Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il barone di Palagonia
Il barone di Palagonia
Il barone di Palagonia
E-book1.110 pagine14 ore

Il barone di Palagonia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Non basta certo un libro per raccontare una vita; tre però possono tentare l’impossibile impresa e se si è davvero scrittori di talento, offrire al mondo un gigantesco e magnificente affresco e fare della sua lettura un’esperienza immersiva. Il barone di Palagonia è un’opera straordinaria al centro della quale sta il protagonista, Francesco, un bambino desideroso di studiare ma che diventa adulto lontano dai banchi di scuola, precocemente strappato alle cure materne per lavorare nel Feudo dei Palagonia e assistere al giovane baronello, Giovanni, cui lo legherà un’amicizia profondissima. I due crescono insieme, inseparabili, finché un giorno qualcosa si spezza. Scoppia la Grande Guerra, Francesco è chiamato al fronte. Sono anni bui, di morte e di coraggio, che riconsegnano alla nativa Sicilia un uomo fatto, forgiato dal dolore ma ancora pieno di passione. Inizia qui il riscatto di Francesco, la costruzione di una famiglia, l’ascesa sociale, il coronamento dell’ultimo – o forse il primo – vero amore. 
Francesco, uomo artefice del proprio destino, è incarnazione di una ricchezza d’animo che prescinde dal titolo nobiliare o dalle stellette militari, connubio tra l’aderenza alle tradizioni e la frattura, la trasgressione, uomo siciliano e insieme di mondo, legato al suo tempo ma proiettato al futuro, mai dimentico del passato ma desideroso sempre di guardare avanti, forte di una speranza e fiducia nella vita che nulla può spegnere.


Giuseppe Saglimbeni è nato ad Augusta (SR) il 2 luglio 1972, sposato con due figli. Dopo la maturità scientifica si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Catania, interrotta dopo un paio di anni per alcune esperienze missionarie. Dopo il servizio militare svolto nella base aerea di Aviano (PN), inizia a lavorare ad Augusta come responsabile qualità e addetto all’ufficio di un consorzio di imprese edili. Nel 2001 si trasferisce in Friuli, precisamente a Pordenone, dato che la futura moglie, conosciuta durante il servizio militare, vive lì. Inizia a lavorare come operaio, poi diventa impiegato tecnico e subito dopo responsabile di produzione. Per otto anni co-amministratore di un’azienda, è attualmente impiegato tecnico-commerciale in una vetreria.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ago 2023
ISBN9788830688964
Il barone di Palagonia

Correlato a Il barone di Palagonia

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il barone di Palagonia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il barone di Palagonia - Giuseppe Saglimbeni

    Nuove Voci

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Lo stemma dei Baroni di Palagonia - disegno di Elisabetta Saglimbeni

    Parte Prima Il Feudo

    Capitolo 1. Maggio 1906, ingresso al Feudo

    I. La morte di mastro Carmelo

    Erano trascorsi quindici giorni dalla morte di mastro Carmelo, morte improvvisa, subitanea, infarto aveva sentenziato il dottore. Concettina era ancora stordita, la sua mente si era fermata a quando un picciotto¹ che lavorava con suo marito, era corso a casa sua e le aveva detto che il principale aveva avuto un sintomo mentre stavano impastando cimento e quacina². E Concettina non poteva pensare che quel suo marito così forte, energico, che non si stancava mai, potesse in una votata d’uocchi³ lasciarla sola con una figlia di dodici anni e un masculo⁴ di nove. In tanti erano corsi a sapere, a vedere, e la casa si era riempita di gente che pareva una festa. Le femmine piangevano, pregavano, cucinavano e pulivano; i maschi chiacchieravano, fumavano, mangiavano; picciriddi⁵ grandi e piccoli correvano, giocavano, ridevano, piangevano, litigavano fino a quando qualche uomo dava una voce e tutti si azzittivano. Insomma, pareva che nella casa di mastro Carmelo ci fosse una festa grande dove tutti erano impegnati mentre lui se ne stava solo dentro un tabbuto⁶ con a lato quattro candele oramai consumate e spente. E dopo c’era stato il funerale, con tanta gente che vasava⁷ e abbracciava Concettina e i suoi figli che ancora non si facevano capaci di come il loro padre, così forte da caricarseli tutti e due sopra le spalle, non ci fosse più.

    Per una decina di giorni pareva che la festa con nonni, zii, cugini, compari, comari, amici non dovesse finire mai, anche se ogni giorno mancava qualcuno che c’era stato il giorno avanti. Dopo quindici giorni, Concettina se ne stava sola a piangere nella stanza da mangiare, pensando per quanto tempo doveva portare il lutto. A lei il nero non piaceva, anzi le dava come una sensazione di soffocamento. Pensava pure come fare a campare visto che tra funerale, ultima settimana di paga ai due picciotti del marito e altre spese, le erano rimasti manco la metà dei soldi che la buonanima di Carmelo le aveva lasciato. E per fortuna che i vestiti glieli aveva dati la cognata di una comare di sua cugina Mariuccia che siccome si era ingrassata, era sicuro che quei vestiti non poteva portarli per un altro lutto. Adesso era sola e doveva pensare ai suoi figli. E piangeva Concetta, mentre sentiva ancora le mani forti e callose del marito che se la stringeva, quando la vasava e quando le faceva capire che appena scurava⁸ voleva fare l’amore. Si meravigliava come dopo una lunga giornata di lavoro avesse la forza per prenderla; pareva sempre affamato, capace che se ne andava a ficcare⁹ con le buttane¹⁰. Ma poi rimosse questo pensiero cattivo chiedendo scusa all’anima del marito. Concettina pensava che forse era una fortuna che non fossero arrivati altri figli, che il dottore aveva ragione a dirle, dopo che ne aveva persi due di fila appresso a Ciccino, che non poteva averne più. Carmelo, al dottore non ci aveva creduto e continuava a ficcare come quando si erano sposati che era rimasta subito prena¹¹ di sua figlia Margherita. A Carmelo sarebbe piaciuto avere tanti figli, come suo padre e sua madre che ne avevano avuti undici. Invece, i suoi genitori ne avevano avuti solo quattro, segno che forse nella sua famiglia si figliava di meno. Intanto si asciugò le lacrime, si prese un bicchiere d’acqua ma neppure il tempo di finire di bere che riprese a piangere pensando al futuro che l’attendeva. Margherita poteva aiutarla a cucire, avrebbe imparato presto e magari, crescendo, poteva fare la criata¹², tanto era brava e abbissata¹³ questa sua figlia. Il problema era Ciccio. Era bravo assai a scuola e sarebbe stato un vero peccato non farlo continuare; ma come poteva permetterselo di mantenerlo a scuola? Doveva mandarlo a travagghiare¹⁴ ma che poteva fare lui a nove anni? Sicuramente qualcuno, per pietà, se lo sarebbe preso come manovale ma era siccu siccu¹⁵, delicato, come avrebbe potuto fare il mestiere di suo padre che era una vera forza della natura?

    A scuoterla dai suoi pensieri la voce di Margherita, che le diceva dell’arrivo di don Michele che voleva parlare con lei. Michele Benintende, che oramai da qualche anno quasi tutti appellavano con il don, perché era riuscito a crearsi una posizione di tutto rispetto, era un cugino di Concettina, figlio di sua zia Adelaide, la sorella più grande di sua madre. Zia Adelaide con la sua famiglia era emigrata in America quando Michele aveva quindici anni. Lui, che lavorava nel podere dei baroni Zappulla, non era voluto partire perché lì si trovava bene e stava imparando un mestiere. Da lì a poco sarebbe passato nel Feudo dei Palagonia dove con impegno, fatica e tenacia era diventato campiere¹⁶. Alla morte del vecchio barone, non solo era rimasto campiere, ma era diventato anche uno degli uomini di fiducia del figlio Saverio che, tornato dal continente, aveva preso le redini del Feudo gestendolo con mentalità imprenditoriale del tutto nuova in quella zona. Da questa sua posizione si era guadagnato la stima di mezzo paese che aveva preso a chiamarlo don Michele. E in cambio di questa riverenza, cercava di elargire favori, rimanendo creditore di tanta gente.

    La visita del cugino fece destare Concettina dallo sconforto in cui i pensieri l’avevano portata. Si asciugò le lacrime, si sistemò i capelli, diede una passata con le mani ai vestiti e si presentò al cugino cercando di capire cosa volesse da lei e pensando a come anche lui fosse stato sfortunato, dato che la moglie era morta di parto e il figlio che era riuscito a nascere era morto dopo tre giorni. Don Michele non si era voluto risposare; secondo le male lingue faceva la bella vita con le buttanazze ma Concettina a quelle voci non aveva mai voluto credere.

    «Buongiorno Michele, che fu, che successe?» si erano visti il giorno del funerale e le sue visite a casa di mastro Carmelo erano state sempre scarse.

    «È da un paio di giorni che ti penso, cugina. Sono venuto a parlarti di una cosa: hai tempo per me?» ma si capiva dal tono della voce che il tempo dalla cugina lo pretendeva.

    «Vieni nella camera di mangiare che stiamo più comodi, così ti posso offrire un caffè o un goccio di rosolio buono che mi portarono per il consolo¹⁷».

    «No Concettina, non voglio niente, assittamuni e parramu¹⁸». Così Michele si sedette per primo e appresso a lui, la cugina.

    «La faccio corta» iniziò Michele. «Il barone di Palagonia sta continuando a potenziare le sue attività nel Feudo ed ha comprato tante pecore, vacche e maiali» disse facendole segno di passarle un bicchiere, così che si poteva prendere un po› d’acqua dal bummulo¹⁹ che c’era sopra la tavola. «Negli ultimi sei mesi, tanti picciotti ranni²⁰ e nichi²¹ sono venuti a travagghiare nel Feudo». Si bevve un sorso d’acqua. «È quella del tuo pozzo?».

    «Sì, l’aveva scavato Carmelo, qui l’acqua non manca mai ed è sempre frisca e bona²²».

    «Doveva venire a fare dei lavori nel Feudo, come minimo tre mesi di travagghiu²³». Si fermò bevendo un altro sorso d’acqua. «E se il lavoro fosse stato buono, come io penso, il barone l’avrebbe chiamato sempre, ogni volta che ci sarebbero stati lavori di muratura da fare». Concettina si rabbuiò, una lacrima le scese, don Michele noncurante proseguì: «Come ti stavo dicendo, ancora c’è posto per qualche altro picciotto, e io ho pensato a te cara cugina». Si fermò, fece una pausa come a sistemarsi i pensieri e riprese: «Adesso che sei vedova, come fai a campare? Ho pensato a tuo figlio Ciccio che potrebbe venire a travagghiare al Feudo. La paga per uno che è picciriddu è buona, specie se ha il mangiare assicurato tre volte al giorno. Crescendo, se è bravo, può avere qualche responsabilità e la paga aumenta».

    «Che dovrebbe fare?» lo interruppe Concettina.

    «Stare appresso alle pecore insieme a qualche altro picciriddu come lui e ad un picciotto più grande».

    «Ma tu ce lo vedi Ciccino in mezzo agli animali, tutto il giorno all’aperto, così delicato com’è? Suo padre diceva che dovesse studiare e manco con lui se lo portava d’estate quando era libero dalla scuola. Non gli faceva fare niente! La maestra gli aveva detto che era bravissimo, il più bravo della classe, che poteva fare le scuole iaute²⁴. Lui voleva che suo figlio diventasse dottore, avvocato, oppure ingegnere». Concettina si interruppe singhiozzando dalla commozione. Si prese anche lei un bicchiere d’acqua. «Pensa che si faceva controllare i conti dal picciriddu e che si faceva scrivere da lui le lettere di pagamento». Si fermò assorta dai pensieri. «Mi sembra di farci un torto al povero marito mio mandando Francesco a travagghiare cu l’animali» e scoppiò a piangere. Nella camera accanto, Francesco e Margherita spiavano quello che i due adulti si dicevano. «Non lo faccio il pecoraio io, non vado a lavorare con gli animali» disse Francesco mentre la sorella con il dito indice sul naso gli faceva segno di non parlare.

    «Cugina, te ne devi fare una ragione. I quattro soldi che Carmelo ti ha lasciato finiscono presto e non puoi vivere dell’elemosina dei to frati²⁵ e di quelli di Carmelo, né puoi campare buona e darci un futuro ai tuoi figli cucendo ogni tanto qualche vestito. Purtroppo, è capitata sta disgrazia e la tua vita non sarà più quella di prima. Se Ciccio è sperto²⁶, come dici tu, allora stai tranquilla che si farà strada nel Feudo e comunque, alla prima occasione, te lo prometto sull’anima dei nostri morti» e si mise la mano sul petto con fare solenne, «gli trovo un posto migliore». Concetta Vaiasicca si mise a piangere consapevole del destino amaro che l’attendeva e del fatto che Francesco per forza doveva andarsene a lavorare, fosse anche per lui stesso e il suo avvenire. Era convinta che il cugino avesse veramente intenzione di sistemarlo bene, glielo aveva giurato sull’anima di sua moglie e lei sapeva quanto le voleva bene e quanto disperato fosse stato quando lei morì. Sentì uno strazio nel pensare che sarebbe rimasta senza masculi in casa: dapprima l’amato marito morto d’infarto, poi il figlio, un pezzo del suo cuore, costretto ad andarsene a travagghiare lontano, ancora così nicu, ancora bisognoso di sua madre, specialmente adesso che suo padre non c’era più. Don Michele lasciò che la cugina piangesse e si sfogasse. Portarle via il figlio sarebbe stato un duro colpo. Sapeva che prima o poi doveva succedere e allora meglio che a farlo fosse stato lui che poteva vigilare sul bambino. E poi aveva bisogno di picciotti che gli erano fedeli e che crescendo diventavano suoi uomini fidati. Nel Feudo i campieri erano tre; don Michele sapeva benissimo che bastava un niente per far girare la fortuna ed allora meglio sapersela tenere buona, fare in modo che il barone lo avesse sempre in grande considerazione. Ciccio faceva proprio al caso suo perché il debito di riconoscenza che avrebbe avuto nei suoi confronti sarebbe stato grande, come quello della cugina, che a tempo debito si sarebbe sdebitata come avrebbe voluto lui.

    Don Michele al pensiero fece un sorrisetto, si lisciò i baffi, poi con fare serio strinse le mani della cugina che continuava a piangere. «Concettina, me lo prepari un caffè che mi è venuto pititto²⁷?». «Sì Miche’, te lo faccio subito». Si alzò e ancora in lacrime iniziò a trafficare con la macchinetta.

    La tenuta dei Baroni di Palagonia era chiamata da tutti il Feudo, sia perché era grande come un feudo, sia perché si dice fosse un possedimento dei Palagonia fin dal 1200, anche se i primi documenti che ne attestavano la proprietà risalivano al 1600. Con il tempo i vari baroni succedutisi l’avevano ingrandito acquistando terre da altri nobili in difficoltà, oppure modificando nottetempo confini che poi spuntavano dal nulla in documenti che ne attestavano la proprietà. Così dal mare lungo la foce del San Leonardo, le terre si estendevano nella piana di Catania, abbeverate per un lungo tratto dal Simeto e poi continuavano verso le colline circostanti, nei territori di Francofone, Palagonia e Mineo. Il vecchio barone aveva consolidato tutti i possedimenti facendo registrare certificati di proprietà veri o presunti tali, presso il regio catasto subito dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d’Italia, cosicché nessuno potesse vantarne alcun diritto. Oltre al Feudo, i baroni possedevano una grande casa nobiliare in centro a Catania e una villa al mare di Acitrezza con tanto di porticciolo in cui potevano attraccare piccole imbarcazioni. A dire il vero la villa al mare apparteneva esclusivamente al baronello Giovanni Maria come lascito avuto dal nonno materno e visto la sua giovane età, veniva amministrata dal padre che la considerava un tutt’uno con il resto delle proprietà. Il barone Saverio, che per anni era vissuto in continente e all’estero, alla morte del padre era tornato in Sicilia ed aveva deciso di far fruttare le sue terre che fino ad allora erano rimaste per la maggior parte incolte. Nel giro di una decina d’anni, grazie anche alla liquidità della dote della moglie, investendo nelle sue terre, era diventato un importante imprenditore agricolo capace di vendere i propri prodotti nel resto d’Italia e all’estero.

    Don Michele si gustò il caffè un sorso alla volta, non perché fosse particolarmente buono ma per pensare a come dire alla cugina che lui partiva nel pomeriggio per il Feudo e che pertanto Francesco lo doveva portare subito con lui. Poi doveva discutere della paga e dirle che comunque una parte di essa spettava a lui stesso così come per tutti quelli che faceva assumere al Feudo. Fu la stessa donna a fargli capitare i discorsi a proposito.

    «Allora Michele, appena Francesco finisce la scuola te lo vieni a prendere così magari lo puoi provare per l’estate e se non va bene per quel lavoro lo riporti qua a settembre».

    «Nonsi²⁸ cugina, Francesco me lo porto subito, ora c’è bisogno, non fra un mese. Io nel pomeriggio passo con il carretto e me lo fai trovare pronto con le sue cose».

    «No, no, no ora no. U figghiu²⁹ mio, ora no». Concettina si mise a piangere disperata. Protestò che era troppo presto e che così, avrebbe perso l’anno scolastico, e poi lo doveva preparare bene al distacco, era ancora troppo scosso dalla morte del padre. Don Michele si alzò di scatto dalla sedia e con fare duro guardò fisso negli occhi la cugina: «Concetta, io sono venuto qua per darti una mano per riguardo tuo e della buonanima di tuo marito che stimavo come uomo e come mastro muratore». Fece una pausa, poi, prima che la cugina potesse parlare, riprese: «Ho la fila di gente che vogliono che mi porti i loro figli a travagghiare al Feudo. Ho voluto dare la precedenza a te cugina, ma evidentemente ho fatto male. Tra qualche mese a chi chiedi aiuto? Ai tuoi frati che fanno la fame in mezzo al mare o ai tuoi cognati che sono ancora più scarsi di loro? Oppure ti sposi per procura e te ne vai in America? Sempre che trovi qualcuno che si accolli una vedova con due figli!». Concettina riprese a piangere, dallo sconforto, le cedettero le gambe e si dovette sedere. Don Michele riprese: «Io ora me lo posso prendere, perché ora c’è bisogno; quando ti decidi tu o quando ne hai bisogno, forse non ci posso fare più niente e non mi va proprio di farti l’elemosina a te che ti ho sempre tenuta in considerazione, visto che eri attaccata alla buonanima di mia mugghieri³⁰». Dicendo questo si fece il segno della croce baciandosi le dita chiuse a cacuocciola³¹ della mano destra. Concetta si sentì disperata. Sapeva di non poter fare niente, che doveva rassegnarsi all’idea di dare suo figlio al cugino per il bene del figlio stesso.

    «Ogni quanto me lo fai vedere?».

    «Mica è carcerato, tuo figlio? Quando posso e il lavoro lo consente scendo qua e te lo porto così può stare con te due o tre giorni. E poi quando le pecore stanno dentro le stalle, se non c’è niente da fare te lo lascio qui anche più giorni, pagandolo come se stesse travagghiannu».

    «Aggiuralo³²» e piangeva che manco per la morte del marito Carmelo. Don Michele se l’abbracciò forte. Sentiva di essere stato un po’ fituso³³ con lei ma ormai era andata così e forse era la cosa migliore per tutti.

    «Di tutti i picciotti e picciriddi mi prendo un quarto della paga, di Ciccio mi prenderò solo un quinto, il resto te lo farò avere ogni inizio mese quando io scendo e, se non posso venire, te lo faccio avere da qualche persona fidata».

    «Michele, fai quello che è giusto fare, però lascia a Francesco qualcosa di soldi che se li tiene lui».

    «Allora facciamo un quinto per me, un altro per Francesco e il resto te lo vengo a portare a te». Dicendo questo, strinse la mano a sua cugina come a suggellare un accordo. «Verso le due, oggi pomeriggio, vengo a prenderlo. Fammelo trovare pronto. Devo arrivare al Feudo prima di sera e la strada è lunga». Concetta continuava a piangere disperata e rassegnata. «Adesso il dolore è tanto cugina, vedrai che con il tempo capirai che hai fatto la cosa giusta. E poi capace che Francesco fra qualche anno ti darà grosse soddisfazioni». Disse questo riabbracciandosi la cugina, non facendosi scrupolo di stringerla oltremodo a sé, in modo da poterne sentirne le fattezze. Nella stanza accanto, Francesco piangeva abbracciato a sua sorella che lo accarezzava e lo baciava cercando di consolarlo. Non riusciva a capire perché la madre volesse mandarlo via a lavorare, proprio lui che il padre non l’aveva mai fatto lavorare perché doveva diventare uno importante. Si abbracciò ancora più stretto alla sorella, disperato. Voleva che suo padre fosse lì per dire a tutti che non doveva muoversi di casa, che doveva andare ancora a scuola. Perché era morto suo padre, perché?

    II. La strada

    Alle due spaccate, don Michele si presentò con il carretto che aveva stipato di sacchi, valigie e di tre alberelli di limoni adagiati sopra i sacchi con le radici coperte da pezze bagnate. Fermò il carretto davanti al cancelletto che mastro Carmelo aveva sistemato proprio una settimana prima che gli venisse l’infarto. I due cavalli nitrirono all’unisono, poi abbassarono la testa e iniziarono a brucare quel poco d’erba che c’era ai lati della strada. Don Michele aprì il cancelletto; davanti alla porta di casa l’aspettavano Concettina, che doveva aver pianto tutto il tempo e che adesso pareva una Maria sotto la croce, Margherita, che dall’espressione pareva più arraggiata³⁴ che dispiaciuta per la partenza del fratello, e Francesco, siccu siccu dentro una giacchetta di qualche misura più grande di quello che serviva. Pareva uno spaventapasseri e don Michele si chiese se forse non avesse ragione la madre nel dire che non era adatto per travagghiare all’aperto con gli animali. Forse era stato troppo precipitoso, si era lasciato prendere la mano, avrebbe dovuto dare prima un’occhiata buona al picciriddu che era là con la faccia di uno pronto a salire sul patibolo. Don Michele si ricordò di Angilino, il figlio di Pietro e N’Sula Lisitano. Aveva undici anni e pareva scoppiasse di salute e in più aveva proprio tanta voglia di travagghiare con le pecore. Che stesse facendo una solenne minchiata? Per due giorni si era macerato dentro pensando a sua cugina Concettina e a come poteva aiutarla. La verità è che sua cugina gli faceva sangue e voleva trovare un modo perché, quando sarebbe stata l’ora, lei si sarebbe sdebitata con lui. Michele il cugino del cuore, Michele il salvatore. Maliritti fimmini³⁵ pensò nel mentre stampava un gran sorriso ai tre che l’aspettavano.

    La giornata era magnifica per tornare al Feudo; avevano perso anche poco tempo. Mamma, sorella e figlio si erano salutati prima perché, subito dopo che lui era entrato nel giardino, Francesco aveva preso le sue cose, un sacco di juta con un po’ di vestiti e una mappina³⁶ chiusa a canestro con dentro una vastedda³⁷ di pane, ed era salito sul carretto nel posto accanto al suo. Si sentiva sollevato, don Michele: aveva immaginato pianti strazianti di madre e figlio con lui che doveva prenderlo di forza per metterlo sopra al carretto. Invece tutto era andato che meglio non poteva. Concettina, prima che lui salisse sul carretto, si era raccomandata di vegliare sempre sul figlio e lui aveva risposto facendo un cenno con la testa e mettendosi la mano sul cuore. Contento, aveva dato una vociata ai cavalli ed erano partiti. Una è fatta pensò don Michele. Speriamo ora che il picciotto è buono per il travagghio ma più lo guardava e più si faceva persuaso che forse aveva veramente fatto una grandissima minchiata. Francesco non aveva detto una sola parola. In silenzio l’aveva accolto, in silenzio era salito sul carretto e in silenzio se ne stava adesso, ingobbito dentro la giacca che gli aveva passato suo cugino Mico, che però di anni ne aveva quindici. I causi³⁸ che erano curti³⁹, facevano vedere i ginocchi sporgenti a cui sopra aveva ancora poggiato il pane cunzato⁴⁰ che gli aveva preparato mamma Concetta e se lo teneva stretto come se glielo dovessero portare via. Intanto erano usciti dal paese. Don Michele gli disse che avrebbero raggiunto la tenuta di San Germano e da lì avrebbero tagliato per scorciatoie e trazzere⁴¹ per arrivare entro sera al Feudo. Alle parole di don Michele, Francesco non diceva niente, faceva solo cenno di assenso con la testa, ma intanto guardava la strada come se volesse memorizzare ogni passo che stavano facendo. Il campiere se ne accorse: Forse è sperto, come dice Concettina pensò, meglio per lui e meglio sarà per tutti!. Poco dopo raggiunsero il bivio per Catania e, invece di seguire le indicazioni, don Michele tirò dritto incitando i cavalli con un paio di vociate, visto che stavano facendo una piccola salita.

    «Mia madre mi ha detto che domani mattina va a parlare con la maestra e le dice che non posso andare a scuola e che siccome manca poco a finire ed ho tutti nove e dieci, se mi fa promosso lo stesso alla quinta elementare». Francesco di punto in bianco trovò parole da dire. Don Michele non fece in tempo a parlare che il bambino continuò: «Mio padre ogni volta che a scuola prendevo dieci mi dava un soldo che mettevo dentro il carusiddu⁴² che mi aveva portato una volta dalla Fera ‘o luni⁴³ di Catania». Fece una pausa, guardò intorno il paesaggio e la strada che avevano preso e poi continuò: «Ho il salvadanaio ancora troppo vacante. Con i soldi del travagghio che devo andare a fare, capace che lo riempio. Io non ci volevo venire con vossia, ma mia madre mi ha detto che ora sono io l’uomo di casa e devo abbadare⁴⁴ a lei e a Margherita. È venuto pure mio nonno Mico e mi ha detto che è una cosa giusta che vada a lavorare. Anche mio padre Carmelo ha iniziato alla mia età a caricare pietre al cantiere. Mio nonno invece ha iniziato a sette anni ad andare a pescare in mezzo al mare con la barca con suo padre e i suoi zii. Ma io voglio studiare, la scuola mi piace assai». Francesco iniziò a piangere, un pianto sommesso; con il naso tirava moccoli che poi asciugava con la manica della giacca. Don Michele gli mise una mano sulla testa come a consolarlo, poi prese a parlare: «Anche io ho iniziato a travagghiare alla tua età. Mio padre mi mandò dal barone Zappulla, buonanima. Poi quando avevo quindici anni mio padre e tutta la famiglia sono partiti per l’America e siccome io travagghiavo ed ero benvoluto dal barone, per sparagnare⁴⁵ i soldi del biglietto non mi hanno portato con loro. Sono più di venti anni che non li vedo. Giusto qualche anno fa mi hanno mandato una foto di tutta la famiglia. Ogni tanto per Natale o per Pasqua ci mandiamo qualche lettera. Una volta scrivevano tanto; ora, da quando me frati Alfio è diventato mezzo delinquente, solo gli auguri e basta chiù⁴⁶!"». Poi, guardando Francesco: «Sta cosa di ma frati non gliela devi cuntare⁴⁷ a nessuno, capito?».

    «Don Michele, io le cose che lei mi dice non gliele racconto a nessuno!».

    «Bravo a Ciccio! Allora ascutami⁴⁸, facciamo un patto. Se tu senti qualsiasi parola sopra di me, bona o tinta⁴⁹ che sia, tu me la vieni a riferire che io ti do tre soldi che tu ogni volta che torni a casa te li metti dentro il caruseddu. Intesi?» e gli diede la mano che Francesco strinse come aveva visto fare tante volte agli adulti. «Fra meno di mezz’ora entriamo nel Feudo; da lì un’altra orata⁵⁰ e arriviamo al castello. Scarichiamo un po’ di cose dal carretto e poi ti porto alla massaria⁵¹, che ci vuole ancora un’altra mezz’ora di strada. Dovremmo arrivare giusti che arrivano gli altri picciotti dal pascolo, così ti presento io a tutti». Intanto Francesco aveva preso a mangiare il pane cunzato senza perdersi manco una muddichedda⁵² che cadeva dentro la mappina.

    «Non hai mangiato a pranzo?» gli chiese don Michele.

    «Sì, sì, ma io ho sempre fame e a quest’ora a casa mangiavo sempre un po’ di pane cunzato aspettando che si mangiasse bene la sera, quando tornava a casa mio padre. Si lavava che era tutto lurdo di quacinazzo⁵³ e poi mangiavamo subito. Lui mi diceva che forse io ho un verme dentro la panza che si mangia tutto il mangiare mio. Ma quando me lo diceva rideva sempre e io non gli ho mai creduto seriamente. Mi manca assai mio padre e adesso pure mia madre e anche Margherita» e dando un altro morso al pane riprese a singhiozzare.

    «Ciccio, mi raccomando» disse con tono solenne don Michele, «adesso che stai con gli altri picciotti, non ti devi fare mai vedere che piangi. Capito? Mai!» e lo disse rimarcando forte la parola. «Ricordati queste mie parole, Ciccio: nessuno deve pensare che sei debole, mai ti devono vedere piangere. Se hai bisogno, ti apparti e prima che arrivi qualcuno ti asciughi gli occhi perché è anche peggio che ti vedono con gli occhi vagnati⁵⁴. Capito?». Francesco, tirando su il moccolo: «Sì don Michele, anche se piangere fa bene non mi devo fare vedere e sentire da nessuno».

    «Bravo Ciccio, ma tu parri⁵⁵ u siciliano?».

    «Sì don Michele, u parru e u capisciu⁵⁶!».

    «Allora con le persone adulte e quelle importanti parla sempre in italiano, con i viddani⁵⁷, i pecorari⁵⁸ e i tuoi compagni di travagghio parla come niautri parramu⁵⁹. Mi hai capito?». Don Michele voleva sempre essere sicuro che Francesco capiva, non poteva stare appresso a lui e non c’era altro tempo per rispiegargli le cose.

    «Sì, don Michele». Poi, finito di mangiare l’ultimo morso di pane, gli chiese: «Io che lavoro devo andare a fare dai baroni di Palagonia?».

    «La mattina presto dovete portare le pecore al pascolo. Le pecore devono stare tutte insieme e voi picciotti dovete fare in modo che nessuna scappi o si perda. Poi a mezzo pomeriggio tornate e le mettete dentro la stalla o dentro il recinto, in base al periodo. Quando è tempo di mungere date una mano a mungere quelle che hanno il latte; quando è tempo di tosatura date una mano a quelli che vengono a tosare le pecore. Facile, importante che fai tutto quello che ti dicono e che lo impari velocemente».

    «E lei che fa, don Michele?» gli chiese Francesco, a cui la vastedduzza di pani cunzatu pareva avergli dato vigore.

    «Io mi occupo di controllare che tutto venga fatto come si deve, tanto nelle masserie quanto nei poderi, assicurandomi che non ci siano ruberie e che nessun lavoro venga lasciato indietro, specie quello dei campi, dove spesso contadini e mezzadri pare che se la prendano comoda».

    «E come fa da solo a controllare tutte queste cose?».

    «Nel Feudo siamo in tre campieri e ognuno di noi ha uomini di fiducia che aiutano».

    «E come si fa a diventare campiere? Si studia in qualche scuola?». Don Michele sorrise.

    «Ma no, con la pratica e l’esperienza si può diventare campiere. Io ho iniziato piccolo come te. Ho fatto esperienza con il travagghio, ho rubato con gli occhi il lavoro a quelli che erano sopra di me e alla fine sono diventato quello che sono, con una mia posizione. Certe cose non si studiano sui libri, è la vita stessa che te le insegna, basta avere sempre voglia di imparare». Fece una pausa e sputò all’aria dicendo: «E tu Francesco, hai voglia di imparare?».

    «Sì, io voglio imparare tutto. Ma, se io e gli altri picciriddi dobbiamo badare alle pecore dalla mattina alla sera, come facciamo ad andare a scuola?». Don Michele perse quasi la pazienza: «E non ci andate. O si travagghia e si impara dalla vita, o si va a scuola e si impara dai libri».

    «Allora se io devo travagghiare, non posso più imparare dai libri?» fece come deluso Francesco.

    «Ho detto questo? Tu questa mattina presto, quando ti sei susuto⁶⁰ dal letto, sapevi che a quest’ora di sera dovevi essere qui con me?».

    «No» rispose secco Francesco.

    «Ed allora pensa ad oggi, che domani come veni si cunta⁶¹». Don Michele fermò i cavalli, scese dal carretto e iniziò a farsi una gran pisciata sul ciglio della strada.

    «Scinni, scinni⁶²» fece voce a Francesco, «fatti una pisciata anche tu». Francesco scese dal carretto facendo un salto. Si mise anche lui sul ciglio della strada, si abbassò i pantaloncini e si mise a pisciare dirigendo il gettito verso una lucertola che centrò in pieno. Rise Francesco e quello fu il primo sorriso di quella giornata!

    Ripresero il viaggio e fra i due calò il silenzio. Don Michele pensava alle cose che doveva fare al Feudo il giorno appresso, pensava al picciriddu che stava portando sperando che potesse adattarsi presto; sorrise tra sé immaginando le minne⁶³ di sua madre, che se le era sentite tutte addosso la mattina, quando se l’era abbracciata stretta assai; pensava di dover sistemare una volta per tutte a don Giovanni Sidoti il campiere che si voleva fare strada a danno degli altri due. Aveva sentito mezza chiacchiera ma tanto era bastato per metterlo sull’avviso. Decise che doveva metterci nel mezzo don Vincenzo Longhitano e pazienza se avesse fatto debito con lui, avrebbe sicuramente trovato in fretta il modo per toglierselo. E il pensiero gli ricadde su Concettina e al debito che avrebbe avuto con lui: si immaginò nel letto di Carmelo che lo riscuoteva! E dato che sentiva che aveva proprio bisogno di sfogarsi, decise che quella sera avrebbe preso Carmelina, la cameriera giovane della baronessa, e si sarebbe fatto una gran ficcata. Ci pensò Francesco a scuoterlo dai suoi pensieri.

    «Don Michele, ho contato cinque pietre con la scritta Feudo dei Baroni di Palagonia, manca tanto ad arrivare?». Il ragazzo era intelligente assai, pensò il campiere. Se avesse resistito alla vita del pecoraro, poteva farsi strada nel Feudo e diventare magari il suo braccio destro. E al pensiero che in quel modo il debito di Concettina sarebbe cresciuto, sorrise tra sé e sé. Poi, rivolgendosi a Francesco: «Tra due pietre miliari questa trazzera inizia a salire, passiamo un tratto di bosco e dopo un’altra pietra arriviamo al castello. Scarichiamo il carretto e poi ti porto alla masseria». Passato il bosco la strada si fece più larga, che ci potevano passare comodamente due carretti e, dopo una leggera discesa, entrò in una specie di vallata. Alla sinistra Francesco vide che era pieno di alberi di ulivo e don Michele gli disse che quella sarebbe stata un’annata buona assai, visto che erano pieni di zagara. Alla destra invece era tutto vitigni e Francesco vide che ci lavoravano tante persone. Qualcuna di essa al passaggio del carretto si scappellava verso don Michele che invece non salutava nessuno.

    «Don Michele abbiamo passato una pietra, manca poco vero?» gli chiese Francesco che non si perdeva niente di quello che stavano vedendo.

    «Sì, manca poco al castello» e, dicendo questo, don Michele spronò i cavalli: non vedeva proprio l’ora di arrivare. Francesco ogni volta che aveva sentito parlare don Michele del castello, se l’era immaginato alto assai, con grandi torri merlate così come l’aveva visto disegnato nel sussidiario della scuola. E se da un lato questi pensieri lo facevano intristire perché pensava alla signorina Corallo, la maestra della scuola, e ai suoi compagni di classe, dall’altro era curioso di vedere un castello che magari dentro aveva le armature medioevali come quella di Orlando, che aveva visto l’anno passato nell’opera dei Pupi.

    Il castello dei baroni di Palagonia non era come Francesco se lo immaginava ma sicuramente era una delle dimore nobiliari più grandi dell’isola. Mura di cinta circondavano questa dimora. Addossate a queste mura c’erano le stalle e tutta una serie di locali adibiti a depositi e magazzini. Nelle mura del lato nord che corrispondevano al dietro del castello, c’erano, invece, tutti i servizi della casa e una grande foresteria che ospitava tutti quelli che avevano a che fare con il Feudo ma che non erano nobili o ricchissimi borghesi, che invece erano alloggiati dentro il corpo principale. Da lontano Francesco vedeva queste mura e man mano che si avvicinavano, con il carretto tenuto a buona andatura da don Michele, capiva che non erano così alte e imponenti come se le era immaginate e non c’erano i torrioni merlati. Rimase, invece, assai colpito dal grande portone di ingresso, tutto in ferro battuto intarsiato con nell’arco superiore lo stemma dei Palagonia, un’aquila con le ali spiegate. A Francesco il portone gli parve maestoso perché, quando passarono, era aperto solo a metà e spazio oltre al carretto ce n’era tanto da permettere anche ad un altro di passare. Don Michele si fermò subito dopo l’entrata, fece voci e corsero un paio di picciotti pronti a svuotare il carretto. Il campiere diede istruzioni di non scaricare il sacco di Francesco e di lasciare sopra il carretto anche gli alberelli che doveva portare al podere di San Calogero. Francesco, che era sceso, si mise a guardare tutto ciò che lo circondava. Rimase a bocca aperta perché se pur il castello non era come se l’era immaginato, era pur sempre la più grande costruzione che avesse mai visto. Davanti a lui c’era uno spiazzo che sembrava una grande piazza, fatto di brecciolino bianco che a camminarci faceva rumore come se si stesse schiacciando qualcosa. Era morbido e duro allo stesso tempo. Quasi al centro dello spiazzo c’era una grande vasca con tanti spruzzi d’acqua come una fontana. Francesco si mise a correre, si avvicinò alla vasca rotonda e vide che dentro c’erano tanti pesci. Gli spruzzi erano veramente alti e goccioline d’acqua lo bagnarono rinfrescandolo. Superò la fontana e vide che oltre lo spiazzo c’era un prato con tanta erba fitta e tante aiuole di fiori colorati. E poi il palazzo, che era veramente grande. Da sotto due scale divergenti e convergenti come due V coricate portavano in una specie di terrazzo con al centro un grande portone che doveva essere l’ingresso del palazzo. Sopra al portone c’era un lungo balcone fiorito da cui si aprivano due porte e due finestre. Francesco contò tre file di finestre a destra del portone e tre file di finestre a sinistra. Poi si mise a contare tutte le finestre che erano quarantadue, tutte allineate sopra e sotto e poi c’erano il portone, le porte e le finestre sul balcone. Francesco era tentato di salire le scale ma pensò che dovesse chiedere il permesso a don Michele.

    «Ciao» si sentì salutare. Alzò gli occhi e vide sul terrazzo una bambina vestita con un lungo abito bianco tutto pieno di pizzi che lo salutava. Chi sei tu? stava per risponderle ma la voce arraggiata di don Michele lo fece correre verso il carretto. Don Michele lo rimproverò perché non doveva parlare con la baronessina e che, quando non veniva chiamato, doveva sempre rimanere con i suoi pari e non avvicinarsi al barone e alla sua famiglia. Lo prese di peso e lo caricò sul carretto. Salì pure lui e con una gran vociata spronò i cavalli lasciando il castello. Francesco iniziò a pensare a tutto quello che aveva visto: al castello, alla fontana, alla bambina che lo salutava. Pensava a tutta la strada che avevano fatto, alle pietre miliari che aveva contato. Pensò a suo padre e lo rivide freddo, con un fazzoletto che gli chiudeva la bocca mentre era dentro il tabbuto. Pensò a sua madre e a Margherita. Pensò che voleva tornare a casa, che non era un uomo e non poteva badare lui alla famiglia. Pensò al calamaio con la penna che gli aveva regalato il nonno; pensò al sussidiario e alle cose che doveva finire di studiare. Pensò ai compagni di classe e a quelli di gioco. Gli venne un gran desiderio di abbracciare sua madre anche se da lei si era sentito un po’ abbandonato. Ebbe paura, si sentì solo, malgrado accanto a lui don Michele friscava⁶⁴ allegramente. Iniziò a piangere ma si ricordò subito di quello che il campiere gli aveva detto. Trattenne un paio di singhiozzi, si asciugò gli occhi con la manica della giacchetta, così non si accorse che don Michele aveva fermato il carretto e che si trovavano davanti una grande casa, fatta metà di pietra e metà di legno, con tante piccole finestre e una sola porta per entrare. Un po’ più lontano c’era una casa più piccola tutta di pietra nera, con il tetto che usciva fuori sul davanti formando una specie di veranda. Francesco sentì non troppo lontano il belare di tante pecore. Respirò a fondo: era l’odore delle pecore che gli ricordò l’odore della capra di sua zia Mimmetta, che la teneva nell’orto che aveva dietro la sua casa; ma qui la puzza era tanto forte ed era tutta nell’aria anche se, pensò Francesco, non era così sgradevole come la puzza del pesce marcio che i pescatori buttavano sotto la marina. Don Michele gli disse di non muoversi dal carretto, ordinò ad un uomo sicco e longu⁶⁵ di scaricare gli alberelli di limone e si diresse verso la casa di pietra nera. Alcuni ragazzi erano comparsi all’improvviso, lo guardavano e lo scrutavano. Francesco si accorse che erano veramente sporchi. Una voce urlò che dovevano andarsi a lavare e così com’erano comparsi, sparirono dalla sua vista. Don Michele entrò nella casa di pietra nera e diede voce: «Gino, Gino!». Un uomo basso e tarchiato con delle mani tozze dalle dita grosse gli si fece incontro salutandolo calorosamente mentre don Michele gli batteva una mano sulla spalla destra. Gino era uomo di fiducia di don Michele. Era i suoi occhi e i suoi orecchi; vedeva e ascoltava tutto per suo conto. Don Michele si sedette e prese il bicchiere che Gino gli aveva riempito con del vino che facevano al Feudo. Lo bevve tutto di un fiato, come se fosse assetato, come se non bevesse da gran tempo. Gino riempì di nuovo il bicchiere. Don Michele ne prese un’altra buona sorsata, poi gli chiese: «Novità?».

    «Il barone ha convocato al castello per domani mattina Giovanni Sidoti».

    «E io domani mattina al castello sono» ribadì don Michele. «Prima o poi questa situazione finirà. Tanti galli in un pollaio fanno confusione e finisce che le galline scappano o che viene un altro gallo e se le prende!» e si tracannò il vino rimasto leccandosi poi i baffi bagnati.

    «Vero don Michele, ragione ha» soggiunse Gino.

    «E qui come sta andando?»

    «Bene, don Michele. Le squadre di picciotti e picciriddi si sono affiatate e travagghiano senza perdere tanto tempo. Ho spostato il pascolo un po’ più sopra perché lì c’è ancora tanta erba alta». Don Michele iniziò a pensare, si versò un altro poco di vino e lo bevve stavolta sorseggiandolo; poi riprese a parlare con fare serio: «Ho portato un picciriddu nuovo, si chiama Francesco. È il figlio di una mia cugina vedova.

    Lo dovete trattare come fosse mio figlio ma» fece una pausa, «nel lavoro niente favoritismi, si deve fare le ossa e deve imparare tutto». Disse questo nella speranza che Francesco potesse resistere alla vita del pecoraio. «Ha perso da poco il padre e oggi si è staccato da sua madre. Dagli sempre un occhio!». E scandendo le parole ripeté: «Tienilo buono come fosse figlio mio». Gino abbassò la testa in segno di obbedienza e rispose: «Sarà fatto come vuole vossia⁶⁶». Don Michele si alzò e uscì seguito da Gino, prese il sacco di Francesco e con lui al fianco entrò nel dormitorio dei ragazzi. Ci fu un silenzio quasi istantaneo, poi all’unisono si sentì: «Buonasera don Michele». Il campiere salutò con un cenno di capo, poi disse: «Picciotti, lui è Francesco» e pareva Pilato che esclamava: Ecce Homo. «È venuto a travagghiare con voi». Fece una pausa lunga dove guardò negli occhi tutti uno ad uno, picciotti e picciriddi, ranni e nichi, poi scandendo bene le parole continuò: «Lui è cosa mia». All’unisono tutti risposero: «Sì, don Michele». Il campiere fece segno a Gino, salutò tutti, uscì dal dormitorio, salì sul carretto, diede voce ai cavalli e si diresse verso il castello. L’indomani sarebbe stata una giornata impegnativa ma quella sera se la voleva scialare con Carmelina, la nuova cameriera giovane della baronessa, che prima aveva visto mentre gli scaricavano il carretto. Immaginò le sue minne sode, le sue cosce piene e la delizia che aveva nel mezzo. Incitò i cavalli ad andare più veloce, non vedeva l’ora di arrivare al castello, lavarsi, mangiarsi qualche cosa di sostanzioso e infilarsi nel letto della cameriera.

    Gino fece vedere a Francesco il suo letto. Era in basso, vicino ad una finestra. Nel letto di sopra non dormiva nessuno. Gli spiegò che la mattina prima di uscire lo doveva rifare; gli spiegò gli orari di quando andavano al lavoro, quando mangiavano, quando si dovevano lavare, quando avevano tempo per farsi le cose loro e quando si dovevano andare a coricare. Gli diede un baule dove avrebbe tenuto d’ora in avanti tutte le sue cose. Nel farglielo vedere gli mise in mano un catenaccio con la chiave e gli disse: «La chiave la devi sempre portare con te o la devi nascondere in un posto che sai solo tu. Se te la fai fregare peggio per te; se la perdi, dobbiamo rompere il catenaccio che costa come tre settimane di paga». Francesco sembrò impaurito dalle parole di Gino. Questi, ricordandosi ciò che gli aveva raccomandato don Michele, assicurandosi che nessuno lo stesse guardando, mise una mano nella spalla del ragazzino, si avvicinò all’orecchio e con voce bassissima gli disse: «Per qualsiasi cosa puoi venire a parlare con me. Don Michele mi ha detto che devo trattarti come un figlio suo e la sua parola per me è legge». Detto questo uscì dallo stanzone. Francesco adesso era veramente solo, non sapeva cosa fare, ed ebbe paura. Con le mani tremanti aprì il baule e gli mise il sacco con le cose che gli aveva dato sua madre, lo chiuse, gli mise il lucchetto assicurandosi che non fosse aperto e si conservò la chiave in una tasca dei pantaloncini. Si sentiva stanco e si sedette sul letto, mentre gli altri ragazzi parlavano, scherzavano, ridevano e nessuno gli rivolse la parola. Pensava a casa sua, al suo letto, a sua madre che gli dava la buonanotte e a Margherita con cui giocava sempre prima di andarsene a dormire. Voleva piangere, sentiva le lacrime prossime ad uscire. Pensò a quello che gli era stato detto e si trattenne. Poi chiuse gli occhi e pensò a suo padre e chiese a Dio di diventare forte come lui. Il parrino⁶⁷ durante il funerale aveva detto che l’anima di Carmelo adesso vegliava su tutta la sua famiglia. Questo lo confortò: era sicuro che fosse così, padre Fazio minchiate non ne contava. A scuoterlo da questi pensieri arrivò il suono di una campanella e il grido di alcuni ragazzi: A mangiare, a mangiare. A sentire queste parole gli si aprì lo stomaco e gli parve che non mangiava da tanto tempo; così si alzò dal letto e si affrettò a seguire gli altri picciotti che andavano a cenare.

    1 Ragazzo

    2 Cemento e calce

    3 Battito di palpebra

    4 Maschio

    5 Bambini

    6 Bara

    7 Baciava (vasare, baciare)

    8 Diventava buio

    9 Ficcare, fare sesso

    10 Prostitute

    11 Incinta

    12 Cameriera

    13 Diligente

    14 Travagghiare, lavorare

    15 Molto magro

    16 Sorvegliante dei lavori agricoli

    17 Usanza di portare cibo ai parenti di un defunto

    18 Sediamoci e parliamo (assittare, anche rifl., sedere)

    19 Contenitore di terracotta per l’acqua fresca

    20 Grandi

    21 Piccoli

    22 Fresca e buona

    23 Lavoro

    24 Alte

    25 Tuoi fratelli

    26 Intelligente

    27 Appetito, in questo caso voglia

    28 No, in forma rafforzativa

    29 Figlio

    30 Moglie

    31 Carciofo

    32 Giuralo

    33 Sporco, in questo caso in senso morale

    34 Arrabbiata

    35 Maledette femmine

    36 Canovaccio

    37 Forma di pane

    38 Pantaloni

    39 Corti

    40 Condito

    41 Stradine sterrate

    42 Salvadanaio

    43 Fiera di Piazza Carlo Alberto

    44 Badare

    45 Sparagnare, risparmiare

    46 Più

    47 Cuntare, raccontare

    48 Ascoltami

    49 Cattiva

    50 Ora

    51 Masseria

    52 Mollichina

    53 Sporco di calce

    54 Bagnati

    55 Parli

    56 Lo parlo e lo capisco

    57 Contadini

    58 Pecorai

    59 Noialtri parliamo

    60 Alzato (suggere, alzarsi)

    61 Come viene si racconta, modo di dire

    62 Scendi

    63 Seno

    64 Fischiava

    65 Secco e lungo

    66 Letteralmente vostra signoria, modo per rivolgersi a chi si deve rispetto

    67 Prete

    Capitolo 2. Luglio 1906, Ciccio e Nello

    I. Don Michele

    Don Michele era partito dal Castello che ancora era scuro e quando arrivò alla massaria c’era giusto un filo di luce, ancora poca rispetto a quella della luna che pareva, quel giorno, prendersela comoda dal voler riflettere luce all’altra parte del mondo. La gran mangiata della sera avanti con conseguente gran bevuta gli avevano fatto passare una mala nottata, tutta un girare e rigirare nel letto che aveva avuto due risultati: il primo è che aveva bagnato le lenzuola scapizzandoli⁶⁸ dal materasso; il secondo, che gli era venuto un gran nirbuso⁶⁹ che l’unica cosa buona da fare, pensò, era quella di farsi una gran galoppata fino alla masseria. E il nervoso era doppio perché la ficcata che si doveva fare con Carmelina, la cameriera ventina della baronessa, era fallita, datosi che il barone aveva avuto la sua stessa pensata. Poteva mettersi a fare questioni con il barone? Poteva dirgli che si era prenotato già dalla mattina avanti con la cameriera? Di conseguenza non gli era restato altro da fare che appanzarsi⁷⁰ e allitrarsi⁷¹. I picciotti ancora dormivano, malgrado il belare delle pecore fosse già forte. Gino sicuramente era già alzato che preparava il mangiare per la giornata. Pensò che alla prima festa dovesse portarlo a ficcare da qualche buttana. Laido com’era, difficilmente, malgrado avesse una buona posizione, avrebbe potuto attirare qualche serva dei baroni. Non poteva sempre andare avanti con le pecore! Era legge al Feudo che picciotti e picciriddi non si dovevano toccare. A chi si macchiava di tali empietà, buono che gli andava faceva la stessa fine di molti pecoroni che non più buoni per montare, venivano alleggeriti della pesantezza delle due campane che avevano tra le zampe producendo così una carne che arrustuta⁷² era una vera squisitezza; male che gli andava, invece, veniva scannato come un capretto a tempo di Pasqua. Di iarrusi⁷³, manco a parlarne. L’ultimo era stato pigliato a pietrate dai picciotti di una massaria e a stento era riuscito a scappare pur inseguito da due cani di mannara. Filippo, il fratello più piccolo di Gino, uscì dalla casa di pietra nera, lo salutò scappellandosi e senza dire niente gli prese il cavallo per legarlo ad una staccionata. Era stato sempre di poche parole, come se a parlare si spaventasse di perdere tutto il fiato. Don Michele entrò nella grande sala dove mangiavano i picciotti. Gino, che stava trafficando sopra un fuoco per preparare il mangiare, lo salutò: «I miei rispetti, don Michele. Che fu, successe qualche cosa?». Gino si meravigliò della visita così mattutina del campiere.

    «Stanotte ha fatto caldo assai al castello, non ho chiuso occhio. Mi sono voluto fare una bella corsa con il cavallo per prendermi un po’ d’aria fresca della mattina».

    «Ragione ha don Michele, troppo caldo sta facendo qui, pure la notte non c’è pace». Nel frattempo, tolse dal fuoco una quarara⁷⁴ di latte che serviva per la colazione dei picciotti. «Anche le pecore si sono lamentate tutta la notte. Per fortuna che fra un paio di giorni arrivano quelli che vengono a prendersi la lana, così ammaleddi⁷⁵ sono più libere e sentono meno caldo. Vuole favorire, don Miche’?» disse indicando il latte che aveva appena tirato dal fuoco.

    «Nonsi Gino».

    «Don Michele, ha saputo quello che gli capitò a don Giovanni Sidoti?». Don Michele lo guardò severo negli occhi: «Gino, io non so niente e anche tu non sai niente!». Gino abbassò subito gli occhi sentendosi ripreso. «Sì, sì, don Michele, io niente so! Voci ne girano ma io le orecchie attuppate⁷⁶ ho e la lingua cusuta⁷⁷». Don Michele assentì con la testa e soprattutto con gli occhi. «Due cose capitarono qui in questi giorni» proseguì Gino. «Avanti ieri una pecora morse; era vecchia e zuppiava⁷⁸ pure. L’ho fatta scannare e in due volte gliel’ho fatta arrustuta ai picciotti. Mi deve credere don Miche’, era dura assai ma niente hanno lasciato e a momenti pure le ossa si mangiavano!».

    «Hai fatto bene Gino, segna la perdita nel registro». Don Michele si aspettava che Gino continuasse ma invece questi era visibilmente imbarazzato. «E l’altra cosa, Gino? Mi dicesti che erano capitate due cose!» fece il campiere, che non amava che le discussioni si facessero lunghe senza mai arrivare al punto. «Ieri mattina, mentre stavamo uscendo con le pecore, vennero due picciotti di don Vincenzo, Peppe Fagone e Iano Pusateri». Don Michele pensò che tanto picciotti i due non erano, ma si sa che quando si lavora sotto un padrone e non si ha una posizione, sempre picciotti si rimane.

    «Mi dissero che a don Vincenzo gli spinnava n’agnidduzzu⁷⁹ appena nato, con le carni tenere tenere». Gino era un ammasso di sudore e ancora il sole doveva spuntare buono.

    «E che facesti tu?» lo incalzò don Michele.

    «Mi potevo mettere a discutere con due che si portano appresso la lupara? Gli dissi di prendersi quello che gli piaceva di più. E così fecero».

    «Bonu facisti⁸⁰, Gino. A tempo debito parlerò con don Vincenzo e vediamo se veramente aveva lo spinno⁸¹ della carne tenera d’agnello. Tu segna nel registro il motivo della perdita e segna pure nome e cognome dei due picciotti di don Vincenzo, con il barone poi me la vedo io». Gino si sentì sollevato e anche se don Michele l’avrebbe difeso, non voleva fare nei suoi confronti una minchiata e metterlo in difficoltà. Dopo aver sistemato le tazze nella grande tavola di mangiare, gli versò il latte che prima che arrivavano i picciotti si sarebbe un po’ raffreddato.

    «Che mi dici del picciriddu?».

    «Quale picciriddu?» fece come meravigliato Gino. Don Michele, nervoso di suo, diede un gran pugno sulla tavola facendo rovesciare il latte da alcune tazze più piene.

    «Come quale picciriddu, Gino! Di Francesco sto parlando, chi minni futti⁸² di l’autri picciriddi!».

    «Mi deve scusare don Michele, sono passate due mesate che è qua e ormai lo considero come tutti gli altri picciotti».

    «E male fai, Gino! Non è come tutti gli altri picciriddi o picciotti del Feudo. Che ti dissi?». Don Michele fece una pausa guardando Gino negli occhi. «Ti dissi che lo dovevi trattare come fosse mio figlio». Gino riprese a sudare copiosamente.

    «Mi deve scusare don Michele, mi sono spiegato male. Certo che il picciriddu lo considero come cosa vostra, ma volevo dire che oramai pare integrato bene con tutti gli altri che pare sia qua da noi da tanto più tempo». Si lisciò i baffi don Michele, forse ci aveva indovinato a portare Francesco al Feudo. Gino riprese a parlare: «All’inizio era mutanghero⁸³ assai. Se ne stava sempre solo e a vederlo pareva che dovesse piangere da un momento all’altro». Mentre parlava Gino continuava a fare il suo lavoro e mise accanto ad ogni tazza un pezzo di pane duro che poi i picciotti avrebbero inzuppato nel latte. «Però mi creda, don Michele, mai una volta che io o qualcun altro qua dentro l’abbiamo visto fare una lacrima. Poi dopo una mesata che era qua, ha iniziato a parlare con gli altri picciriddi e quando parla non ce la finisce più. A tutti racconta le cose di scuola. E i greci e i romani, Archimede, i castelli dei nobili e la geografia con tutti i paesi che ha studiato. Insomma, don Michele, sta sempre a cuntare cose e tutti, ranni e nichi, lo stanno ad ascoltare. E quando mangia! È siccu siccu ma mangia come due picciriddi della sua età. Gli do sempre razioni più grandi degli altri».

    «Bravo Gino, forse veramente u picciriddu avi u vermi tagghierinu⁸⁴!». I due si misero a ridere. «E come va nel lavoro?».

    «Fa tutto quello che gli dicono, è obbediente e non si tira indietro. Pensi che l’altro giorno si è voluto caricare sulle spalle n’agnidduzzu così come tutti gli alti. A momenti più grosso di lui era» e rise Gino, ma stavolta da solo, don Michele si fregava le mani, non vedeva l’ora di presentare il conto a sua cugina Concettina. Intanto Picciotti e picciriddi entrarono nello stanzone ed ognuno iniziò a prendere posto e a mangiare il pane duro inzuppato nel latte delle pecore che badavano. Filippo sovrintendeva che tutto si svolgesse con ordine senza che si azzuffassero. Portava sempre la zotta⁸⁵ appresso ma raramente ne faceva uso. Tutti lì lavoravano per necessità, qualcuno perché era l’unico modo per avere il mangiare assicurato mattina, mezzogiorno e sera. Tutti sapevano che se avessero sgarrato sarebbero stati cacciati dal Feudo. Ma picciotti e picciriddi erano, quindi qualcuno che metteva ordine ci voleva sempre. A don Michele, la cui mangiata e bevuta della sera avanti l’aveva ancora nello stomaco, a sentire l’odore del latte di pecora prima e poi quello dei picciotti che entravano nello stanzone, gli venne da rimettere. A malapena riuscì a trattenersi e si ripromise, non appena fosse solo, di mettersi due dita nei cannarozza⁸⁶ per vomitare. Tra gli ultimi entrò nello stanzone Francesco e mentre gli altri ragazzi salutarono sommessamente don Michele, lui gli andò incontro e lo salutò calorosamente, contento di rivederlo nella speranza che potesse portarlo al paese per stare con sua madre e Margherita ma non voleva espressamente chiederglielo. Aveva timore che don Michele lo considerasse debole, incapace di stare lì come gli altri picciriddi. Molti altri suoi compagni avevano nostalgia delle famiglie, specie quelli che avevano tanti fratelli e sorelle; molti però sapevano che a casa non solo non sempre avevano mangiare in abbondanza come lì al Feudo, ma spesso morivano proprio di fame. Don Michele fu assai contento dello slancio di Francesco. Si rese conto che lui era solo, che tutti i suoi parenti erano in America e che a parte un paio di cugini come Concettina, non aveva proprio nessuno. Francesco aveva in parte il suo stesso sangue. Pensò che forse si sarebbe dovuto risposare, che poteva avere qualche figlio che gli avrebbe fatto da bastone della vecchiaia.

    «Come stai?» chiese a Francesco mettendogli una mano sula testa.

    «Bene don Michele» poi avvicinandosi e parlando a bassa voce: «Ho fatto come mi ha detto: non ho pianto davanti a nessuno» e disse questo quasi mettendosi sull’attenti. Don Michele sorrise, gli diede un buffetto.

    «Mi devi chiamare zu Michele, non siamo estranei noi. Alla prima occasione ti porto con me al paese così andiamo a salutare tua madre».

    «Sì! Grazie zu Michele». Francesco non stava nella pelle. Era contento, gli occhi gli ridevano e, sedutosi, iniziò a mangiare pane e latte cantando e parlando a voce bassa che solo lui capiva quello che stava dicendo.

    Il nirbuso della mattinata gli passò a don Michele. Francesco gli aveva fatto proprio una bella impressione e tanto valevano le parole di Gino che aveva esperienza con i picciotti e non sarebbe stato capace di dirgli una cosa per un’altra. Ritornando al castello, anche stavolta al galoppo, sorrise pensando a Gino e a Filippo, così diversi tra di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1