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L ultima volta che ti ho detto addio (eLit): eLit
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E-book386 pagine5 ore

L ultima volta che ti ho detto addio (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Lexie Rigs è un genio della matematica e tutto per lei è rigorosamente razionale, così quando inizia a percepire in casa segni della presenza del fratello - da poco scomparso - non riesce a confidarsi con nessuno.

Di certo non lo può dire a sua madre, già convinta che Tyler sia con loro. Non può raccontarlo alle amiche nerd come lei, perché la prenderebbero per pazza. Non può lasciarselo scappare nemmeno con il suo psicanalista: non vuole certo finire imbottita di farmaci.

Alla fine, lo confida alla vecchia amica e vicina di casa, Sadie, che non si scompone minimamente di fronte a quell'assurdità,e anzi la aiuta a capire che cosa potrebbe volere Tyler da lei, se davvero si trattasse di lui.

Inizia così per Lexie una sorta di viaggio nelle ultime ore del fratello, e ogni tassello del mistero che circonda la sua morte trova piano piano il suo posto. Così Lexie capisce che un fantasma non deve per forza essere vero per impedirti di andare avanti. E ora è il momento di andare avanti.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2017
ISBN9788858976128
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    Anteprima del libro

    L ultima volta che ti ho detto addio (eLit) - Cynthia Hand

    Copertina. «L'ultima volta che ti ho detto addio» di Hand Cynthia

    Immagine di copertina: pernsanitfoto / iStock / Getty Images Plus

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Last Time We Say Goodbye

    HarperTeen

    An Imprint of HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A.

    © 2015 Cynthia Hand

    Traduzione di Isabella Polli

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2015 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5897-612-8

    Frontespizio. «L'ultima volta che ti ho detto addio» di Hand Cynthia

    A JEFF.

    Perché questo è l’unico modo che conosco

    per raggiungerti

    Aiuta la barca del fratello ad attraversare,

    e anche la tua raggiungerà l’altra riva.

    Proverbio indù

    . 5 febbraio .

    Per prima cosa voglio dichiarare che questa storia di mettere tutto per iscritto non è stata una idea mia, ma di Dave, il mio terapista. Pensa che io faccia fatica a esprimere le emozioni, motivo per cui mi ha suggerito di tenere un diario: per tirarle fuori, ha detto, come ai vecchi tempi, quando i medici salassavano i pazienti per far defluire qualche misterioso veleno. Il che, nonostante le buone intenzioni dei dottori, quasi sempre li portava alla morte, potrei far notare.

    La nostra conversazione si è svolta più o meno così:

    Lui voleva che cominciassi a prendere antidepressivi.

    Io gli ho risposto che poteva metterseli dove non batte il sole.

    Quindi, in pratica, a quel punto eravamo a uno stallo.

    «Proviamo un approccio diverso», ha detto lui alla fine, e ha allungato un braccio all’indietro per prendere un libretto nero, che mi ha mostrato. Me lo ha dato, io l’ho preso, l’ho sfogliato, e poi ho rialzato gli occhi, confusa.

    Le pagine erano tutte bianche.

    «Ho pensato che, in alternativa, potresti provare a scrivere» ha detto.

    «È un moleskine» ha aggiunto, quando si è reso conto che la mia unica reazione consisteva nel fissarlo. «Li usava anche Hemingway.»

    «Alternativa a cosa?» gli ho chiesto. «Allo Xanax?».

    «Voglio che ci provi almeno per una settimana» ha risposto lui. «A scrivere, intendo.»

    Ho cercato di ridargli il diario. «Non sono una scrittrice.»

    «Ho scoperto che puoi essere molto eloquente, Alexis, quando ti ci metti.»

    «Perché? A che cosa servirebbe?»

    «Hai bisogno di uno sfogo» ha detto lui. «Ti stai tenendo tutto dentro, e non ti fa bene.»

    Benissimo, ho pensato. Adesso mi dirà di mangiare verdura, prendere le vitamine e assicurarmi di dormire almeno 8 ore di fila ogni notte.

    «Certo. E tu lo leggeresti?» gli ho chiesto, perché non c’era neanche la più remota possibilità che questo accadesse. Parlare della mia vita inaspettatamente tragica per un’ora alla settimana è già abbastanza duro. Non esiste proprio che io riversi tutti i miei pensieri in un quaderno in modo che lui possa portarselo a casa e analizzare la mia sintassi.

    «No» ha risposto Dave. «Ma spero che un giorno tu ti possa sentire abbastanza sicura da parlare con me di quello che hai scritto.»

    Non granché probabile, ho pensato, ma la mia risposta è stata: «Okay. Ma non aspettarti Hemingway».

    Non so perché ho accettato, forse sto cercando di essere una brava bambina che ubbidisce al dottore.

    Dave sembrava immensamente soddisfatto di sé. «Non voglio che tu sia come Hemingway, Hemingway era un coglione. Voglio che tu scriva le cose che ti colpiscono, qualsiasi siano: la tua vita quotidiana, i tuoi pensieri, le tue emozioni.»

    Non ne ho di emozioni, avrei voluto dirgli, ma invece ho annuito, perché sembrava così speranzoso, come se la mia salute mentale dipendesse esclusivamente dalla mia collaborazione a scrivere questo stupido diario.

    Poi però ha detto: «E penso che perché funzioni davvero, dovresti anche scrivere di Tyler».

    Il che ha scatenato l’irrigidimento riflesso di tutti i miei muscoli masticatori.

    «Non posso» sono riuscita a sibilare fra i denti.

    «Non scrivere di come è finita» ha detto Dave. «Cerca di parlare di un periodo in cui era felice. Di quando eravate felici, insieme.»

    Ho scosso la testa. «Non mi ricordo.» Ed è la verità: dopo solo 7 settimane scarse, giusto 47 giorni senza interagire con mio fratello ogni giorno, senza lanciargli i piselli attraverso il tavolo della cucina, senza vederlo nei corridoi a scuola e fare finta, per salvare le apparenze come farebbe ogni brava sorella maggiore, che mi desse fastidio, l’immagine di Ty si è offuscata nella mia mente. Non riesco a visualizzare un Ty che non sia morto. Il mio cervello ritorna sempre alla fine: il corpo, la bara, la tomba.

    Sono troppo lontana anche solo dal cominciare ad avvicinarmi all’idea di felicità.

    «Concentrati sulle prime e le ultime volte» mi ha consigliato Dave. «Ti aiuterà a ricordare. Per esempio, circa vent’anni fa avevo una Mustang dell’83. Ci avevo lavorato un sacco, amavo quell’auto più di quanto dovrei forse ammettere, ma adesso, dopo tutti questi anni, non riesco a ricordarmela bene. Però se penso alle prime e alle ultime volte legate a quella macchina, potrei raccontarti della prima volta che l’ho guidata, o dell’ultima volta che l’ho usata per un lungo viaggio, o della prima volta che ho passato un’ora sul sedile posteriore con la donna che sarebbe diventata mia moglie, e allora la vedo chiaramente.» Si è schiarito la gola. «Sono quei momenti chiave che brillano nelle nostre menti.»

    Però non stiamo parlando di una macchina, ho pensato. Stiamo parlando di mio fratello.

    Inoltre, mi sono accorta che probabilmente Dave mi aveva appena raccontato di aver fatto sesso con sua moglie, il che era proprio l’ultima cosa che mi volevo immaginare.

    «Quindi, questo è ufficialmente il tuo compito» ha detto, appoggiandosi allo schienale come per chiudere la questione. «Scrivi dell’ultima volta che ricordi di aver visto Tyler felice.»

    Il che mi riporta qui: a scrivere in un diario che non voglio tenere un diario. L’ironia non mi sfugge.

    Sul serio, però, io non sono una scrittrice. Agli esami di ammissione al college ho preso un dignitoso 720 nella prova di elaborazione scritta, ma nessuno ci fa caso di fronte al mio perfetto 800 in matematica. Non ho mai tenuto un diario. Papà me ne aveva regalato uno, per il mio tredicesimo compleanno: era rosa, con un cavallo in copertina. È finito in fondo al mio scaffale insieme a una copia della Bibbia degli adolescenti, alla Settima Guida Definitiva alla Bellezza e a tutta l’altra roba che avrebbe dovuto prepararmi alla vita fra i 13 e i 19 anni, come se avessi mai potuto essere pronta. Roba che è ancora tutta lì, cinque anni dopo, a prendere polvere.

    Quella non sono io. Io sono nata con una mente matematica, io penso per equazioni. Quello che vorrei fare, se davvero potessi appoggiare questa penna sul foglio e produrre un risultato utile, sarebbe prendere i miei ricordi, quegli inafferrabili e dolorosi momenti della mia vita, e trovare un modo di addizionarli e sottrarli e dividerli, inserire variabili e spostarli, provare a isolarli, per scoprire i loro significati sfuggenti, per trasformarli da possibilità in certezze.

    Cercherei di risolvere me stessa, individuare il punto dove tutto è andato storto. Come ho fatto ad arrivare qui, dal punto A al punto B, dove A è l’Alexis Riggs che era così sicura di sé, che era brillante e solida e rideva un sacco e a volte piangeva, e non falliva nelle prove più importanti.

    E dove B è questo.

    Invece, la pagina bianca mi sbadiglia davanti: la penna che ho in mano mi sembra innaturale, tanto più pesante di una matita. Definitiva. Non ci sono gomme, nella vita.

    Vorrei poter tirare una riga e ricominciare da capo.

    . 1 .

    La mamma sta piangendo di nuovo, stamattina. Ultimamente le succede questa cosa: come se, in un momento qualsiasi, dentro di lei si aprisse improvvisamente un rubinetto. Magari stiamo facendo la spesa, o guidando o guardando la TV, io la guardo di sottecchi e lei sta piangendo in silenzio, come se non se ne rendesse neanche conto: senza singhiozzare o gemere o tirare su col naso, solo un fiume di lacrime che le scende sul viso.

    Dicevo, stamattina. La mamma prepara la colazione, come ha sempre fatto per quasi tutti i giorni della mia vita: fa scivolare le uova strapazzate nel mio piatto, imburra il toast, mi versa un bicchiere di succo d’arancia e mette il tutto sul tavolo della cucina.

    Piangendo tutto il tempo.

    Quando fa questa scena delle cateratte, cerco di comportarmi come se non fosse nulla di straordinario, come se fosse perfettamente normale che tua madre pianga sulla tua colazione. Come se non mi desse nessun fastidio. Così dico qualcosa di allegro come: «Magnifico mamma, stavo morendo di fame», e comincio a spostare il cibo bruciacchiato qua e là nel piatto, in un modo che spero la convinca che sto mangiando.

    Se fosse prima, se ci fosse Ty, la farebbe ridere. Soffierebbe le bolle nel suo latte al cioccolato, disegnerebbe una faccia con il bacon e le uova e farebbe finta di parlarci, e poi griderebbe come se fosse nel bel mezzo di un film dell’orrore, mangiandosi lentamente uno degli occhi.

    Ty sapeva come sistemare le cose, io no.

    La mamma si siede di fronte a me, con le lacrime che le scorrono fino mento, e giunge le mani in grembo. Smetto di fingere di mangiare e chino la testa, perché anche se da un po’ ho smesso di credere in Dio, non voglio complicare le cose confessando a mia madre il mio nascente ateismo. Non adesso, ha già abbastanza cose di cui preoccuparsi.

    Invece di pregare, però, lei si asciuga la faccia con il tovagliolo e mi guarda con occhi luminosi, le ciglia appiccicate dalle lacrime. Fa un bel respiro, il tipo di respiro che si prende quando si sta per dire qualcosa di importante, e sorride.

    Non riesco neanche a ricordarmi l’ultima volta che l’ho vista sorridere.

    «Mamma?» dico. «Come stai?»

    Ed ecco che arriva il momento in cui dice la cosa folle, la cosa che non so come gestire.

    Dice:

    «Penso che tuo fratello sia ancora in questa casa».

    Prosegue spiegandomi che ieri notte si è svegliata senza motivo da un sonno profondo. Dice che si è alzata per prendere un bicchiere di vino e un Valium, per aiutarla a riaddormentarsi. Era in piedi vicino al lavello della cucina quando, all’improvviso, ha sentito il profumo della colonia di mio fratello, dice che quell’odore la circondava.

    Come se lui fosse in piedi accanto a lei.

    È inconfondibile, quella colonia, Ty se l’era comprata da Walmart due Natali fa, in una bottiglia da, tipo, venti litri, questo contenitore gigante di Brut di un color verde-fango-radioattivo: «l’essenza di un uomo», sbandierava la confezione. Ogni volta che mio fratello si metteva quella roba, il che accadeva piuttosto spesso, l’odore invadeva la stanza. Quando passava nel corridoio, a scuola, era come in una nuvola sospesa due metri davanti a lui. Non è che fosse proprio un odore spiacevole, ma aveva questo strano modo di invaderti i sensi: ANNUSAMI, sembrava pretendere. Non ho l’odore di un vero uomo? STO ARRIVANDO.

    Inghiotto una forchettata di uova e cerco di pensare a qualcosa di utile da dire.

    «Sono certa che il flacone rilascia qualche tipo di effluvio spontaneo», le dico alla fine. «E la casa è piena di spifferi.»

    Ecco qua, mamma. Una spiegazione perfettamente logica.

    «No, Lexie», mi dice scuotendo la testa, con i resti di quello strano sorriso ancora appesi agli angoli della bocca. «Lui è qui. Lo sento.»

    Il punto è che non sembra impazzita: sembra piena di speranza, come se le ultime sette settimane non fossero state altro che un brutto sogno, come se non lo avesse perduto, come se non fosse morto.

    Questo può diventare un bel problema, dico fra me e me.

    . 2 .

    Io vado a scuola in autobus. Mi rendo conto che come studentessa dell’ultimo anno di liceo, in particolare come studentessa che possiede un’auto, è una scelta ardita, ma nella classica vecchia dicotomia fra tempo e soldi, io scelgo senza dubbio i soldi. Vivo nella sonnacchiosa cittadina di Raymond, in Nebraska (popolazione: 179), ma vado a scuola nella tentacolare metropoli di Lincoln (popolazione: 258.379); il liceo dista 20 chilometri da casa mia, un totale di 40 chilometri andata e ritorno. La mia vecchia e scassata Kia Rio (alla quale mi riferisco, non così affettuosamente, con l’appellativo de «il Bidone») fa circa 10,5 chilometri con un litro, e la benzina in questo angolo del Nebraska costa in media 80 centesimi di dollaro al litro. Quindi andare a scuola in auto mi costa $3,07 al giorno; l’attuale anno scolastico prevede 179 giorni di lezione, per cui il costo totale ammonterebbe alla somma folle di $549,53, e tutto per risparmiare 58 minuti della mia giornata.

    È semplicissimo: l’anno prossimo dovrò pagarmi il college. Ho già messo da parte una bella cifra, e per farlo ho elaborato un piano: parte del piano prevede di prendere sempre l’autobus per andare a scuola.

    In realtà, all’inizio mi piaceva prendere l’autobus. Prima, intendo, quando potevo ancora mettermi gli auricolari, darci dentro con Bach e guardare l’alba sorgere sui campi di granturco, bianchi e deserti, e sulle classiche fattorie cotte dal sole che si intravedono lungo la strada. I mulini che giravano, le mucche accalcate per riscaldarsi, gli uccelli (i migliarini di palude color ardesia, le cince e gli occasionali lampi rossi dei cardinali) che scivolavano senza fatica nell’aria invernale. Era un momento tranquillo, intimo e piacevole.

    Da quando Ty è morto, però, mi sento tutti gli occhi puntati addosso, alcuni pieni di compassione, certo, sempre pronti ad accorrere con un fazzolettino anche senza preavviso, ma altri che mi guardano come se fossi diventata una specie di pericolo. Come se avessi un gene difettoso nel sangue, come se la tristezza della mia vita si potesse trasmettere per contatto involontario, come una malattia.

    Be’, comunque, che vadano pure al diavolo.

    Naturalmente non ha senso arrabbiarsi, non è produttivo. Non si rendono conto che arriverà anche per loro la telefonata che cambierà ogni cosa: prima o poi ciascuno passerà quello che sto passando io, perché prima o poi una delle persone che ama morirà. Questa è una delle crudeli certezze della vita.

    Quindi, tenendo questo a mente, cerco di ignorarli, alzo il volume della musica e leggo. Non alzo gli occhi finché non abbiamo percorso i venti chilometri fino a scuola.

    Questa settimana sto rileggendo A Beautiful Mind, la biografia del matematico John Nash, ne hanno anche tratto un film, nel quale secondo me c’era veramente troppo poca matematica, ma che per il resto non era male. Il libro è fantastico, mi piace il modo in cui Nash interpretava il comportamento di noi esseri umani, con un approccio molto razionale, matematico, per così dire. Qui stava il suo genio, anche se poi è impazzito e ha cominciato a vedere persone immaginarie: aveva intuito una connessione fra i numeri e il mondo sensibile, fra le nostre azioni e le invisibili equazioni che le governano.

    Prendiamo mia madre, per esempio, e la sua convinzione che mio fratello sarebbe ancora fra noi. Sta cercando di riorganizzare il nostro universo in modo che Ty non sparisca, si comporta come un pesce che si dibatte sulla sabbia quando viene buttato a riva: una reazione involontaria, un meccanismo di sopravvivenza, nella speranza, scuotendosi, di ritrovare la strada verso l’acqua. Ha senso, se considero questa prospettiva.

    Non che sia sano però, non che io sappia che cosa fare al riguardo.

    Non ho creduto neanche per un attimo che Ty fosse ancora in casa. Ty se ne è andato, e nell’attimo in cui la vita lo ha lasciato, in cui i neuroni nel suo cervello hanno smesso di accendersi, ha smesso di essere mio fratello. È diventato un complesso di cellule morte, e adesso, grazie ai miracoli dei moderni procedimenti di imbalsamazione, è sulla buona strada per diventare una bara piena di poltiglia verde.

    Improvvisamente penso: non lo rivedrò mai più.

    Questo pensiero riapre la voragine nel mio petto; mi capita ogni due-tre giorni, fin dal giorno del funerale. È come se mi si aprisse un’enorme cavità fra la terza e la quarta costola sul lato sinistro, uno spazio vuoto che rivela il sedile di vinile dell’autobus dietro le mie scapole. Fa male, e tutto il mio corpo si irrigidisce per il dolore, la mascella si blocca, i pugni mi si serrano e il fiato mi si gela nei polmoni. Quando mi succede mi sento come se stessi per morire, come se stessi morendo. Poi, all’improvviso come si è aperto, il vuoto si riempie di nuovo e riesco a respirare. Provo a deglutire, ma la mia bocca è completamente secca.

    Il vuoto è Ty, penso.

    Il vuoto è qualcosa come il lutto.

    A scuola non succede praticamente nulla. Mi aggiro per i corridoi col pilota automatico, persa nei miei pensieri su John Nash, i pesci spiaggiati e i ragionamenti sulla logistica di casa mia, dove le correnti d’aria potrebbero aver portato il profumo della colonia di mio fratello dal suo posto polveroso vicino al lavandino del bagno nel seminterrato attraverso la sala giochi, e poi su per le scale fino alla cucina, per arrivare a confondere completamente la mente di mia madre.

    Poi arriva la materia che, per me, era la più desiderata della giornata: la sesta ora, laboratorio di matematica avanzata. Mi piace chiamarla la Centrale Nerd: qui, in questo singolo luogo, si può trovare la più alta concentrazione delle persone più intelligenti della scuola. Casa dolce casa.

    In questa ora gli studenti possono studiare e fare i compiti di matematica, ma visto che siamo tutti dei secchioni, dopo dieci minuti abbiamo già finito. Il resto del tempo lo passiamo allora giocando a carte: poker, battaglia, ramino, qualsiasi cosa ci ispiri sul momento.

    La nostra insegnante, la brillante e matefantastica Miss Mahoney, sta in cattedra all’entrata dell’aula e fa finta di credere che stiamo facendo seriamente il nostro lavoro scolastico. Peraltro è una specie di pausa anche per lei, visto che i tagli al budget della scuola hanno soppresso l’ora che aveva a disposizione per preparare le lezioni.

    Ha la mania dei video dei gatti su YouTube, tutti abbiamo le nostre debolezze.

    Quindi eccoci qua, a giocare una stimolante mano di poker a cinque carte. Sto stravincendo. Ho tre assi, il che è di per sé un affascinante problema matematico: la probabilità di ottenere tre assi in una mano è di 94/54.145, oppure (se volessimo fare una scommessa) di 575 a 1, cioè davvero assurdamente improbabile, se ci si pensa.

    Accanto a me c’è Jill, che si arrotola su un dito una ciocca dei suoi capelli rosso brillante. Penso che voglia far credere che questo arrotolarsi i capelli sia una specie di segnale che ha delle carte fantastiche, ma probabilmente significa proprio il contrario. Seduta alla mia destra c’è Eleanor, che ha una mano orrenda, lo so perché apre bocca e per dire proprio «Ho una mano orrenda» e lasciare. El è fatta così, dice quello che pensa, senza filtri.

    Il che ci porta a Steven, seduto di fronte a me con una mano molto buona. Come lo so? Sta cercando di rimanere impassibile, ma in questa maniera appare sempre innaturale. È una delle cose che mi piacevano di Steven, la sua incapacità di nascondere le emozioni. Se vuoi sapere che cosa gli passa per la testa puoi sempre affidarti a quei suoi grandi occhi scuri, che in questo momento sono sicuramente felici delle carte che ha in mano.

    Dunque sì, ha una bella mano, ma tanto da battere tre assi? Probabilmente no.

    «Vedo, e rilancio di cinquanta Smarties» conto le caramelle e le spingo al centro del tavolo.

    I giocatori trattengono il fiato all’unisono: sono un sacco di caramelle.

    Steve mi guarda dubbioso.

    «Allora?» dico sfidandolo, e penso, Solo perché abbiamo rotto non significa che devo trattarti con i guanti. Solo perché è successo qualcosa di brutto non significa che devi trattarmi con i guanti.

    Prima che lui possa rispondere, però, Miss Mahoney mi chiama.

    «Alexis, posso parlarti un attimo?»

    Ha chiesto proprio di me. La cosa non promette bene.

    Metto le carte coperte sul tavolo e vado controvoglia alla cattedra. Lei si sta mordendo il labbro inferiore, un altro pessimo segno.

    «Che cosa succede?» cinguetto.

    «Volevo parlarti di questo.»

    Spinge un pezzo di carta verso di me attraverso la cattedra.

    Il compito in classe di metà semestre della scorsa settimana. Che vale il 25% della mia votazione finale. Sul quale, accanto al mio nome, è scarabocchiato in rosso un grosso 71%.

    Mi aggiusto gli occhiali sul naso e ed esamino l’innocuo pezzo di carta, inorridita. A quanto pare ho completamente sbagliato le risposte a tre dei problemi, e quella a un quarto problema è stata considerata solo parzialmente corretta. Quattro problemi sbagliati su dieci.

    71 per cento. In pratica appena sufficiente.

    Deglutisco. Non so che cosa dire.

    «È roba che so benissimo», dico con voce rauca dopo qualche straziante secondo, riguardando il compito ancora una volta, riconoscendo i miei errori stupidi così chiaramente che mi sembra una specie di scherzo crudele.

    Addio ai miei pieni voti, penso. Boom.

    «Mi spiace», dice a bassa voce Miss Mahoney, come se tutti gli occupanti della classe non stessero già sforzandosi di sentire questa conversazione. «Posso fartelo rifare venerdì, se pensi che possa essere utile.»

    Ci metto alcuni secondi per capire che cos’è che le dispiace, perché mi sta offrendo una seconda possibilità quando non dà mai seconde possibilità. Il voto è un fatto, dice sempre. Bisogna imparare ad accettare i fatti.

    Raddrizzo la schiena.

    «No. Lo accetto.» Afferro l’angolo del foglio e lo tiro verso di me, lo prendo, lo piego a metà per nascondere il voto. «Andrà meglio all’esame finale.»

    Lei annuisce. «Mi dispiace davvero, Lex» dice di nuovo.

    Il mento mi si solleva. «Per che cosa?» le chiedo, come se non lo sapessi. «Non è stata lei a cannare il compito, sono stata io.»

    «So che è stata dura, da quando Tyler...»

    Fa una pausa.

    Dio, odio quella pausa, quando la persona con cui stai parlando cerca il modo più attenuato per dire morto, come se usare altre parole potesse rendere il fatto meno tremendo e definitivo: espressioni tipo riposa in pace, come se la morte fosse una specie di sonnellino, passato a miglior vita o dipartito, come se fosse una vacanza, spirato, che dovrebbe essere più tecnico ma in realtà suona come se il deceduto fosse un cartone del latte, con una data stampata sopra, dopodiché diventa, diciamolo, latte scaduto.

    «Si è suicidato» finisco al posto di Miss Mahoney.

    Sono decisa almeno a essere chiara su questo punto. Mio fratello si è ucciso, nel nostro garage, con un fucile da caccia. Sembra il più morboso gioco di Cluedo di tutti i tempi, ma è la verità.

    Il fatto.

    Dobbiamo imparare ad accettare i fatti.

    «Sto bene» le dico. E poi ripeto: «Andrà meglio all’esame finale».

    Lei alza lo sguardo su di me, gli occhi pieni di quella terribile pietà.

    «C’è altro?» chiedo.

    «No, è... è tutto, Alexis» mi dice. «Grazie».

    Torno al tavolo da poker. Sento gli sguardi degli altri su di me: i miei amici, i miei compagni, la maggior parte di loro li conosco fin dalla prima media, insieme a loro negli ultimi quattro anni ho partecipato al Club della Matematica, alle Olimpiadi della Scienza o della Fisica. Tutti adesso stanno pensando che devo essere una persona molto fredda e asettica per parlare in questo modo, come se non mi importasse, come dire che chiaramente non volevo bene a mio fratello, se posso ripetere così facilmente, a macchinetta, il fatto che è morto.

    Mi siedo, faccio scivolare il compito oltraggioso nel mio zaino, e cerco di guardare in faccia i miei amici, cosa che si sta rivelando praticamente impossibile.

    Jill ha gli occhi lucidi di lacrime. Non posso guardarla, so che altrimenti comincerà a singhiozzare senza ritegno, dando il via ai pianti di tutte le ragazze della classe, fatta forse eccezione per El. Perché il pianto isterico nelle femmine è veramente contagioso, a differenza del suicidio.

    Potrei andarmene, penso. Potrei semplicemente uscire, percorrere il corridoio, varcare il portone della scuola, camminare per venti chilometri fino a casa nella temperatura polare di questo rigido pomeriggio. Morire assiderata potrebbe essere preferibile a questo strazio, Miss Mahoney mi lascerebbe andare, non avrei problemi.

    Ma è proprio per il fatto che non avrei problemi che non voglio andarmene, non posso accettare un trattamento speciale, non per questo motivo.

    Quindi raccolgo le mie carte, tento un sorriso che fallisce miseramente, e dico con tutta la noncuranza possibile: «Allora, vediamo, dove eravamo rimasti?».

    Ah, sì. Tre assi.

    «Lex...» dice El. «Che voto hai...»

    Mi rivolgo a Steven: «Credo che tu stessi per vedere».

    Lui scuote la testa. «Lascio.» Stavolta sulla sua faccia c’è scritto che ha da dire più di quanto voglia dichiarare, molto di più, ma non sa se sia ancora compito suo cercare di consolarmi. Non sa come consolarmi, quindi, lascia.

    Lancio un’occhiata a El. Evita il mio sguardo, ma alza una spalla e si fissa le unghie con fare annoiato. «Avevo una mano orrenda, ricordi?»

    «Beaker?» sollecito.

    Jill annuisce, fa un respiro tremante e spinge al centro del tavolo quasi tutte le Smarties che le sono rimaste. «Io ci sto» dice.

    Non ha niente: solo una coppia di regine.

    Scopro le mie carte, gli assi in bella vista. Allora evviva, ho vinto tutte le caramelle, eppure mi sembra di aver perso qualcosa di molto più importante.

    . 3 .

    Succede quella sera, più tardi.

    È la classica serata post-Ty. Sono nella sala giochi del seminterrato, in pigiama, sdraiata nella poltrona reclinabile abbandonata da papà. La mamma è di sopra sul divano del soggiorno, con ancora addosso la divisa da infermiera, che legge Quando le disgrazie capitano ai buoni. Sottolinea ogni quattro-cinque righe, come fa con questo genere di libri che la gente continua a regalarci, come se ogni singola cosa detta dall’autore fosse destinata a lei in particolare. Comunque, almeno non sta piangendo, e non sta continuando a parlare di fantasmi, è operativa, diciamo così.

    Quindi l’ho lasciata alle sue letture e ho passato la maggior parte delle ultime ore sgranocchiando dei popcorn da microonde bruciacchiati e mandando avanti le pubblicità sul videoregistratore, mentre guardo Bones. Ho deciso di guardare le repliche della seconda stagione finché sarò troppo stanca per seguire la trama, e di conseguenza troppo stanca per rivangare continuamente nella mia testa il piccolo fiasco di oggi nell’ora di matematica. Praticamente la serata è stata occupata da una sequenza di cadaveri disgustosi.

    Sto cercando di immunizzarmi dalla vista della morte, di pensare a noi, a tutte le creature viventi sotto il sole, come a pezzi di carne. Latte avariato, poltiglia verde, qualsiasi cosa che, inevitabilmente, andrà in putrefazione. Non so perché, ma mi aiuta a vedere la morte come ineluttabile, inevitabile, certa, quindi meno angosciante.

    Sì, mi rendo conto di essere fuori di testa, ma si fa quel che

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