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La Contessa nera: Lomellina, 1921
La Contessa nera: Lomellina, 1921
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E-book127 pagine1 ora

La Contessa nera: Lomellina, 1921

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Info su questo ebook

Giulia Mattavelli è l’eroina nera della Lomellina, terra di risaie, di braccianti e di agrari. Nel 1921 la spietata e intrigante seduttrice di ras fascisti guida le squadre d’azione al fianco del suo convivente, il conte Cesare Carminati di Brambilla. Le basi si trovano nel castello e nella cascina Cerino di Semiana. Il 22 luglio un giovane squadrista, Ettore Casiraghi, è assassinato fra le mura del castello. Il maresciallo dei carabinieri di Mede, Angelo Pesenti, avvia le indagini in un clima avvelenato dalle violenze squadriste. Lo affianca il brigadiere Carlo Massobrio. Nella vicenda, che tocca anche le cittadine di Mortara e di Mede, si stagliano le figure del ras fascista Cesare Forni, del giornalista Carlo Cordara e del sindacalista Paolo Moro. Senza dimenticare Benito Mussolini.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2014
ISBN9788875639761
La Contessa nera: Lomellina, 1921

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    Anteprima del libro

    La Contessa nera - Umberto De Agostino

    Capitolo I

    Marito e moglie uscirono salutando i vicini, Cesare e Teresa, sulla porta di casa.

    «Allora, vi volete muovere? Altrimenti iniziamo a mangiare e a ballare senza di voi!» li minacciò con un sorriso Pietro Ferrari.

    Il bracciante ventitreenne si era trasferito da Mede nella vicina Semiana dopo essersi unito in matrimonio con Erminia Zanacchi. Aveva trovato lavoro a Goido, minuscolo Comune fra Mede e Semiana, dove nell’autunno del 1920 i lavoratori, dopo aver fondato una cooperativa, avevano assunto la gestione delle cascine Borella e Rivezza. Il fatto aveva inquietato non poco i grandi fittabili della zona, sempre più travolti dal fiume in piena di colore scarlatto chiamato Partito socialista e alimentato da vari affluenti: leghe contadine riunite nella Federazione proletaria lomellina, cooperative, case del popolo, guardie rosse, ciclisti rossi.

    Nella torrida estate del 1921 i Ferrari condividevano con i Bringiotti la coraggiosa esperienza delle nozze celebrate solo davanti al sindaco: un mezzo scandalo per il borgo stretto fra Mede, Lomello e Valle. Non solo il parroco, don Paolo Mazzini, e i suoi collaboratori avevano fatto indebite pressioni affinché il matrimonio si tenesse nella chiesa dedicata ai santi Ippolito e Cassiano, ma anche il proprietario della cascina Vallone, dove allora abitava la sposa, era intervenuto per impedire a tutti i costi il rito in forma civile.

    Quel 4 giugno, un sabato incastonato nella stagione della monda dei risi, la giovane portava in mano una torta di ciliegie appena sfornata, lui una bottiglia di vino rosso. Alle sette e mezza di sera il sole sembrava non voler tramontare al di là della Sesia, tortuoso confine d’acqua fra Lomellina e Monferrato. Lungo la strada per Sartirana Lomellina un gruppo di adolescenti si attardava saltando la cavallina contro il muro di Carlo Camussone. Il piccolo Martino Venegoni, prima di spiccare il salto, urlò a squarciagola la formula di rito: «Són al prim a sältà al sigìn¹».

    Lì accanto passarono gli sposi. «Non mi è ancora entrato in testa, dopo un anno di vita sotto lo stesso tetto, perché vai pazzo per il Sangue di Giuda» lo ammonì Erminia cercando di dissimulare l’inquietudine provocatale dalla vista del castello.

    «Ma ogni volta ti devo ricordare che mio fratello Ambrogio ha un aggancio giusto con un vignaiolo di Broni?» rispose Pietro gettando l’occhio sulle due camicie nere che piantonavano pigramente l’ingresso del castello affacciato su via Vittorio Emanuele II. «E poi mi pare che vada benissimo per l’occasione di questa sera: è un vino da bersi con dolci a base di frutta fresca» aggiunse il bracciante cingendo affettuosamente la spalla della moglie.

    «Sì, l’aggancio giusto...» lo riprese Erminia alzando le sopracciglia con fare sornione. «Faresti meglio a dirmi, una volta per tutte, che l’Ambrös se la fa con una ragazza di quelle parti. Sono ormai tre stagioni che la Giannina è chiamata per la monda alla cascina Ragnera di Mede. O tieni proprio tua moglie per una scema?».

    I due sposini erano la colonna portante della Compagnia filodrammatica semianese, che il 22 gennaio precedente aveva debuttato sul palco della casa del popolo con il dramma sociale Per la vita, seguìto da uno scherzo comico in un atto. La travolgente passione per il teatro si coniugava con il sincero desiderio di elevarsi al di sopra delle meschinità quotidiane, del pane che mancava dalla tavola un giorno sì e uno no. Il piccolo ma accogliente tempio di questa cultura ruspante e amatoriale, tanto sbeffeggiata dai benestanti, era la casa del popolo, inaugurata sul finire del 1919 a prezzo di enormi sacrifici.

    All’angolo del luogo di ritrovo dei lavoratori Ferrari incrociò gli amici Giuseppe Garini e Francesco Torti. L’espressione sui loro volti era di velata mestizia, lo sguardo basso e remissivo.

    «Ueilà, che cos’è quest’aria da funerale?» sdrammatizzò il giovane con la consueta bonomia lasciando entrare la moglie nel salone della casa del popolo. «Stasera dobbiamo cercare di divertirci e di buttarci alle spalle la tristezza e le magagne di tutti i giorni».

    «Ma quale divertimento, Pietro! Non vedi come siamo ridotti da quando gli squadristi fanno il bello e il cattivo tempo?» replicò Garini indicando timidamente il castello con la mano. «Sai anche tu che scherzo hanno combinato ad Antonio Conti: quelle furie nere sono entrate in casa per bastonare il nostro compagno, che per salvarsi è saltato dalla finestra del secondo piano. A detta del medico, il Conti ha riportato lesioni interne talmente gravi che lo condurranno alla morte nel giro di pochi mesi».

    «Non dovete pensare che io me ne freghi di quanto accade nel nostro paese e in tutta la Lomellina» precisò a sua volta prendendoli da parte. «Dico, al contrario, che dobbiamo farci forza e reagire in qualche modo a questa violenza quotidiana. Guardate che cosa mi sono andato a rileggere stamattina».

    Estrasse dal taschino del gilet una pagina del Proletario, il settimanale delle leghe contadine di Mortara. Alla vista del numero dell’8 aprile precedente gli amici si allarmarono. «Ma sei tutto suonato? Se ti beccano con questo in mano rischi una raffica di randellate da quei brutti musi vestiti di nero e con il fez rosso in testa!».

    «Calma, se non vi agitate e mi coprite non succederà nulla» li rassicurò. «Vi leggo solamente poche righe a bassa voce. Le scorrerie fasciste servono magnificamente alla propaganda socialista. In tutti i paesi visitati dai novelli terroristi, i quali vi hanno seminato i segni più evidenti della loro civiltà, si nota un sensibile cambiamento dell’opinione pubblica a nostro vantaggio. Avete capito in che mani siamo? I dirigenti socialisti di Mortara sputano addosso alla borghesia, madre naturale del fascismo, ma poi predicano la resistenza passiva. È un suicidio bell’e buono!».

    «A parte che non siamo nella sede adatta per questo tipo di discorsi, ma che cosa vorresti?» s’inalberò Torti, che fino ad allora era rimasto in silenzio. «Te la senti di finire come quei giovani comunisti? Come quel Lombardi di Mortara, che si farà senz’altro qualche anno di carcere per l’omicidio del fittabile Magni di Castellaro de’ Giorgi, o quello studente universitario di Pavia? Come si chiamava?».

    «Ferruccio Ghinaglia. Lo so benissimo come si chiamava» rispose secco Ferrari.

    «Ecco, bravo, Ghinaglia. Ucciso il 21 aprile scorso in un agguato fascista a Pavia, mentre andava alla riunione dei soci di una cooperativa, in Borgo Ticino. E tu sei ancora qui a inneggiare alla Terza internazionale, ai soviet e alla Russia bolscevica!».

    «Va bene, questo è un argomento troppo complicato da farsi per strada e, soprattutto, sotto gli occhi di quelle belve» tagliò corto Ferrari.

    «Adesso, Pietro, entriamo e godiamoci questa serata» suggerì Torti. «E ricordiamoci con quanto sudore e con quanta fatica è stata costruita questa casa del popolo».

    Nell’estate del 1919 i proletari di Semiana avevano cercato di acquistare un pezzo di terra su cui costruire la struttura combattendo a più riprese contro gli avversari del mondo vecchio. Avevano individuato un terreno, ma il proprietario, prima di acconsentire alla richiesta della lega di miglioramento contadina, aveva dovuto interpellare il figlio. Per poi dirsi non interessato.

    I braccianti si erano rivolti ad altri proprietari ricevendo risposte evasive e inconcludenti: secondo i socialisti, i possidenti avevano cercato di corrompere Francesco Chiaramella, che aveva concesso uno stabile da adibire temporaneamente a casa del popolo. Poi la situazione si era sbloccata e una parte dei soldi – trecentosessanta lire – era affluita addirittura da un gruppo di braccianti semianesi emigrati a Milano. In paese, al contrario, alcuni lavoratori avevano, queste le parole del Proletario, tirato la coda fra le gambe senza sganciare un centesimo.

    Ora, in quel 1921 di terrore e di morte, lo spazio di ritrovo popolare rappresentava la preda più ambita dalle squadre del conte Cesare Carminati di Brambilla e della sua convivente, Giulia Mattavelli. Amante della vita allegra e licenziosa, sempre pronta a mettersi in bella mostra, la contessa era andata su tutte le furie quando aveva saputo che la casa del popolo avrebbe ospitato una serata proletaria. Aveva intimato a Ettore Casiraghi, squadrista milanese di venticinque anni, di richiedere la sala per una festa patriottica da tenersi la sera del 4 giugno.

    Vai da quel cane lurido di Siro Torti e ordina di cedermi la casa del popolo aveva ringhiato la mattina del giorno precedente. Un secondo dopo, con fare camaleontico, si era portata alle sue spalle sussurrandogli: E non dimenticare di essere convincente. Lo squadrista, prima di uscire dalla sala del pianterreno del castello, si era girato rivolgendole un sorriso ammiccante.

    Il consiglio direttivo, malgrado le pesanti minacce della camicia nera, aveva negato il salone e la casa del popolo era divenuta il principale bersaglio della violenza squadrista, il simbolo dell’estrema resistenza rossa da demolire senza pietà.

    Di fronte all’ostinato rifiuto, i fascisti avevano deciso di entrare in azione verso le undici di sera del 3 giugno. Avevano sfondato la porta della casa del popolo, che a quell’ora era deserta, penetrando all’interno. Avevano rotto quadri e spaccato circa quattrocento bottiglie di

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