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Manzoni e la spia austriaca
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E-book160 pagine2 ore

Manzoni e la spia austriaca

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Info su questo ebook

Nell’estate del 1858 il conte di Cavour incontra l’imperatore Napoleone III per convincerlo ad affiancare il Regno di Sardegna nella guerra contro l’Impero austriaco. L’operazione va in porto e il conte mette in allerta il marchese Arconati Visconti, a capo del “circolo di Cassolo”, luogo di ritrovo per patrioti, cospiratori e intellettuali del calibro di Alessandro Manzoni. Proprio il padre dei Promessi sposi giunge in Lomellina, ospite del marchese. Nel palazzo di Cassolo arriva anche il colonnello Enrico Strada, confidente del ministro della Guerra, Ferrero della Marmora.
E in quei giorni d’estate, una spia inviata dal governatore del Lombardo-Veneto, terra al di là del Ticino soggetta all’Impero austriaco, s’insinua nel “circolo di Cassolo” scompaginando le carte dei patrioti lomellini.
Attraverso una Mortara occupata nella primavera successiva dalle truppe del feldmaresciallo Gyulai, si arriverà al colpo di scena finale sulle sponde della Sesia.
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2015
ISBN9788869430565
Manzoni e la spia austriaca

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    Anteprima del libro

    Manzoni e la spia austriaca - Umberto De Agostino

    Capitolo I

    Fitti boschi di abeti e di faggi cingevano la cittadina di Plombières-les-Bains. Il sole splendeva limpido sul massiccio dei Vosgi inducendo i villeggianti francesi e di mezza Europa ad abbandonare già di primo mattino le stanze d’albergo per una salutare sgambata lungo i sentieri rocciosi.

    Da diverse estati l’imperatore Napoleone III si allontanava dall’infida politica parigina per rifugiarsi nella stazione termale al confine con la Confederazione germanica. Quelle acque ricche di silice, dall’effetto benefico noto già ai tempi dell’antica Roma, erano particolarmente indicate per risolvere i problemi legati all’apparato digerente.

    Anche in quella metà di luglio del 1858 il nipote del grande Bonaparte, che poco meno di sei anni prima aveva fondato il Secondo impero francese, aveva scelto di trascorrervi alcuni giorni di assoluto riposo. Adorava i laghi attorniati da abeti, pini, faggi e aceri, e ammirava spesso in solitudine i verdi prati su cui pascolavano liberamente le vacche frisone e i loro vitellini.

    Durante quel soggiorno, però, Napoleone III avrebbe ricevuto la visita di un ospite di riguardo. La politica, cacciata in un primo tempo dalla finestra, sarebbe rientrata dalla porta principale delle terme lorenesi. Da tempo si era deciso a scendere in guerra contro l’Impero austriaco, che nell’Italia settentrionale controllava il Regno lombardo-veneto. Duplice lo scopo: risolvere la questione italiana e cancellare l’umiliazione del Congresso di Vienna. E Camillo Benso di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna, attendeva che si presentasse l’occasione giusta per sfruttare le esigenze francesi a tutto vantaggio delle aspirazioni unitarie italiane.

    Dopo una serie di colloqui riservati fra emissari di entrambe le parti, Napoleone III aveva suggerito a Cavour di raggiungerlo sui Vosgi, nel silenzio degli abeti e dei faggi. L’11 luglio il conte aveva lasciato Torino facendo annunciare di essere diretto in Svizzera, ma solo re Vittorio Emanuele II e il ministro della Guerra, generale Ferrero della Marmora, erano al corrente della reale destinazione finale. La mattina del 20 luglio, intorno alle undici, fu accolto dall’imperatore nella sua stanza privata.

    «Illustrissimo conte, vi ringrazio della gradita presenza» esordì Napoleone andando incontro al politico piemontese. L’atmosfera di cordialità era un requisito essenziale per il buon esito della trattativa. Il maggiordomo fu licenziato con un perentorio gesto della mano dall’imperatore, che poi versò personalmente il vino.

    «È derivato da un vitigno chiamato Grenache blanc, coltivato nei vigneti della Languedoc-Roussillon: spero che sia di vostro gusto» aggiunse alzando il calice. «Per entrare subito in argomento, vi comunico che sono deciso ad aiutare il Regno di Sardegna con tutte le mie forze in una guerra contro l’Austria, purché sia intrapresa per una causa non rivoluzionaria, che possa giustificarsi agli occhi della diplomazia e, più ancora, dell’opinione pubblica in Francia e in Europa».

    «Vostra maestà, vi ringrazio di tutto cuore» rispose il conte. Il ghiaccio era rotto, ma Cavour, da politico accorto, sapeva di non dover mostrare un ottimismo eccessivo alle prime battute di un colloquio così importante. «Posso chiedervi quale sarebbe, secondo voi, lo scopo della guerra?».

    «Senza difficoltà vi dico che bisogna cacciare gli austriaci dall’Italia e non lasciar loro un palmo di terreno al di qua delle Alpi e dell’Isonzo!» sentenziò l’imperatore. Lo spirito bellicoso della stirpe còrsa dei Bonaparte stava prendendo il sopravvento. Cavour rimase impressionato dalla ferma determinazione dell’interlocutore, ma preferì mantenere la conversazione su un livello più distaccato.

    «Faccio fatica a immaginare, però, come sarà ordinata l’Italia» chiese dopo il secondo sorso del vino bianco della Linguadoca.

    «Credo che la valle del Po, la Romagna e le Legazioni dovrebbero costituire il Regno dell’Alta Italia, sul quale regnerebbe Casa Savoia» replicò Napoleone senza esitazioni, ormai sicuro di avere in pugno il conte giunto in gran segreto da Torino. «Al papa si conserverebbe Roma con il territorio che la circonda. Il resto degli Stati del papa, con la Toscana, formerebbe il Regno dell’Italia centrale. Non si toccherebbe la circoscrizione territoriale del Regno di Napoli. I quattro Stati italiani formerebbero una Confederazione a somiglianza di quella germanica, di cui si darebbe la presidenza al papa per consolarlo della perdita della miglior parte dei suoi Stati».

    Cavour accennò a un sorriso. «Questo assetto mi pare interamente accettabile».

    A quel punto, però, l’incontro diplomatico sembrò inerpicarsi sulla salita di Savoia e di Nizza. Napoleone chiese a Cavour se re Vittorio Emanuele II sarebbe stato disposto a cedere i due territori piemontesi alla Francia.

    «Professando il principio delle nazionalità, la Savoia, sebbene culla della famiglia del mio sovrano, dovrebbe essere riunita alla Francia» rispose secco il presidente del Consiglio, che subito dopo sembrò fare marcia indietro. «La questione di Nizza è diversa perché i nizzardi, per origine, lingua e costumi, appartengono più al Piemonte che alla Francia. La loro unione all’Impero francese sarebbe contraria a quel principio per far trionfare il quale si pigliano in mano le armi».

    L’imperatore si accarezzò più volte i baffi limitandosi ad aggiungere che di queste faccende si sarebbe occupato in un secondo tempo. La sua mente stava già volando all’ingresso trionfale a Vienna. Il cognome Bonaparte avrebbe ancora una volta traumatizzato il Vecchio Continente.

    «Per forzare l’Austria a rinunciare all’Italia, due o tre battaglie vinte nelle valli del Po e del Tagliamento non basterebbero» aggiunse spavaldo. «Bisognerà necessariamente entrare nei confini dell’impero e, ficcandogli la spada nel cuore, costringerlo a sottoscrivere la pace. Ci vorranno forze assai considerevoli: trecentomila uomini, di cui duecentomila francesi».

    La gloria militare, ancora una volta dopo la vittoriosa guerra di Crimea terminata due anni prima, sarebbe stata accostata alla sua persona. «E sarò io a comandare l’armata francese in Italia!» confermò Napoleone III con un sussulto.

    Dopo quattro ore di fitto colloquio, il primo pomeriggio riservò a Cavour una sorpresa. L’imperatore lo congedò invitandolo a tornare alle quattro per una passeggiata in carrozza tra i faggi e gli abeti.

    All’ora prefissata i due uomini politici salirono su un elegante phaëton tirato da due cavalli americani. Le redini furono prese dall’imperatore, seguito solo da un servo di fiducia. La carrozza aperta a quattro ruote uscì dalle vie di Plombières-les-Bains per dirigersi in mezzo alle foreste e ai declivi che fanno dei Vosgi una delle contrade più pittoresche della Francia.

    Fra due ali di faggi l’imperatore toccò più volte l’argomento del matrimonio di suo cugino, il principe Napoleone Giuseppe Carlo, con la quindicenne Maria Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II. Le nozze avrebbero suggellato l’alleanza sardo-francese ancora in embrione.

    «Capisco che il re abbia ripugnanza a maritare una figlia così giovane» riconobbe Napoleone III mentre svoltava su una stradina che li avrebbe riportati alla stazione termale. «Perciò io non insisterò che il matrimonio abbia luogo subito: sarei disposto ad aspettare un anno e più, se è necessario. Di conseguenza vogliate pregare il re di consultare la sua figliola e di farmi conoscere le sue intenzioni».

    Giunti di fronte alla residenza di Napoleone, i due si strinsero calorosamente la mano. Ormai l’alleanza militare appariva dietro l’angolo, anche se il re di Sardegna avrebbe dovuto digerire le nozze della figlia adolescente con il trentaseienne cugino dell’imperatore, il cui nomignolo familiare – Plon Plon – la diceva lunga sulla serietà dei suoi impegni sentimentali.

    «Abbiate fiducia in me, come io l’ho in voi» fu il saluto finale di Bonaparte.

    Cavour rientrò in albergo meditando sulla seconda parte dell’abboccamento segreto con l’imperatore. I suoi pensieri intorno al matrimonio dinastico si accavallavano relegando in secondo piano quelli sui dettagli politici, militari e finanziari della futura alleanza.

    "Il rifiuto del Savoia sarebbe un’ingiuria sanguinosa, non bisogna dissimularlo. E avrebbe un altro inconveniente: fare del mio re un nemico implacabile dell’imperatore. Il principe Napoleone, più còrso ancora di suo cugino, ci giurerebbe un odio mortale".

    Il conte si distese sul letto meditando sulle parole da inserire nella lettera che avrebbe spedito quanto prima a Vittorio Emanuele II. "E poi non penso che il matrimonio della principessa Clotilde con il principe Napoleone si possa dire sconvenevole solo perché quest’ultimo non appartiene a un’antica casa sovrana. Fra l’altro la storia è qui per provarci che le principesse sono esposte a una ben triste esistenza".

    La carrozza entrò a Baden mentre il sole si stava alzando dietro i maestosi abeti della Foresta nera. Tre giorni dopo il faccia a faccia con l’imperatore, Cavour non si era fatto sfuggire l’occasione di soggiornare per un giorno nella capitale estiva d’Europa. Dopo essersi immerso nei bagni termali della cittadina lorenese, ora avrebbe provato quelli del regno di Württemberg.

    La politica, però, non poteva abbandonarlo del tutto. Al contrario.

    Egli sapeva che re, principi e ministri di varie contrade d’Europa dimoravano a Baden nella bella stagione. Il fiuto non gli venne meno perché nell’arco di ventiquattr’ore riuscì a incontrare il re di Württemberg, un principe di Prussia, vari diplomatici russi e la granduchessa di Russia Elena Pavlovna. Quest’ultima, figlia del principe Paolo Federico di Württemberg, gli assicurò che, se la Francia si fosse unita al Piemonte, i russi avrebbero costretto il loro governo a fare altrettanto.

    Fra un colloquio e l’altro, si sedeva allo scrittoio per mettere su carta i principali passaggi della lunga conversazione con Napoleone III. Alla fine, la lettera di quaranta pagine avrebbe raggiunto Torino prima del suo ritorno grazie a un funzionario dell’ambasciata sarda a Berna.

    Verso il tardo pomeriggio, esaurite le consultazioni diplomatiche, Cavour mise mano a una seconda lettera indirizzata a Ferrero della Marmora.

    "Caro amico, ho scritto con calore al re, pregandolo a non porre a cimento la più bella impresa dei tempi moderni per alcuni scrupoli di rancida aristocrazia. Ho lasciato Plombières coll’animo più sereno. Se il re consente al matrimonio, ho la fiducia, dirò quasi la certezza che fra due anni tu entrerai a Vienna a capo delle nostre file vittoriose".

    L’eccitazione era alle stelle. Il conte stava per ottenere un risultato storico: l’armata francese avrebbe garantito la cacciata degli austriaci dalla Pianura padana. La sua mente volava. Aveva già di fronte agli occhi il re che entrava trionfalmente a Milano, sotto l’Arco della Pace di piazza Sempione, come un console dell’antica Roma.

    Imbustata la lettera per il generale, Cavour si preparò a scriverne una terza. Dando ormai per scontato che il cannone avrebbe tuonato in primavera ai confini fra il Piemonte e la Lombardia, il conte giocava d’anticipo coinvolgendo un amico sincero che da quasi quarant’anni si batteva per l’unità d’Italia.

    Giuseppe Arconati Visconti sedeva alla Camera dei deputati di Torino dal 1849, anno d’inizio della quarta legislatura. Dal maggio 1855, quando si era aperta la sesta legislatura, il nobile milanese non faceva mancare il sostegno al secondo governo Cavour. E nel dicembre 1857 era stato votato per il terzo mandato consecutivo dagli elettori del collegio di Vigevano.

    All’età di diciannove anni il marchese di Busto Garolfo era rimasto orfano del padre Carlo. Nel 1816 era così diventato l’unico erede di un ingente patrimonio che comprendeva immobili a Milano, Torino e Roma, oltre a varie tenute nella Lombardia austriaca e nel Piemonte sabaudo. Il marchese – Peppino per i familiari più stretti – era anche conte di Cassolo, vivace borgo della Lomellina al confine con la Lombardia.

    Il fiume Ticino, che scorreva a poche centinaia di metri dal paese, rappresentava una barriera non solo naturale, ma anche politica e amministrativa fra il

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