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La moneta infame: Intrighi e delitti nella Genova del '600
La moneta infame: Intrighi e delitti nella Genova del '600
La moneta infame: Intrighi e delitti nella Genova del '600
E-book354 pagine5 ore

La moneta infame: Intrighi e delitti nella Genova del '600

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Info su questo ebook

Martedì 20 marzo 1685, notte di plenilunio: una finestra spalancata, un corpo che vola giù, nella strada deserta. Un cadavere che stringe tra le mani una moneta.
Disgrazia? Suicidio? Omicidio?
Diego e Ferdinando Ponce de León, nuovamente a Genova al seguito dell’ambasciatore di Spagna, si ritrovano coinvolti, loro malgrado, in un nuovo affaire dai risvolti inaspettati. Infatti, partendo proprio dalla moneta stretta tra le dita della vittima, si dipana un’indagine molto più complessa del previsto: nuovi morti ammazzati, traffici illeciti, veleni, frati stravaganti, alchimisti, mercanti di schiavi, puttane e altri personaggi si susseguono a complicare la vita dei due fratelli.
Su e giù per le crêuze di Genova, qualche puntata al di là dell’Appennino, ai confini della Repubblica, un viaggio a Venezia e, finalmente, viene individuato il misterioso filo che collega gli strani indizi.
Così, tra colpi di scena e imprevedibili capovolgimenti di situazioni (nessuno è quello che appare!) il romanzo si risolve con un epilogo inaspettato anche per i Ponce de León.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2013
ISBN9788875638559
La moneta infame: Intrighi e delitti nella Genova del '600

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    Anteprima del libro

    La moneta infame - Gian Carlo Ragni

    Cop_13042_moneta.jpg

    I tascabili

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    editing

    Daniele Lara

    progetto grafico e impaginazione

    Raoul Gazza

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    isbn 978-88-7563-855-9

    Gian Carlo Ragni

    La moneta infame

    Intrighi e delitti nella Genova del ’600

    LogoFratelliFrilliEditori.JPG

    Fratelli Frilli Editori

    A Giusy

    mia insostituibile complice

    con infinito amore

    Le tracce di molti delitti conducono al futuro

    Stanislaw J.Lec

    Prologo

    Bombardamento di Genova del 1684 – Incisione di J.K.D. Van Beecq.

    Forse percorsero l’ultimo tratto di strada assieme, magari per miglia e miglia le loro carrozze avevano viaggiato affiancate oppure, alla posta alle porte di Aubagne, i cocchieri cambiarono i cavalli ormai stremati nello stesso momento. Forse no, ma sarebbe divertente immaginare quell’incontro che, in realtà, anche fosse avvenuto, non avrebbe prodotto alcun effetto: non si conoscevano, o meglio il mansueto doge Lercari conosceva solo di fama i due Ponce de León: infatti, quando grazie a loro venne arrestato l’esponente di una famiglia genovese di alto rango con l’accusa di aver assassinato il compositore Alessandro Stradella, ebbe a commentare: "Cöse gh’àn da rompì e cugge queli dui de Spagna?"[1]

    Fatto sta che, alla fine del febbraio 1685, i fratelli Diego e Ferdinando Ponce de León e il Doge Francesco Imperiale Lercari rientrarono a Genova negli stessi giorni. I due fratelli spagnoli avevano lasciato avventurosamente la Repubblica due anni prima, dopo aver smascherato il nobile assassino e aver subito una serie di ingiustizie e vendette. Ma ora vi ritornavano, ben felici di rivedere persone amiche (in verità non molte). Era stata la loro famiglia a mandarli a Genova al seguito dello zio marchese de la Cueva, ambasciatore di Spagna, per avviarli alla carriera diplomatica. Ma il loro ruolo non era quello di semplici attaché d’ambasciata: avevano anche ricevuto dal loro padre Juan Sebastian, conte di Larida, l’incarico di occuparsi delle materie prime per i cantieri navali di famiglia. Il viaggio verso Genova per Diego e Ferdinando fu allegro, spensierato e piacevole, anche grazie ai numerosi incontri con generose fanciulle. Rientravano nella Superba volentieri, ben decisi a non cacciarsi in altri guai. Almeno così si ripromettevano.

    Al contrario, il ritorno del Doge da Versailles in compagnia di quattro Senatori fu decisamente mesto. Tornava da sconfitto, sotto il peso dell’umiliazione per le scuse che aveva dovuto chiedere a Luigi XIV, ferito nelle finanze non solo perché doveva restituire centomila scudi ai Fieschi ma, umiliazione delle umiliazioni, pagare ai sudditi francesi le tredicimila bombe che avevano distrutto mezza Genova! Se è vero che, quando gli venne chiesto quale evento l’avesse più colpito ritrovandosi nella reggia del re di Francia, rispose: "Dê esseghê mi!",[2] è pur vero che gli ultimi mesi del suo mandato furono all’insegna della vergogna e dell’umiliazione per quella dolorosa sconfitta.

    Eppure il doge di una piccola ma superba repubblica aveva resistito a lungo al prepotente re di un grande regno. Infatti, da tempo Luigi XIV cercava ogni pretesto per agire contro Genova, forse per vendicarsi degli aiuti che la Repubblica aveva prestato all’Austria o, ancor più, per affermare il proprio potere su quella città che, per le grandi ricchezze e la posizione strategica, da sempre gli faceva gola. Continui e talvolta stravaganti erano stati i pretesti per muovere guerra alla Repubblica: dall’accusa di aver armato una nave olandese al mancato saluto da parte delle artiglierie genovesi alle navi francesi, fino all’onerosa richiesta di restituire ai Fieschi i beni confiscati. Il Re Sole arrivò addirittura al punto di inviare in città, come ambasciatore, il marchese di Sant’Olon, con la funzione di provocatore. E il casus belli infine si presentò quando la Repubblica armò quattro galee, (le galee della libertà) con uomini liberi ai remi, stipendiati e non più schiavi: precedente pericolosissimo agli occhi di Luigi XIV che, con la ripresa della persecuzione contro i Protestanti, si era ritrovato migliaia e migliaia di prigionieri ai remi delle galee in forza di un decreto che consentiva di ridurre in tale stato chiunque predicasse o ascoltasse un sermone protestante. La richiesta fu perentoria: entro cinque ore Genova doveva consegnare le quattro galee e inviare quattro Senatori a Versailles a domandare perdono per lo sgarbo e promettere ubbidienza alla Francia, altrimenti la città sarebbe stata bombardata. E, purtroppo, così fu: dal 18 maggio 1684, per quattro giorni, e poi il 28 maggio, la flotta di quattordici vascelli, tre fregate, venti galee e dieci calandre, comandata dal marchese Jean-Baptiste Colbert de Seignelay lanciò sulla città tredicimila bombe che causarono morti e distruzioni.

    Dai tragici bombardamenti erano passati pochi mesi e la Genova che trovarono Diego e Ferdinando era profondamente ferita: macerie e distruzione ovunque. Alcune zone, come Sarzano, Banchi, Castello e S. Andrea, erano state gravemente danneggiate.

    [1] Cos’hanno da rompere i coglioni quei due Spagnoli?.

    [2] Di trovarmici io!.

    Personaggi principali

    Diego Ponce de León

    Nobile di Spagna, investigatore per caso.

    Ferdinando Ponce de León

    Nobile di Spagna, investigatore suo malgrado.

    Giovanni Battista Lomellini detto Bacciotto

    Aristocratico genovese.

    Letizia Gambaro in Lomellini

    Moglie di Giovanni Battista e madre di Orsola.

    Francisca Lomellini in Garibaldo

    Sorella di Giovanni Battista.

    Orsola Lomellini in Fantini

    Figlia di Giovanni Battista e di Letizia.

    Alberto Garibaldo

    Avvocato e marito di Francisca.

    Pier Luigi Minozzi

    Giudice della Rota Criminale.

    A palazzo Fantini

    Giorgio Fantini, imprenditore e marito di Orsola Lomellini.

    Rosanna, serva di casa e confidente di Orsola.

    Delfina, serva anziana di casa.

    A Villa Gambaro

    Annetta Giustiniano in Gambaro, nonna di Orsola Lomellini.

    Filippo Gambaro, marito di Annetta.

    A Gavi

    Padre Agostino, frate.

    Martino Raviolo, taverniere.

    A Parodi, avamposto della Repubblica

    Anselmo Guidolfi, zecchiere.

    A Venezia Murano

    Daniele Mula, maestro vetraio.

    Michele Florin, maestro vetraio.

    Paolino, operaio delle vetrerie Grimani.

    Nel Ghetto Vecchio

    Àlvaro Araújo, avventuriero portoghese.

    Lisetta, una puttana.

    Giorgina, figlia di Lisetta.

    A palazzo de Mari

    Antonio de la Cueva, ambasciatore di Spagna presso la Repubblica di Genova.

    Isabel Ria de Ribadeo, moglie della ambasciatore e zia dei fratelli Ponce de León.

    In Tribunale

    Adalberto Pareto, giudice.

    Osvaldo Pastorino, cancelliere.

    Brando Senàrega, avvocato.

    Cosimo Alinghieri, giudice accusatore.

    Inoltre...

    Giovanni Megalotti detto Barabba.

    Galal Jabir ibn Hayyan, alchimista e dotto egiziano.

    Donna Beatrice Ratti.

    Teresa Pallavicino, una pettegola.

    Padre Prospero, La linguaccia di Dio, confessore dell’aristocrazia genovese.

    Luigi, marinaio di Villa Gambaro.

    Vito, merdaiolo di Villa Gambaro.

    I piccoli Nicola e Giorgina.

    Con la partecipazione straordinaria di

    Carlo II di Castiglia e di Aragona, Re di Spagna.

    Maria Luisa d’Orléans, moglie di Carlo II.

    Francesco Maria Lercari, Doge della Repubblica di Genova.

    Innocenzo XI, papa.

    Stefano Agostani, cardinale.

    Giulio Vincenzo Gentile, cardinale.

    Teatro dell’azione

    Repubblica di Genova, 1685.

    CAPITOLO PRIMO

    Quella notte del 20 marzo 1685, una finestra illuminata

    La finestra illuminata

    Quella notte di marzo del 1685, gli ormeggi dei vascelli sbatacchiati dalle raffiche di vento erano stati rinforzati, ma il percuotere ritmico del cordame e il tintinnio delle campane di bordo agitate dallo scirocco aggravavano il senso di oppressione e nervosismo che per tutto il giorno aveva aleggiato nell’aria creando, senza alcun motivo che la giustificasse, la sgradevole sensazione che stesse per accadere qualche cosa. Nelle taverne del porto le risse si accendevano per un nonnulla: un’occhiata non gradita, una parola sgarbata, il contendersi una prostituta, un punto rubato a picchetto.[1]

    La sottile, palpabile inquietudine sembrava aver contagiato anche gli animali: i cani mugolavano, cercandosi da cortile a cortile, i cavalli scalciavano nelle stalle nitrendo rabbiosi e i gatti ostentavano i loro amori frignando più del solito. Ma forse tutto ciò è normale quando il vento carico di umidità soffia dal mare per giorni e giorni e avvolge la città in una cappa vischiosa che appesantisce le gambe ed eccita le menti.

    Quella notte c’era il plenilunio, e il freddo bagliore esaltava i contorni dei ricchi palazzi di stradone Sant’Agostino che si alternavano, fortunati sopravvissuti, alle rovine degli edifici distrutti dai rabbiosi bombardamenti francesi dell’anno prima. Tra questi, palazzo Fantini si distingueva per l’imponente facciata e per le due cariatidi di candido marmo che spiccavano abbaglianti al chiarore lunare.

    Chi vive a Genova sa quanto il vento di marzo sia incostante. Soffia che sembra voler strappare le velature delle navi, per calmarsi improvvisamente e tornare, dopo pochi minuti, a ruggire rabbioso. E proprio una di queste calme aveva adagiato pigramente alcuni nuvoloni sulla luna fino a coprirla del tutto, gettando la via nell’oscurità. L’unica luce, al terzo piano, proveniva dalla finestra della camera di Giorgio Fantini. Elegante nella sua vestaglia nera, tutte le sere, prima di coricarsi, vergava con scrittura minuta, ordinata, inclinata leggermente verso sinistra, gli appunti di ciò che avrebbe dovuto fare il giorno successivo. E, come testimoniavano le molte impronte circolari lasciate dalla tazza sul tavolo, era sua abitudine sorseggiare un decotto di tiglio e biancospino per prepararsi al sonno. Appena una vigorosa folata, per non smentire la volubilità del vento marzolino, liberò il cielo dalle nubi, rischiarando nuovamente stradone Sant’Agostino, la finestra illuminata si spalancò di colpo e le tende, strapazzate dalla corrente, svolazzarono rumoreggiando come vele al bando. Allora, sotto la finestra, nella via, apparvero chiaramente i contorni di un grosso, indefinibile involucro, appoggiato mollemente al muro.

    Due giovani scaricatori, con l’incedere ondeggiante tipico di chi è avvezzo a muoversi con scioltezza sulle navi, stavano discendendo verso il porto di buon’ora, in tempo per la chiamata, quando il più basso si fermò di colpo.

    – Ehi, guarda, un sacco!

    – Ma lascia perdere, ti porto io dove ce ne sono quanti ne vuoi! Ci manca ancora avere dei sacchi tra i piedi anche qui, ma lo sai, Nanni, quanti ce ne toccano oggi? Grano, oggi ci toccano almeno mille sacchi di grano! Via, via, andiamo a lavorare, lasciamo perdere!

    Nanni, non convinto dalle parole dell’amico, nella speranza di trovare qualche cosa di prezioso o perlomeno di utile, si avvicinò, per arretrare di colpo, terrorizzato: quel sacco non era altro che il corpo di Giorgio Fantini. Morto.

    Giovanni Battista Lomellini, per tutti Bacciotto

    Lo sfortunato servo entrò nella camera, preceduto dalla corona luminosa della lampada che reggeva trepidante, terrorizzato solo all’idea di dover svegliare il suo tirannico padrone. Ad ogni passo, l’alone di luce avanzava e ad ogni passo si svelava la vastità della stanza, al cui interno il monumentale letto dorato a baldacchino sembrava piccolo piccolo e gli enormi dipinti appesi alle pareti damascate apparivano semplici quadretti.

    – Marchese, signor marchese...

    Niente. Il marchese ronfava come un mantice, sollevando ritmicamente la coperta.

    – Padrone...

    Un attimo di smarrimento, una specie di ruggito mescolato a un ribollir di schiuma e Giovanni Battista Lomellini si voltò minaccioso verso l’innocente servo.

    – Bastardo, cosa vuoi? Come ti permetti di svegliarmi nel cuore della notte?

    E per non smentire la pessima fama di cui godeva tra la servitù, cominciò a sbraitare minaccioso.

    – Spera, prega, di avere una valida ragione per rompermi i coglioni! Forza parla... guarda che io ti strozzo...

    – Marchese, ci sarebbe...

    Lo sfortunato domestico inghiottì, assieme alla saliva, le parole.

    – Parla, maledetto! Ci sarebbe o c’è!?

    – C’è vostro cognato...

    Un colosso avvolto in uno smisurato camicione, scarmigliato, la barba rossa come quella di un orco, gli occhi cisposi, con inaspettata agilità si sedette sul letto. Confuso, stupito.

    – Mio cognato? A quest’ora? Ma è impazzito lui o tu stai farneticando!?

    Lo sventurato, che ormai si sentiva come uno schiavo pronto alle frustate, si allontanò un poco, con il pretesto di accendere un lume più grande.

    – Marchese... marchese...

    Ormai completamente sveglio, il gigante si avvicinò al servo sovrastandolo con la sua mole.

    – Marchese... marchese... marchese che? Parla o ti strappo la lingua!

    – Marchese, vostro cognato non è solo...

    Le ultime parole furono pronunciate sulla soglia, nella speranza di mettersi in salvo.

    – Lo accompagna il giudice Minozzi.

    Scalzo e arruffato, avvolto nel goffo camicione, attraversò l’arco che conduceva al salone con una tale irruenza che lo spostamento d’aria fece ondeggiare i pesanti tendoni. Tutti i lumi accesi. Le cameriere assonnate pronte a ricevere comandi. L’avvocato Garibaldo e il giudice Minozzi seduti l’uno accanto all’altro.

    – No, no, non alzatevi, non perdiamo tempo in saluti, giustificate la vostra presenza, fatemi capire perché a quest’ora; così possiamo tornare a letto!

    – Giovanni Battista, siediti, è meglio.

    Alberto Garibaldo, pur non sopportando l’arroganza del cognato, cercava di rimanere tranquillo, disponibile.

    – Giovanni Battista, dammi retta, cerca di stare calmo... siediti! Devi essere il primo a sapere...

    Ignorando il consiglio, il marchese cominciò a spostarsi come una belva in gabbia da un angolo all’altro del salone, fino a quando, fermandosi di colpo, forse ripensando alle ultime parole del cognato, di scatto si girò sui talloni come una furia.

    – Aspetta... aspetta! Cosa hai detto? Sapere cosa?

    – Giovanni Battista, calmati e ascoltami...

    Minozzi, che era rimasto zitto, rannicchiato e pensieroso nella poltrona, si alzò lentamente e, aggiustandosi lo sbuffo della camicia, si portò accanto al Lomellini, fissandolo negli occhi ma rivolgendosi al Garibaldo.

    – Ma cosa sono queste attenzioni, queste gentilezze? Perché tanti riguardi per un individuo come lui?

    – Lasciate stare... parlo io...

    Di fronte alla tranquilla e cortese risposta dell’avvocato, il giudice tornò a sedere:

    – Giorgio è morto.

    La frase, pronunciata tutta d’un fiato dal cognato, ebbe l’effetto di rintuzzare la boria del marchese che, forse pensando alla figlia Orsola appena rimasta vedova, si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, sollevando un nembo di polvere.

    – Ma come, come è successo?

    – Si è gettato dalla finestra, l’hanno trovato due giovani poco fa...

    Lo scoramento durò il tempo di un battito di ciglia. Giovanni Battista, ritrovando la solita alterigia, sollevò la sua mole per avvicinarsi al marito della sorella.

    – Giorgio è morto e, diciamo così... mi dispiace, ma dimmi un po’, quel Minozzi cosa c’entra, perché non è rimasto a dormire? Vuole forse partecipare al nostro dolore, dolore che dovrebbe essere anche tuo, visto che Giorgio Fantini era sposato con tua nipote!?!

    Minozzi, cercando di mantenersi calmo, cominciò a girare attorno al padrone di casa, fissandolo con la stessa espressione con cui si guarderebbe un criminale.

    – A che ora vi siete coricato? Chi c’era con voi? – sempre più incalzante – Qualcuno può testimoniare che non avete lasciato il palazzo questa notte?

    – Alberto, cos’è questa storia? Ma qualcuno pensa che io abbia ucciso Giorgio Fantini?

    I primi bagliori dell’alba filtravano dalla finestra, lasciando intravedere il biancheggiare del mare, gonfiato da quel vento che stava invischiando tutto e tutti in una cappa d’angoscia. Anche il marchese Giovanni Battista Lomellini detto Bacciotto.

    La premurosa Claudina, l’ancella preferita, l’unica che il padrone di casa trattava con garbo per la grazia e la gentilezza con cui si presentava in ogni occasione, fece il suo ingresso nel salone con passo leggero, silenzioso, quasi non toccasse suolo. Con la garbata volontà di stemperare una situazione che stava prendendo una piega pericolosa, entrò reggendo un grande vassoio con tre tazze di latte fumante e una montagna di biscotti. Lo posò sul tavolino dinanzi al divano, con un sorriso che illuminò il volto sbarazzino spruzzato di efelidi e, per qualche attimo, i presenti si rallegrarono mostrando di gradire il dolce pensiero.

    Mentre le parole tacevano, sostituite solamente dal crocchiare dei biscotti addentati con avidità, Bacciotto, la tazza sospesa a mezz’aria, lo sguardo assente, si ritrovò la mente attraversata da un turbinio di pensieri.

    Mentre gli altri bevevano il latte, prese coscienza del suo disagio. Come un suono, un profumo, una voce possono evocare dolci ricordi, così, alla presenza dell’avvocato Garibaldo e del giudice Minozzi, Bacciotto si raggelò, ebbe un tuffo al cuore e le gambe gli cedettero per la paura. Lo mascherò bene. Come sua abitudine quando si sentiva in difficoltà, aggredì con la speranza di avere la supremazia su tutti e tutto. Come sempre, sfoggiò prepotenza, aiutato dalla mole massiccia e dal vocione tonante, le sue armi preferite per mascherare le insicurezze e per dissimulare le debolezze.

    Mentre gli altri bevevano il latte, Bacciotto rivisse l’arresto e il processo che l’avevano visto coinvolto tre anni prima, accusato di aver assassinato, oltre al musicista Alessandro Stradella, una sua amante e scomoda testimone.

    Mentre gli altri bevevano il latte, a Bacciotto tornò alla mente il momento in cui sua sorella Francisca rivelò di essere innamorata di Alberto Garibaldo. Ricordò il disprezzo che provava per lui! Disprezzo che derivava dalle origini borghesi della schiatta dei Garibaldo, ricchi sì, molto ricchi, ma privi di quel blasone che permettesse di non diluire i quattro quarti di nobiltà dei Lomellini con sangue borghese. La povera Francisca soffrì a lungo prima di poter sposare il suo amato: venne segregata in casa, addirittura minacciata di finire in un convento di clausura. Non passava giorno che non dovesse sopportare i rimbrotti del fratello, non passava giorno che non venisse condotta nella galleria dove facevano spicco gli austeri ritratti degli antenati.

    – Alza gli occhi, guarda quei ritratti! Li vedi? Fissateli bene in mente, non devi dimenticarli mai! ...Mai e poi mai! Ecco lì Giannotto: doge! Giacomo: doge! Gioffredo: cardinale...! E poi Leonardo... e poi Marc’Aurelio... condottiero in Terra Santa! Nostro fratello Domenico, maritato con Carlotta Spinola, Baldassarre con Marta Pinelli, io con Letizia Gambaro, Spinola... Gambaro... Pinelli, quanta nobiltà... quanto potere!

    E tu con chi ti vuoi sposare? Con quel Garibaldo... Dimenticalo! Mai e poi mai autorizzerò simili nefaste nozze! Ora in famiglia comando io e non mi convincerai di certo con le tue lacrime o i tuoi digiuni!

    E Bacciotto fu di parola: né le lacrime né i digiuni di Francisca valsero a convincerlo... ma i debiti sì. Proprio così: i debiti. Dopo la morte del padre Nicola Maria, l’amministrazione dei beni di famiglia era passata di diritto nelle sue mani, in quanto primogenito, ma le ingenti ricchezze lasciate a languire nei forzieri ben presto si assottigliarono ed ecco che, in nome dell’abusato e cinico pecunia non olet, Alberto Garibaldo tornava utile.

    E non puzzava di certo!

    Quel giorno di ottobre del 1674, esattamente il dodici, mentre per i Genovesi fu una giornata nefasta a causa dell’alluvione che devastò mezza città, per Francisca fu un’inattesa giornata di gioia. Anzi, avrebbe potuto esserlo, se non ci si fosse messa di mezzo la canna fumaria che poneva in comunicazione l’imponente camino in marmo del salone con quello del suo appartamento. Così, pur non volendolo, ascoltò la tumultuosa discussione tra i suoi più ragionevoli fratelli e Bacciotto, e la capitolazione finale del testardo capofamiglia sulle sue nozze.

    Mentre Bacciotto, senza guardarla negli occhi, con l’aria di un cane bastonato ma con la solita voce stentorea, dava il tanto atteso annuncio, Puoi sposare quel Garibaldo, ma sappi che né io né i tuoi fratelli accettiamo questa decisione a cuor leggero!, nelle orecchie di Francisca rimbombavano altre parole, quelle udite attraverso il camino, parole grevi, parole mescolate alla fuliggine dell’arroganza. Va bene, va bene, i soldi dei Garibaldo ci servono... ci consentono di onorare i nostri debiti, ma vi rendete conto di quale errore commettiamo permettendo questo matrimonio? Avete capito che ci stiamo imbastardendo?... Alberto Garibaldo, uno del popolo... un parassita che vive del grasso che cola dal nostro prestigio, dalla nostra storia! Un avvocato... gli avvocati... gli scrivani... i notai, sono sempre pronti a sopraffarci, sono pronti ad alzare la cresta per quei due soldi che hanno accumulato! Questi borghesi ci odiano! Odiano il nostro passato, odiano i nostri antenati! Un avvocato, un notaio, un mercante, che avi possono avere? Contadini abituati a spargere letame o facchini, o servi... o, forse, pirati! E voi mi dite che dobbiamo accettare?!".

    – Francisca, mi detesti un po’ meno? Sei contenta di poter sposare il tuo amore?

    Chissà con quale fatica un insolitamente dolce Bacciotto si chinò per deporre un bacio sulla fronte della sorella.

    – Certo Giovanni Battista, certo, grazie.

    Mentre gli altri bevevano, Bacciotto rivide le nozze della sorella, che erano state celebrate poco dopo, a gennaio, nella cappella gentilizia di palazzo Lomellini.

    Stupenda la giovane sposa, bellissimo lo sposo: certamente più simile, nella sua austera eleganza, a un principe che a un semplice borghese! Grande fasto, tutta la nobiltà schierata: i Giustiniani, con la vecchia Pieretta, paralitica, portata in braccio dai servi, i Grillo Sopranis, i Durazzo i... insomma, tutti i grandi nomi della Repubblica, e ancora gli ambasciatori, e il Cardinale Giulio Vincenzo Gentile con il suo seguito. Banchetto indimenticabile, spettacolo pirotecnico, sguardi taglienti, commenti acidi, invidie. I debiti dei Lomellini furono appianati. Tutti i rancori si acquietarono, o, meglio, le apparenze furono salve: Bacciotto non smise di odiare il cognato, ma in pubblico il loro rapporto appariva perfetto. Il battesimo di Enrichetta, nata a novembre, fu la seconda apparizione pubblica della famiglia Lomellini al completo. I commenti furono unanimi: che bella famiglia, che piacere vedere tanto accordo e tanto amore tra fratelli, suoceri e cognati!

    L’amore sincero e intenso che univa Francisca e Alberto non venne neppure scalfito quando, otto anni dopo, voci anonime misero in giro la malevola diceria che la giovane tradisse il marito con un affascinante compositore e musicista, Alessandro Stradella, chiamato a palazzo Garibaldo per educare la piccola Enrichetta alla musica. Ma le voci vennero ben presto messe a tacere.

    Il presunto amante morì assassinato in piazza dei Banchi all’alba del primo marzo del 1682, e di quel delitto venne accusato proprio Bacciotto che, arrestato e rinchiuso nelle segrete del palazzo Ducale, finì sotto processo.

    Quell’evento segnò la rivalsa del mansueto Alberto Garibaldo, che rappresentò con grande passione l’accusa. Grazie all’abilità della difesa, il processo prese una piega inaspettata: sul banco degli imputati non sedeva più un presunto assassino, ma la borghesia nel suo insieme. E in quel dibattimento, trasformato in un violento scontro tra aristocratici e non, il giudice fu, per un certo periodo di tempo, Pier Luigi Minozzi.

    Bacciotto non bevve il latte, e la tazza, ancora piena, fu posata distrattamente sul vassoio. I suoi pensieri erano occupati dal ricordo del giudice Minozzi, dalla paura che quell’uomo gli incuteva con quel piglio così deciso, con quella fede tenace nel proprio ruolo... Veniva da una carriera accelerata dalla competenza e dalla serietà. La fama di magistrato equo e incorruttibile, un breve soggiorno a Tabarca per dirimere un contenzioso con il Bey di Tunisi e la reggenza della Podesteria di Voltri gli avevano consentito di approdare, appena trentenne, alla corte d’Assise.

    Lo odiò subito fin dalle prime parole: parole pronunciate con calma e determinazione all’apertura del processo ...e con l’autorità concessami dalla Serenissima Repubblica, sentito il pronunciamento della Pubblica Fama, oggi 3 giugno 1682, io, giudice Pier Luigi Minozzi, incrimino Giovanni Battista Lomellini, detto Bacciotto, per l’assassinio di Alessandro Stradella, cittadino di Roma, e ne ordino l’immediato arresto!. E così il conte Pier Luigi Minozzi, da stimato amministratore della giustizia, si ritrovò trattato come un traditore. Proprio così, un traditore della sua classe, della sua casta! Ma come si era permesso di rinviare a giudizio un marchese? E quando mai si è visto che un conte processa un marchese? A che serve allora il blasone?

    Quel processo fece ancora più scalpore quando un borghese, un disprezzato borghese come l’avvocato Garibaldo osò esprimere a voce alta un suo pensiero ...qui, in questo tribunale sono tutti nobili. L’imputato è un marchese, il suo avvocato è un altro marchese... il marchese Eginardo Corsini... sentite che nome... sentite come riempie la bocca! Anche voi, giudice, siete un conte. Io sono semplicemente un avvocato, non ho blasoni, ho un nome banale. Cosa potrà mai fare di importante un Alberto Garibaldo? Ma in una goccia del mio sangue borghese c’è più nobiltà che in tutto quello dell’imputato e del suo avvocato!.

    Per i rappresentanti del Doge, che seguivano il processo dietro grate nascoste da quadri, fu veramente troppo! Sì, d’accordo, Bacciotto era un mariolo, una testa calda che non perdeva occasione per ricordare che ...tra aristocratici, ci si capirà sempre! Ovunque parliamo la stessa lingua, abbiamo le stesse ambizioni... gli stessi nemici! Onoriamo i nostri blasoni... dobbiamo difenderli, proteggerli da quei borghesi che li vogliono cancellare!. Ma, secondo gli emissari del Doge, il conte Minozzi non poteva presiedere quel processo, non ne era all’altezza, era troppo fazioso: avrebbe certamente caldeggiato la condanna a morte del Lomellini, si capiva fin dai primi dibattimenti! Che fosse giusta quella condanna non aveva nessuna importanza: un Lomellini era sempre innocente! Sempre!! Sul banco degli imputati doveva salire la borghesia, tutta la borghesia, quella sì! Per darle una lezione e farle capire di non farsi illusioni, per costringerla ad abbassare la testa e non credere di potersi sostituire alla millenaria aristocrazia della Superba.

    La piega sulla fronte che induriva il volto del marchese Lomellini si distese al ricordo del minacciato trasferimento del conte Pier Luigi Minozzi in Corsica, con la tacita speranza che qualche lama indipendentista gli tagliasse la gola. Con soddisfazione Bacciotto ricordò il momento in cui capì che sarebbe stato assolto. Fu quando venne a sapere che il processo sarebbe stato condotto a termine da Agostino Saluzzo, un vecchio giudice imposto anni addietro proprio dalla sua famiglia.

    L’ovvia sentenza fu di assoluzione. E la reazione dell’illustre imputato più che mai baldanzosa. Festeggiato dagli amici, sancì la vittoria con un trionfale e insieme minaccioso brindisi: Miei cari amici, grazie per le vostre parole, il cuore mi si riempie di gioia al pensiero che potrò contare sempre su di voi, come voi potrete sempre contare su di me e sulla mia famiglia... ma la nostra giustizia non ha ancora trionfato del tutto... Abbiamo dimenticato mio cognato Alberto Garibaldo! E alzando il calice dico: e ora a noi due, cognato!.

    Vista crollare la fiducia nelle istituzioni, il giudice decise di esiliarsi volontariamente, accompagnato dalla devota moglie, a Leyda, in Olanda, terra di libertà dove le idee circolavano liberamente e potevano anche essere stampate senza incontrare alcuna censura. Nell’esilio olandese venne ben presto raggiunto dall’avvocato Alberto Garibaldo e dalla moglie Francisca Lomellini, fuggiti per eludere la vendetta di Bacciotto.[2]

    Garibaldo e Minozzi, terminata la colazione, richiamarono il marchese alla realtà e il cognato riuscì a essere persino premuroso.

    – Che cos’hai, sei pallido... silenzioso...

    Il senso di oppressione che aleggiava, quella notte, nell’aria dovette avere un effetto devastante su Bacciotto. Non lo diede a vedere, ma sarebbe stato interessante contare i battiti del cuore che sembrava sfuggirgli su per la gola.

    Ma è stato un suicidio?

    I funerali del giovane Fantini si svolsero all’alba del giorno seguente, nella chiesa dedicata a San Donato. Un’alba tenebrosa, scura. Il vento aveva smesso di soffiare e la cappa vischiosa aveva lasciato il posto alla pioggia, che non smise

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