersi nell’acqua, ma quel giorno dovevo essere stata così assorta nelle mie contorte riflessioni da non averla sentita.

    Quando R... quando una certa persona riempiva i miei pensieri, era difficile che qualcuno riuscisse a distogliere la mia attenzione. Eppure erano mesi che non ci pensavo più... 

    Scostai le coperte e mi alzai di colpo, sbuffando. Era inutile continuare a rigirarsi, non sarei mai riuscita ad addormentarmi. Avevo i capelli appiccicati al corpo per colpa del sudore, allora mi allungai per aprire la grande finestra a due ante posta proprio sopra il mio letto. Le persiane erano sempre spalancate, perché non sopportavo di dormire nel buio più totale e a volte, prima di addormentarmi, guardavo con aria assorta il cielo. Era un’abitudine che mi tranquillizzava, anche se davanti ai pensieri più ostici anche la poesia delle stelle si rivelava del tutto inefficace...

    Mi stiracchiai e mi misi in piedi, poi sentii il gatto grattare dietro la porta e la aprii.

    Whisky entrò annunciandosi con un lungo miagolio, poi si strusciò contro le mie gambe lasciandomi una fila di peli rossi sul polpaccio. 

    «Buongiorno a te.» Gli grattai la testolina, poi guardai l’ora sul vecchio orologio a pendolo che avevo rubato dalla collezione della zia. Era mezzo storto, ma funzionava. 

    Era ancora così presto... a quell’ora potevo trovare già in piedi solo Mrs. Lorely, e a giudicare dall’odore di cannella che aveva invaso la mia stanza non appena aperta la porta, doveva aver iniziato a infornare biscotti già da un po’.

    Comunque non avevo ancora fame e avevo abbastanza tempo prima di dovermi preparare per la scuola, perciò dopo aver afferrato dal comodino le mie adorate cuffie uscii in corridoio e, ancora scalza, zampettai su in terrazza ad annaffiare le piante. Whiskey mi seguì nella speranza di scroccare da mangiare. Era un gattone perfettamente in salute e con un bellissimo pelo rosso. Lo avevo trovato qualche anno prima nel bosco con entrambe le zampe spezzate. Ancora adesso non camminava bene – praticamente saltellava – ma era felice. 

    Afferrai l’annaffiatoio che Mrs. Lorely lasciava sempre per me sulle scale che conducevano alla terrazza. Fuori l’aria era leggermente più fresca e c’era un venticello piacevole, mentre il sole iniziava lentamente ad alzarsi. Gli uccellini con il loro cinguettio mattutino attirarono l’attenzione di Whiskey, che iniziò a correre come un matto.

    Mi avvicinai alla piccola fontana con la testa di leone e riempii l’annaffiatoio, poi mi misi all’opera. Se Eric fosse salito proprio in quel momento, magari per fumare una delle sue sigarette, non si sarebbe trattenuto dal dire che curare quelle piante non avrebbe colmato

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