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Tutti i romanzi e i racconti
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E-book3.678 pagine52 ore

Tutti i romanzi e i racconti

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Info su questo ebook

• Tutte le storie dell'orrore puro
• Tutte le storie oniriche e fantastiche
• Tutte le storie del Ciclo di Cthulhu
• Miscellanea e Saggi

A cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco
Edizioni integrali

Terrore insondabile e soprannaturale, inquietanti e apocalittiche visioni: tutto l’immaginario di follia e orrore di Howard P. Lovecraft è raccolto in queste pagine densissime. Interi universi prendono forma dalla sua sapiente penna, governati da leggi fisiche ignote, popolati da creature inimmaginabili e da terrificanti minacce. L’uomo è solo al centro di un cosmo nel quale il terrore proviene dagli abissi della mente come dai più remoti recessi dello spazio, un mondo nel quale la paura è la dimensione dell’essere. Tutto ciò sottintende la teoria lovecraftiana secondo cui smascherare e affrontare i propri incubi più angoscianti è l’unico modo per esorcizzarli. Incubi, sogni e miti creati da un maestro dell’orrore e del fantasy per turbare le notti dei lettori. In questo volume è presentata tutta la produzione del “solitario di Providence”, compresi capolavori famosi che ancora oggi ispirano scrittori e sceneggiatori, come Le montagne della follia, Lo strano caso di Charles Dexter Ward, L’orrore di Dunwich, La ricerca onirica dello Sconosciuto Kadath.


Howard P. Lovecraft

nacque il 20 agosto del 1890 a Providence nel Rhode Island. Vissuto in un ambiente familiare ben poco felice, dopo un’infanzia trascorsa in totale solitudine, fin da giovane dovette lottare con una serie di difficoltà economiche e si guadagnò da vivere con il mestiere ingrato e mal pagato di revisore dei testi narrativi di aspiranti scrittori. Grazie ai suoi romanzi e racconti, ispirati a una concezione del Cosmo particolare e singolarissima, è l’unico scrittore americano a poter rivaleggiare con Edgar Allan Poe. Divenuto, ancora vivente, una vera e propria “leggenda”, morì nella sua Providence, alla quale era legato in maniera viscerale, il 5 marzo del 1937. Moriva l’uomo, nasceva il mito.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854128927
Tutti i romanzi e i racconti
Autore

H. P. Lovecraft

Renowned as one of the great horror-writers of all time, H.P. Lovecraft was born in 1890 and lived most of his life in Providence, Rhode Island. Among his many classic horror stories, many of which were published in book form only after his death in 1937, are ‘At the Mountains of Madness and Other Novels of Terror’ (1964), ‘Dagon and Other Macabre Tales’ (1965), and ‘The Horror in the Museum and Other Revisions’ (1970).

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    Anteprima del libro

    Tutti i romanzi e i racconti - H. P. Lovecraft

    Indice

    Introduzione

    Le radici dell’orrore in H.P. Lovecraft

    Cronologia lovecraftiana

    Revisioni e collaborazioni di H.P. Lovecraft

    Origine dei testi

    Racconti «accettati» e «ripudiati»

    Lovecraft su Lovecraft. Tre brani autobiografici

    L’INCUBO - I. RACCONTI

    La tomba

    La transizione di Juan Romero

    Il Vecchio Terribile

    L’albero

    Il tempio

    Le vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia

    Da altrove

    L’immagine nella casa

    La palude della luna

    L’estraneo

    La musica di Erich Zann

    Herbert West, rianimatore

    La paura in agguato

    L’orrore di Martin’s Beach

    I ratti nei muri

    Alle quattro del mattino

    Il divoratore di spettri

    I cari estinti

    Cieco, sordo e muto

    Sotto le piramidi

    La casa evitata

    L’orrore a Red Hook

    Lui

    Nella cripta

    Aria fredda

    Due bottiglie nere

    Il modello di Pickman

    La strana casa nella nebbia

    L’ultimo esperimento di Clarendon

    Il boia elettrico

    La morte alata

    Sfida dall’infinito

    L’albero sulla collina

    L’orrore nel cimitero

    Finché tutti i mari...

    L’esumazione

    L’oceano della notte

    L’INCUBO - II. MISCELLANEA

    Collaborazioni

    Ceneri

    I servi di Satana

    Il Loto Nero

    Il Cervello Rosso

    Il terrore dei rampicanti

    Qualcosa dall’alto

    Il lupo mannaro di Ponkert

    L’orrore di Salem

    Il combattimento che concluse il secolo

    Storie umoristiche, grottesche e occasionali

    Un ricordo del Dottor Samuel Johnson

    Sacco di Pulci

    Ibid

    Dolce Ermengarde

    Frammenti incompiuti

    Azathoth

    Il successore

    Il libro

    La torre circolare

    La magione di Edward Orne

    Il sopravvissuto

    Universi in sfacelo

    Racconti giovanili

    La fiaschetta di vetro

    La caverna segreta

    Il mistero del cimitero

    La nave misteriosa

    La bestia nella caverna

    L’alchimista

    Racconti in versi

    Psychopompos

    Funghi da Yuggoth

    L’Avamposto

    L’Antico sentiero

    Ricordi

    Oceano

    Fantasmi

    Il lago dell’incubo

    La città

    Ognissanti in periferia

    A un sognatore

    Madreterra

    Le campane

    Il messaggero

    Disperazione

    Providence

    Microstorie

    Il Commonplace Book

    L’incubo. Nota bibliografica

    IL SOGNO

    Lovecraft e Dunsany

    Il mondo al di là del muro

    Polaris

    Il Prato Verde

    Oltre le mura del sonno

    Il ricordo

    La Nave Bianca

    Il fato che colpì Sarnath

    I gatti di Ulthar

    La Strada

    La poesia e gli Dei

    Celephaïs

    Nyarlathotep

    Il caos strisciante

    Ex oblivione

    La ricerca di Iranon

    Gli Altri Dei

    Hypnos

    Quel che porta la luna

    La creatura illuminata dalla luna

    La razza antichissima

    Il sacerdote malvagio

    La saga di Randolph Carter

    La deposizione di Randolph Carter

    L’innominabile

    La chiave d’argento

    La ricerca onirica dello Sconosciuto Kadath

    Attraverso i cancelli della chiave d’argento

    Sogni e fantasie

    Il mondo onirico di Lovecraft

    Sogni

    Magri Notturni

    La città dorata

    Due braccia sinistre

    Duecent’anni di attesa

    Il cavaliere inesistente

    L’orrore dal cielo

    Dall’abisso del tempo

    La «cosa» sul tetto

    Fratellanza oscura

    Bivio nel tempo

    L’insetto nel cervello

    La Città dei Gatti Neri

    Fantasie

    Vampirismo

    L’altra Providence

    La città dalle memorie pre-cosmiche

    Indietro nel tempo

    Mondi dispersi

    La creatura del Loch

    Orrore in biblioteca

    L’«Eidolon» senza nome

    Dal sogno al racconto

    La voce dell'abisso

    Il Figlio del Caos

    Incontro nella brughiera

    Il Popolo Oscuro

    Saggi

    Saggi sulla visione del mondo

    Alle radici

    Tempo e spazio

    Merlino Redivivo

    L'Americanismo

    Idealismo e materialismo: una riflessione

    Il materialista oggi

    Alcune cause di autoimmolazione. I motivi per cui gli esseri umani si sottomettono volontariamente a situazioni spiacevoli

    Tradizione e modernismo: il senso comune dell'arte

    Saggi sul fantastico

    Lord Dunsany e la sua opera

    Alcune osservazioni sulla narrativa interplanetaria

    Qualche passo nel mondo delle Fate

    Scrivere un racconto

    I racconti del soprannaturale: fasi e procedimenti di scrittura

    In memoria di Robert Erwin Howard

    Il sogno. Nota bibliografica

    IL MITO - I. LE STORIE DEL CICLO DI CTHULHU

    La leggenda del «Libro maledetto»

    Il Fantastico: istruzioni per l’uso

    Dagon

    La Città senza Nome

    Il cane

    La cerimonia

    Il richiamo di Cthulhu

    Il caso di Charles Dexter Ward

    Il colore venuto dallo spazio

    L’Orrore di Dunwich

    La maledizione di Yig

    Il tumulo

    Colui che sussurrava nelle tenebre

    L’ombra su Innsmouth

    Le Montagne della Follia

    Medusa

    I sogni nella casa stregata

    L’uomo di pietra

    La cosa sulla soglia

    L’orrore nel museo

    Dai millenni

    L’ombra venuta dal tempo

    Il diario di Alonzo Typer

    L’abitatore del buio

    IL MITO - II. MISCELLANEA E SAGGI

    Tra le mura di Eryx

    La trappola

    L’orrore soprannaturale nella letteratura

    Il mito. Nota bibliografica

    Cronologia generale della narrativa di H.P. Lovecraft

    Bibliografia italiana essenziale

    252

    Prima edizione ebook: gennaio 2011

    © 1993, 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2892-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Howard Phillips Lovecraft

    Tutti i romanzi e i racconti

    L'incubo - Il sogno - Il mito. Le storie del ciclo di Cthulhu, Miscellanea e Saggi

    A cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione

    I. Il libro occulto

    Raccontava tempo fa Fernanda Pivano sul Corriere della Sera (24 dicembre 1978) che negli anni della Rivolta di Berkeley, avvicinatasi ad un gruppo di hippies contestatori davanti al municipio di Denver, sentì che recitavano ad alta voce opere di Blake, Rimbaud e Lovecraft. Rifletté che ad attrarre i ragazzi, nella loro ansia per l’irrazionale, era forse «l’assoluta negazione del reale di questo scrittore»: Lovecraft, insomma, invocato come profeta dell’«immaginazione al potere», già reclamata dagli studenti del ’68 francese.

    In Italia, come altrove, il padre dei Miti di Cthulhu ha affascinato in pari misura critici e lettori tanto di «destra» quanto di «sinistra», quando ancora queste differenze avevano un senso e, anzi, rivestivano importanza tale da segnare a vita, come il Marchio Rosso di Hawthorne. Lo hanno analizzato, così, con interesse e acume, persone diverse come Giorgio Galli e Vintila Horia, Colin Wilson e Juan Eduardo Cirlot. Ma anche intelletti troppo fini per adattarsi alle rozze suddivisioni che fino a qualche anno fa tracciavano fili spinati all’interno della cultura, non hanno esitato a prenderlo in considerazione con rispetto. Giorgio Manganelli ha individuato la concreta «scheggia di letteratura» presente sotto il viluppo delle sue immagini straripanti e barocche; Jorge Luis Borges ne ha messo in luce i rapporti con la più nobile tradizione della narrativa anglosassone anti-realista, da Mandeville a Machen.

    Ci si chiede quale potesse essere la cifra comune, nella figura di Lovecraft, capace di cucire insieme figure tanto diverse quanto i contestatori di vent’anni fa e il sottile autore dell’Aleph, di sollecitare un giudizio coerente in critici militanti di parti avverse, di suscitare l’attenzione per il Fantastico anche in chi è uso ragionare soltanto sul concreto.

    Rispondere che l’elemento unificante è la sostanza stessa della sua opera, interpretabile come una sorta di rivolta ideale contro le costrizioni della ragione, che sono condizionanti per tutti, sarebbe semplicistico. L’opera di Lovecraft, nella sua sostanza esteriore, è irta di simboli odiosi: divinità oscene e repellenti; abissi spalancati su densi spessori di tenebra esalanti sepolcrali miasmi; riti spaventosi vòlti a portare alla luce quanto di più orrendo celano l’universo e l’animo umano. Non c’è nulla di rassicurante, nulla di conciliante. Sono immagini di profonda inquietudine e disagio, e l’inquietudine non unisce: piuttosto, divide.

    Ma, come ha osservato di recente Pietro Citati, dietro ogni testo abita un testo nascosto. Dentro i libri che noi vediamo, ci sono libri segreti che non sempre l’autore sa di avere scritto. Anzi, spesso lo scrittore ignora completamente questo libro occulto.

    Esso affiora attraverso il ritorno di certi simboli, o verità, o rapporti interni,o segrete corrispondenze. Attraverso questi dati emerge una trama invisibile, che il libro apparente tiene sepolta, e che manifesta il vero messaggio dell’autore.

    Il fermentare del Fantastico sotto il Velo di Maya della realtà, l’eco indistinta di un «raspare d’ali nere ai confini dell’infinito» sono le note dalle quali si ricostruisce il libro occulto di H.P. Lovecraft, quel libro il cui insolito fascino è tale da catturare personalità tanto diverse, saldare insieme ideologie contrapposte, dar corpo alle illusioni e far vivere i miti inconsci. Per leggerlo, non basta però sommuovere l’opera dello scrittore per farne emergere i simboli: occorre anche tenere presente la sua personalità, le sue motivazioni, l’arco inconsueto della sua esistenza terrena.

    II. Lo strano fascino di una vita vuota

    Richiesto, poco prima della morte, di scrivere un’autobiografia, Lovecraft se la cavò in poche paginette, affermando di aver vissuto un’esistenza così monotona da non avere praticamente nulla da dire. In effetti, basta qualche parola per raccontare la sua vita.

    Nato nel 1890 a Providence, nel cuore dell’America puritana, ebbe padre e madre pazzi, entrambi morti in manicomio. Il primo fu rinchiuso quando lo scrittore aveva tre anni, e morì cinque anni dopo, senza aver esercitato alcun influsso su di lui. La seconda invece morì nel 1921 dopo aver fatto largamente in tempo a soffocare la personalità del figlio, che crebbe isolato, introverso, insicuro, incapace di terminare gli studi o di trovarsi un lavoro.

    Anche la sfortuna fece la sua parte: nato nell’agiatezza, lo scrittore non poté goderne, perché le speculazioni sbagliate di uno zio dissolsero le sostanze familiari, gettandolo sul lastrico. Passò un’esistenza desolata in camere d’affitto a Providence, accudito da due anziane zie, sorelle vedove della madre. Imparò a vivere con quindici dollari la settimana, e spesso neppure quelli: quanto gli veniva dall’unico lavoro che gli riuscì di fare, cioè il«negro» per conto di scrittori meno dotati di lui, dei quali rimetteva in sesto i manoscritti.

    Di tanto in tanto scriveva un racconto, più che altro per farlo leggere agli amici con i quali era in corrispondenza. Per alcuni di essi trovò uno sbocco su Weird Tales, mensile di storie dell’orrido i cui compensi erano tra i più bassi d’America, e che per di più spesso respingeva i suoi testi. Unica parentesi in questa esistenza monocorde, due anni di matrimonio (con una donna molto più anziana di lui), trascorsi nella New York del Proibizionismo. Fu un periodo che aggiunse incubo a incubo: incapace anche lì di trovare lavoro, ed umiliato dal doversi far mantenere dalla moglie (di mestiere modista, e aspirante scrittrice), era inoltre disgustato – lui che proveniva da una della più linde e ordinate cittadine della provincia americana– dalla gran babele di razze, ceti, traffici della metropoli.

    Se ne tornò dalle zie, e riprese la solita vita, concedendosi come unica distrazione, quando poteva, qualche viaggio in pullman nei luoghi storici d’America. Morì a quarantasei anni di cancro, con lo stomaco e i reni rovinati da un regime alimentare ai limiti dell’assurdo.

    Fin qui gli scarni dati di un’esistenza vuota. Ad essi vanno aggiunte però alcune notazioni inattese, sorprendenti. Questo strano autodidatta, solo e sfortunato, autore di storie dai soggetti repulsivi, fu al centro dell’esistenza di decine di persone che pendevano dalle sue labbra come da un oracolo; intrecciò una corrispondenza incredibilmente vasta, inviando lettere straordinarie, ricche di umanità, di humour, di senso del meraviglioso, a centinaia di conoscenti in America e fuori: centomila missive, spesso lunghissime, che formano l’epistolario più vasto che si conosca dall’invenzione della scrittura¹ .

    In queste lettere, fece mostra di un’erudizione e di una memoria talmente vaste da lasciare sbigottiti: il francese Jacques Bergier – di professione fisico nucleare, e lui stesso famoso «mostro» di intelligenza e cultura – affermò che «mai nella mia vita mi era capitato di corrispondere con una creatura altrettanto onnisciente». Con l’incitamento, l’esempio, i consigli, aiutò decine di suoi corrispondenti a formarsi una carriera letteraria, specialmente nel campo del Fantastico, ma non solo in questo (in molti casi, ne aiutò gli esordi riscrivendone completamente i primi racconti, e senza mai voler apparire né essere compensato); sollecitò, anche da parte di persone che non lo avevano mai incontrato, una misura d’affetto straordinaria: Robert Bloch (l’autore di Psycho) scrisse per esempio che avrebbe attraversato gli Stati Uniti in ginocchio per essere al suo capezzale, se avesse saputo che era malato; diede nuova forma al genere horror, ribaltandone il punto di vista in senso cosmico, e fornendo così nuovi motivi d’ispirazione per intere generazioni di scrittori.

    Di tutte queste cose abbiamo testimonianza attraverso gli scritti di coloro che vennero in contatto con Lovecraft, di persona o per lettera, e da questo incontro ebbero segnate le loro vite. Dagli «allievi» che si aprirono una strada nel mondo della letteratura fantastica, come il già citato Bloch, e poi August Derleth, Fritz Leiber, Frank Belknap Long, Henry Kuttner, Joseph Payne Brennan, Donald Wandrei, per nominarne solo alcuni, ai clienti per il lavoro di revisione; ai membri dei diversi circoli di giornalisti dilettanti di cui lo scrittore fece parte; ai corrispondenti che non avevano interessi letterari, ma erano affascinati dalla personalità di Lovecraft come uomo, e non come autore. Per molti di questi ultimi, il ritratto dell’amico scomparso fu l’unica cosa che scrissero.

    Ci ritroviamo così, ancora, di fronte alla domanda dalla quale eravamo partiti: quale può essere la radice dell’inesplicabile fascino esercitato dalla figura del «Solitario di Providence», un fascino tanto impalpabile, ma pure tanto potente da esercitarsi decine d’anni dopo la sua morte, e su soggetti tanto diversi?

    Per rispondere, dobbiamo mettere meglio a fuoco la personalità di Lovecraft: e per questo dobbiamo risalire alla sua infanzia, vissuta in un singolare territorio, fra il mito e l’incubo.

    III. Vivere per sognare. La strana infanzia di H.P.L.

    Il civico n. 194 di Angell Street, a Providence, nel 1890 è una bella villa in stile «coloniale», nel quartiere migliore della città, non lontano dalla campagna; ha tre piani, i grandi tetti a spiovente, ed è circondata da un ampio giardino alberato. Vi abita il signor Whipple V. Phillips, nonno materno di Lovecraft, con la moglie Robin. Lì lo scrittore nasce, e va a vivere con la madre nel 1893, dopo il ricovero del padre in manicomio.

    È una strana casa, piena di ombre venute dal passato. Il signor Whipple, gentiluomo discendente da una famiglia di antico ceppo inglese, all’epoca viveva di rendita dopo aver condotto diversi affari ed aver viaggiato il mondo. La sua casa è piena di ricordi dei tempi andati. Mobili, quadri,oggetti accumulati dalla famiglia nel corso degli anni, o riportati dall’estero: come, per esempio, i souvenir di un soggiorno in Italia – e in particolare a Roma – del vecchio Whipple. Nell’ampia soffitta questi ricordi si accumulano. Molti risalgono al XVIII secolo, il periodo delle Colonie, prima della Dichiarazione d’Indipendenza del 1772. Ci sono vestiti conservati in grandi bauli, dipinti, armi antiche, ninnoli, oggetti d’uso messi da parte in favore di altri più «moderni».

    In quelle stanze, fra quelle ombre, il piccolo Lovecraft si aggira da solo. Non ha cugini della sua età, non ha vere amicizie fra i compagni di scuola, perché la madre decide di fargli frequentare solo saltuariamente le elementari, preferendo affidarne l’educazione a tutori privati. Dalla casa, esce poco: la madre non vuole, per un malinteso senso di protezione che col tempo si deforma fino a raggiungere connotati patologici. Secondo J. Vernon Shea, corrispondente e poi biografo di Lovecraft, Sarah Susan Phillips, forse squilibrata a sua volta dalla follìa del marito, giunge a coltivare nei confronti del figlio un sentimento distorto, nel quale l’amore finisce per assumere i connotati del sadismo: per impedirgli di uscire, non trova di meglio che convincerlo (senza peraltro alcuna giustificazione) di essere talmente brutto da ispirare ripugnanza negli altri, per cui è meglio che se ne stia chiuso in casa, affidato alle sue cure.

    In molti racconti di Lovecraft, il protagonista vive un’infanzia anormale e solitaria, scoprendo alla fine di essere segnato da una mostruosa «diversità», alla quale si sfugge soltanto con l’oblio o la follìa. È fin troppo facile legare il ripetersi ossessivo di queste tematiche con l’esperienza personale dello scrittore, incisa indelebilmente nel periodo formativo della sua psiche.

    Lovecraft, peraltro, trovò da solo, e rapidamente, i mezzi per sfuggire alle ombre che lo circondavano.

    Nella casa di Angell Street non c’erano soltanto ninnoli e vecchi mobili: c’erano anche scaffali e scaffali di libri. Vi era accumulata la cultura di generazioni, sia dei Whipple che dei Lovecraft: manuali, regesti, enciclopedie, crestomazie poetiche, trattati di scienze naturali, compendi di autori classici, romanzi, dizionari, pandette. Libri che percorrevano tutta la storia degli Stati Uniti, dal periodo delle Colonie alla fine dell’Ottocento, e libri che venivano da più lontano nel tempo e nello spazio, dall’Inghilterra di due secoli prima, terra d’origine della famiglia Whipple.

    Solo, privo di stimoli dall’esterno, circondato da persone anziane, limitato nella sua ansia di conoscere, il piccolo Lovecraft, dall’intelletto precoce e dalla sveglia curiosità, trova in quei libri l’alimento per la sua fantasia. I suoi interessi prendono rapidamente direzioni ben definite: il nonno, appassionato di letteratura gotica, gli apre la strada verso il Fantastico; la nonna, studiosa di astronomia, gli fa conoscere le meraviglie dei cieli e delle «scienze naturali». Di suo, il ragazzo mette una nota originale. Affascinato dal mondo classico, giunto a lui attraverso traduzioni settecentesche e compendi per l’infanzia scritti all’epoca della regina Anna, sviluppa una singolare spiritualità neo-pagana: onora gli dèi dell’Olimpo, sorveglia di nascosto le fonti per spiare le naiadi, orna – come un personaggio di Steinbeck – gli alberi di corone di fiori in omaggio alle driadi ed al gran dio Pan.

    In questo mondo sospeso in una terra di nessuno fra presente e passato,fra realtà e fantastico, ed anche (è giocoforza ammetterlo) fra ragione e follia, un giorno irrompe subitaneo e inatteso l’incubo.

    È Lovecraft stesso a raccontarlo:

    Nel gennaio del 1896, la morte di mia nonna gettò la casa in un’atmosfera cupa, dalla quale non uscì mai più. Le vesti nere di mia madre e delle mie zie mi riuscivano paurose e ripugnanti... Fu allora che la mia vivacità naturale si spense. Cominciai ad avere gli incubi più odiosi, popolati di cose che chiamai Night Gaunts («Magri Notturni»), con un’espressione inventata da me.

    I Night Gaunts erano cose nere, magre, rugose, con code lunghe e pelose, ali di pipistrello, e nessuna traccia di un volto... Non avevano voce, e la loro unica forma di vera tortura era l’abitudine di solleticarmi lo stomaco prima di afferrarmi e portarmi via con loro...

    In sogno, mi trascinavano nello spazio a velocità paurosa, e mi tormentavano e trafiggevano con i loro detestabili tridenti.

    A volte, avevo la vaga idea che abitassero in nere caverne che traforavano come un favo le vette di montagne inaccessibili. Venivano in stormi di venticinque o cinquanta, e a volte mi facevano volare dall’uno all’altro...

    Ancor oggi, quando sono mezzo addormentato e mi capita di lasciarmi andare all’onda dei ricordi d’infanzia, sento un brivido di paura, e istintivamente lotto per tenermi sveglio. Questa era la mia sola preghiera, ogni notte: restare sveglio, e lontano dai Night Gaunts!

    I brani citati, tratti da lettere scritte anche poco prima della morte di Lovecraft, fanno capire quanto precoce e soprattutto quanto durevole sia stata in lui l’impronta dell’irreale, in una fantasia di per sé già segnata dalla perdita di alcune certezze fondamentali: la fiducia nei genitori, la sicurezza nella religione (ricordiamoci che siamo nel cuore dell’America puritana, alla fine dell’Ottocento), la stabilità economica.

    Per tutto il resto della sua vita, Lovecraft oscillò fra due estremi opposti: il rifiuto di un mondo al quale lui – un neo-pagano nutrito di letture settecentesche – si sentiva totalmente estraneo, fino alla ripugnanza, e l’altrettanto radicale rifiuto dell’abbandono completo alla fantasia, che nel suo caso, come si rendeva ben conto, si sarebbe identificato con l’abbandono alla follìa.

    Di fronte al richiamo dei Magri Notturni, Lovecraft non volle né chiudere gli occhi, né fuggire. Scelse una terza via: razionalizzò l’incubo stesso, gli diede dei precisi connotati e delle ben misurate valenze; ad ogni orrore assegnò un nome, un’origine, una funzione. Individuato così il nemico, trovò anche il mezzo per combatterlo.

    IV. Un pantheon di tenebra

    Un’infanzia come quella di Lovecraft segna indelebilmente. Giunto alla maturità, lo scrittore si ritrova solo: non è abituato al rapporto con gli estranei, non possiede un titolo di studio, non conosce alcun mestiere, ha del sesso nozioni unicamente letterarie. Quelle che per le persone comuni sono le condizioni normali della vita di tutti i giorni, per lui sono situazioni angosciose. La strada scelta da Lovecraft per sublimare quest’angoscia è di straordinaria originalità: ad ognuno dei suoi incubi, ad ognuna delle sue debolezze, diede una veste simbolica ed una collocazione ultraterrena. Ne fece altrettante oscene divinità di un pantheon dell’orrore e dell’assurdo, entità grottesche e ripugnanti, esalazioni miasmatiche di un altrove nel quale fermentano tutte le abominazioni.

    Shub-Niggurath, «Il Capro Nero dai Mille Cuccioli», divenne per lui l’immagine della sessualità repressa, vissuta con tormento e dolore; il Grande Cthulhu, che dorme negli abissi pronto a riprendere il dominio del mondo, incarnò il simbolo dell’affermazione nella vita e nella società, costantemente frustrata; Nyarlathotep, «il Caos Strisciante», fu l’immagine del potere seduttivo dell’irrazionale, sempre in agguato; Yog-Sothoth, «Il Tutto in Uno e Uno in Tutto», raffigurò l’impulso all’affermazione del Sé; Azathoth, il dio cieco e idiota che gorgoglia e bestemmia al centro dell’infinito, fu la metafora più atroce di tutte: lo specchio del terrore supremo che si prova nel riconoscere la vera immagine di noi stessi rimossa nel profondo dell’inconscio.

    Assegnati così dei precisi connotati ai suoi incubi – che sono quelli di tutti noi – Lovecraft passò ad individuare i mezzi per esorcizzarli. Per un uomo nato fra i libri e fra i libri sempre vissuto, in realtà il mezzo è uno solo: il potere creativo dell’immaginazione. «L’immaginazione e il grande rifugio» è la prima frase del suo romanzo incompiuto Azathoth. Ed è anche la frase-chiave per comprendere non soltanto il metodo di superamento del Sé adottato da Lovecraft, ma anche le ragioni del fascino della sua narrativa, che supera i limiti espressivi e gli steccati ideologici, per incidersi radicalmente nel profondo.

    Le passioni che ci travolgono – teorizzò lo scrittore – possono essere dominate se, con un supremo atto immaginativo, riusciamo ad esteriorizzarle, a contemplarle in tutta la loro grottesca vanità, ad analizzarle con il freddo distacco del naturalista che osserva due insetti ripugnanti nell’atto di divorarsi l’un l’altro. Le chiavi dell’abisso – scrisse Lovecraft con una trasparente metafora – sono racchiuse in un libro, il Necronomicon, scritto da un folle e messo al bando da tutti coloro che preferiscono volgere le spalle all’incubo, piuttosto che guardarlo negli occhi. È dunque il coraggio intellettuale, la deliberata evocazione dei nostri terrori, a fornirci il mezzo per esorcizzarli.

    Non meraviglia più, allora, che i giovani contestatori sentano il fascino di Lovecraft: loro, alle storture di una società deviata, hanno da tempo dato connotazioni simboliche ben precise, seppure di segno diverso a seconda della radice ideologica. Altrettanto hanno fatto quelli fra gli intellettuali che hanno avuto il coraggio di superare le schematizzazioni più banali della cultura corrente.

    Il commento più bello all’opera di Lovecraft l’ha scritto forse Jacques Bergier:

    La chiave d’argento che ci consegna lo scrittore ci addita un cammino che porta fuori del nostro universo, nei continua dell’infinito. È un cammino che segue, fino ad un certo punto, la via della scienza, ma si separa nettamente, peraltro, dall’occultismo. È un cammino che si addentra cosi tanto nell’ignoto, che lo spirito umano non può seguirlo se non grazie all’immaginazione, sostenuta da profonde conoscenze scientifiche e storiche. È una strada aperta a tutti nel mondo, compreso il malato prigioniero della sua malattia e della sua povertà che fu Lovecraft. E il deportato che io fui si accorse bene che è una via d’evasione concreta, che porta molto lontano, ben al di là dei fili spinati.

    GIANNI PILO - SEBASTIANO FUSCO

    ¹ Si fanno ammontare a circa 118.000 le lettere scritte da Lovecraft ad amici, conoscenti e persone con le quali era in rapporto professionale. Questa enorme mole di corrispondenza è più rimarchevole,ove si pensi che moltissime di queste lettere superano le venti pagine, per arrivare in taluni casi a 60/70. In quest’ultimo caso sovente si tratta di veri e propri saggi o addirittura racconti (N.d.C.).

    Le radici dell’orrore in H.P. Lovecraft

    Sino all’inizio del secolo – come fa notare Rafael Llopis nella Prefazione alla sua splendida antologia Los Mitos de Cthulhu (Alianza Editorial, Madrid 1969) – il protagonista assoluto della letteratura del terrore era stato il morto. Ciò fin dalle origini, come evidenzia la prima compiuta storia di fantasmi che si conosca, narrata da Plinio il Giovane nella Lettera 27 del Libro VII dell’Epistolario. La brevità ne consente la trascrizione.

    Vorrei sapere che cosa ne pensi tu dei fantasmi: se esistono davvero, con forma e potenza propria, o se non sono che ombre, vuote immagini suscitate dal nostro terrore? Per me, da quel che se ne dice sarei portato a credere che esistono. Senti questa storia, che ti racconto come l’hanno raccontata a me. C’era in Atene una casa spaziosa e confortevole, ma quanto mai sinistra. Nel silenzio della notte, s’udiva dapprima un lontano rumore di metallo; poi, ascoltando meglio, uno strepito di catene che s’avvicinava; e infine, ecco apparire uno spettro: un vecchio emaciato e squallido, dalla barba incolta e dai capelli irti, che veniva squassando le catene di cui era carico. Gli inquilini passavano dunque delle notti spaventose, senza chiudere occhio; e l’insonnia portando la malattia, e la malattia aggravandosi con il terrore (un terrore che durava anche di giorno, quando lo spettro non c’era piu, tanto la memoria di lui continuava a ossessionarli), finivano per lasciarci la pelle. Sicché la casa si vuotò, e resto vuota: abbandonata interamente a quel mostro. Tuttavia il proprietario ci lasciò il cartello «Da vendere o da affittare», nel caso che qualcuno – ignaro della faccenda – ancora la volesse. Viene ad Atene il filosofo Atenodoro. Legge il cartello, sente il prezzo e capisce, dalla sua straordinaria convenienza, che c’é sotto qualcosa. Perciò s’informa, e viene a sapere tutto. E nonostante, anzi proprio per questo, prende la casa in affitto. Al cader della notte, si fa sistemare un letto in anticamera, con un tavolino, una lampada e l’occorrente per scrivere. Poi manda tutta la famiglia nelle stanze di fondo, e lui resta lì a lavorare: concentrandosi tutto nella scrittura – mente, occhi, mano – per garantirsi contro ogni scherzo dell’immaginazione. Al principio, nient’altro che il silenzio notturno. Poi dei colpi, un rumore di catene smosse. Il filosofo non alza gli occhi, non smette di scrivere, anzi si concentra di più nel suo lavoro, senza dar retta alle sue orecchie. Ma sente che lo strepito cresce, s’avvicina alla porta, e ormai di qua dalla porta, nella stanza stessa. Si volta, e riconosce il fantasma che gli hanno descritto: è lì in piedi, accanto a lui, gli fa segno col dito come per chiamarlo. Atenodoro, da parte sua, gli fa segno di aspettare un po’; e si rimette a scrivere. Ma l’altro insiste a fargli strepito con le catene sulla testa, mentre lui scrive. Per cui si volta di nuovo e, vedendolo ripetere lo stesso segno di prima, finisce per prendere la lampada e seguirlo. Il fantasma camminava lentamente, come impedito dalle catene. Varcata la soglia, volta dalla parte del cortile: dove improvvisamente svanisce, abbandonando il suo accompagnatore. Questi, rimasto solo, fa un mucchietto d’erba e foglie per ricordarsi esattamente del posto; e il giorno dopo va dalle autorità a dire che facciano scavare. Scavando, trovano uno scheletro incatenato: ossa nude, rose dal tempo e dall’umidità, mescolate ai ferri. Dopodichè, a cura dell’amministrazione, ai miseri resti venne data degna sepoltura. E, da allora, in quella casa non si sentì più nulla.

    Nulla mutò da allora, per secoli, se non i particolari. Dal falso morto di Ann Radcliffe, all’uomo che avrebbe dovuto esser morto di Maturin, al morto non morto di Polidori, al morto resuscitato di Mary Shelley, alla morta amata e temuta di Edgar Allan Poe, il fulcro dell’orrore è sempre stato l’indebito ritorno di qualcuno dal Paese che nessuno conosce, «l’ignota terra da cui nessun viandante è reduce» il cui pensiero faceva illanguidire la volontà d’estinzione di Amleto. Alcuni dei morti che hanno attraversato le pagine di secoli di letteratura erano fisicamente concreti e corrotti, altri immateriali come un soffio, un sentore nell’aria, o semplicemente come una vaga e indecifrabile malinconia.

    Il Settecento, Secolo dei Lumi, mise in crisi le credenze popolari in risurgenti d’ogni tipo (Voltaire ridicolizzò le voci sulle epidemie di vampirismo nel centro Europa, smentite anche dalle serie indagini mediche); ma il secolo successivo, l’Ottocento, pur confermando in omaggio al positivismo l’insussistenza del ritorno dei morti, ne rinnovò la paura. È un paradosso, ma mai come negli anni del razionalismo trionfante si sono moltiplicate e hanno fatto presa le storie che vedevano l’improvvisa violazione del confine che divide i due separati dominî della vita e della morte. Questa contraddizione dell’anima romantica è bene espressa dalla celebre frase di Madame du Deffand, che a chi le chiedeva se credesse nei fantasmi, rispondeva di no, ma che però ne aveva paura.

    Il sonno della ragione, com’è noto, produce mostri. E mai come nel Secolo della Ragione una specie di sonno collettivo (o, come la metteva Coleridge, una «volontaria sospensione dell’incredulità») ha immesso nella letteratura una più massiccia e variegata invasione di mostri d’ogni tipo: tutte varianti dello stesso antico prototipo, il morto non rassegnato alla quiete eterna. Dal classico fantasma che percorre silente le sale buie di gelidi manieri, al vampiro che emerge dalla sua bara, alla creatura del dottor Frankenstein, alla «mummia maledetta», al loup-garou, è tutto un seguito di orrori d’oltretomba che viene a inquietare le certezze dei vivi.

    Si deve aspettare l’inizio del XX secolo per vedere una prima mutazione importante in questo immutabile cliché. La si deve a uno scrittore gallese ai suoi tempi di poca fama e molta fame, Arthur Machen, il quale (forse influenzato da suggestioni derivantigli dalla società di occultisti cui apparteneva, la Golden Dawn) pensò bene di sbarazzarsi di tutto l’armamentario tardoromantico di castelli diroccati, case stregate, sepolcri scoperchiati, brughiere, cimiteri, notti di luna piena e soprattutto morti indebitamente agitati, sostituendolo con un concetto molto più sottile e, se sivuole, molto più tremendo.

    Il terrore, secondo Machen, non nasce da una violazione inattesa delle leggi naturali, ma è insito nelle leggi naturali stesse, di cui conosciamo soltanto l’aspetto terreno, sensibile e vicino alla nostra esperienza, ma ignoriamo gli infiniti risvolti occulti. Nella natura vi è un aspetto percepibile e uno impercepibile, un piano sottile su cui operano forze segrete e potenti, che talvolta possono manifestarsi in modo sconvolgente e terribile. Le verdi colline del Galles, così piacevoli a vedersi, possono nascondere ancora, ignote a tutti, le braci vive dell’antica spiritualità pagana, che cerca talvolta di sopraffare la moderna razionalità. Nel profondo della mente umana può celarsi l’ombra di un male radicale, demoniaco, che un’incauta operazione al cervello può portare alla luce. Nell’istintualità animale possono emergere lampi di ribellione, tali da confondere la gerarchia degli esseri. I vegetali e i minerali più semplici possono racchiudere poteri nascosti, in grado di aprire le porte dell’Inferno. Nulla è più come sembra; sotto il velo tranquillizzante della realtà di tutti i giorni fermenta e ribolle un occulto universo di terrore, tanto più orribile in quanto ignoto, nascosto e fondamentalmente inconoscibile, se non attraverso i suoi effetti più sconvolgenti sull’anima e sul corpo degli uomini.

    La svolta impressa da Machen al racconto del terrore può essere ben compresa se si riflette sul fatto che fino a lui (con qualche rara eccezione legata ad autori come Poe, Stevenson, Hawthorne) la base dell’orrido letterario era fondata sulla rielaborazione di tradizioni, credenze e leggende popolari, e i protagonisti erano figure e simboli che la gente ben conosceva: lo spettro, il morto vivente, il vampiro e così via. Machen apre invece tutto un nuovo universo: la radice dei suoi orrori non affonda nella tradizione, cioè nel ben conosciuto, ma nell’ignoto puro, nel territorio immenso e insondabile che si apre al di là dei confini imposti ai sensi e alla ragione umani. La fantasia degli autori contemporanei del terrore diventa così libera di muoversi anche al di là dei limiti definiti da modelli preesistenti, lasciando spazio alla pura invenzione e all’evocazione di simboli di spavento nuovi e mai visti prima.

    Nella Golden Dawn, la società occulta di cui faceva parte Machen, agivano diversi autori inglesi del soprannaturale; fra gli altri, Bram Stoker, Algernon Blackwood, Lord Dunsany. Non mancò quindi un riscontro, in Inghilterra, della nuova «teoria dell’orrore» formulata dallo scrittore gallese. Stoker, per esempio, nel suo ultimo romanzo, The Lair of the White Worm, fece rivivere un orribile essere preistorico giunto ai nostri giorni attraverso uno strano cammino evolutivo. M.P. Shiel e W.H. Hodgson scrissero di terrori calati da universi alieni. Lord Dunsany trasse suggestioni nuove dall’inconscio e dai sogni. Blackwood cominciò ad esplorare l’orrore immanente nella natura, giungendo a scrivere in questa chiave il suo capolavoro assoluto, il romanzo breve The Willows.

    Ma fu al di là dell’oceano, negli Stati Uniti, che la lezione di Machen trovò la sua eco più vasta, attraverso un altro autore che portò alle estreme conseguenze il suo nuovo punto di vista.

    Lovecraft non nascose mai il suo debito nei confronti del gallese. «Nessuno come Machen», scrisse il 7 febbraio 1924 a Frank Belknap Long, «è capace di evocare così tenebrose regioni di terrore, la cui stessa esistenza appare come un affronto alla creazione.» In quelle «tenebrose regioni» lo scrittore di Providence si calò a fondo come mai nessuno prima di lui, in un viaggio soprannaturale che aprì alla letteratura dell’Orrido l’abisso senza confini del tempo e dello spazio.

    «Orrore cosmico» definì Lovecraft il concetto fondamentale che animava la sua narrativa. Il punto d’inizio è l’ignoranza. L’uomo è tranquillo e sicuro finché crede soltanto a ciò che percepisce con i suoi sensi o ricostruisce con la ragione. Ma l’uomo è un incidente infinitesimale nell’infinita complessità del cosmo, i suoi sensi e la sua ragione abbracciano un territorio ridicolmente limitato, un granello di polvere nell’Assoluto. I terrori immanenti nella natura che lo circonda, o che emergono dalla sua storia, sono nulla in confronto a quelli che turbano l’infinito. Le forze cosmiche sono cieche, e macinano l’eternità senza neppure avvedersi della razza umana. Sono tremende perché del tutto insensibili, ineluttabili, inconcepibili. Dar loro la veste di divinità è un espediente di comodo, ma è riduttivo: non sono sensibili né alle nostre preghiere né al nostro dolore. Vengono da abissi talmente insondabili di tempo e di spazio che il semplice tentativo di concepirle stravolge la mente e induce la follia, come quella che travolse il matematico Cantor, che ebbe la pretesa blasfema di definire un algoritmo dell’infinito.

    Per questo, aprire squarci di conoscenza che ne facciano balenare nel buio anche parziali contorni (per esempio attraverso formule racchiuse in scritti giustamente proibiti) significa esporre la nostra mente ad un cataclisma d’orrore.

    Con felice formulazione, Fritz Leiber definì Lovecraft «il Copernico della letteratura del terrore». In effetti, lo scrittore di Providence attuò una serie di rovesciamenti copernicani nel suo genere narrativo. In primo luogo, ne trasferì il punto di vista dalla terra al cosmo: i suoi orrori non sono legati al giardino ristretto delle vicende umane, all’orizzonte limitato del nostro pianeta, ma sono l’espressione del caos universale, di quel coacervo di forze cieche e indifferenti che costituiscono il tessuto del cosmo.

    Ribaltato è anche il ruolo della conoscenza nella gestione umana del terrore. Nelle storie tradizionali, l’unica speranza dell’uomo per poter affrontare e vincere le forze delle tenebre è legata alla comprensione precisa della loro natura: il filosofo Atenodoro rende la quiete al fantasma rivelandone la natura di morto senza i dovuti onori funebri; il dottor van Helsing sconfigge Dracula perché conosce l’origine e la natura dei vampiri.

    In Lovecraft, la conoscenza è invece la fonte prima del terrore: perché solo chi trascende i limiti dell’umano sapere apre gli occhi sull’abisso, e può coglierne gli orrori senza nome, ricevendone in cambio morte e follia. Quando la scienza avrà unificato le varie parti del sapere – scrive Lovecraft– si verificherà ai nostri occhi una visione talmente terrificante della realtà e del nostro ruolo in essa, che come unico scampo potremo avere soltanto l’annullamento mentale o il ritorno ad un’era di ignoranza.

    Stravolta è in lui anche ogni gerarchia tradizionale di valori fra materia e spirito. Lo spirito, anzi, non esiste. Le sue creature soprannaturali non sono incorporee come gli spettri, o partecipi di una concezione metafisica del male, come il vampiro o il lupo mannaro. Sono invece sostanziate di una materialità suprema, una radicale iper-concretezza, tale che, di fronte a loro, è proprio l’uomo ad assumere una sostanza indefinita, mutevole, soggetta a trasformazioni e degenerazioni derivanti da immondi connubî. L’immortalità dei suoi mostri non deriva da una natura sovra-materiale: al contrario, dall’essere sostanziati di una materia così oscenamente antica e corrotta, da rendere impossibile ogni ulteriore putrefazione.

    Da quando, nel secondo dopoguerra, le opere di Lovecraft cominciarono ad essere diffuse e popolari al di là della ristretta cerchia dei lettori di Weird Tales, la narrativa dell’Orrore non è più la stessa, non accoglie più, o accoglie in modo diverso, i cliché sui quali per secoli s’era modellata. Stephen King, il più popolare fra i maestri moderni del soprannaturale, ha esplicitamente ammesso, più d’una volta, il suo debito nei confronti dello scrittore di Providence. Ma non è il solo. Chiunque, oggi, voglia fare dello spavento il fulcro del suo messaggio letterario, deve fare i conti con la rivoluzione copernicana attuata dal creatore di Cthulhu.

    GIANNI PILO - SEBASTIANO FUSCO

    Cronologia lovecraftiana

    L’arco dell’esistenza di Lovecraft si sviluppa in un periodo nel quale anche la letteratura gotica e fantastica subisce, soprattutto negli Stati Uniti, una profonda evoluzione. Nelle pagine che seguono sono evidenziati i tratti fondamentali della vicenda personale dello scrittore di Providence e del suo genere.

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