Fermate i rivoltosi
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Anteprima del libro
Fermate i rivoltosi - Franco Gemelli
Franco Gemelli
Fermate i rivoltosi
Battitore libero
Titolo originale: Fermate i rivoltosi
© 2015 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea giugno 2014
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-493-6
I edizione e-book febbraio 2015
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-575-9
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Indice
Nota dell’Autore
I Congresso a Vienna
II Esilio all’isola d’Elba
III Ritorno a Fratta
IV Tempo di guerra
V Fuga da Fratta
VI Carbonari a Rovigo
VII Incontro a Parma
VIII La cospirazione
IX Banchetto carbonaro
X Festa all’Accademia
XI L’attentato
Epilogo
Bibliografia
I luoghi, i personaggi
L'Autore
A Maria Luisa.
Nota dell’Autore
Gli avvenimenti narrati in questo romanzo abbracciano un periodo piuttosto breve che va dall’autunno 1814 alla primavera 1819, un periodo però cruciale sia nella storia d’Italia sia nella più modesta e marginale storia della città di Rovigo.
All’indomani della Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna, l’Italia mostrava una configurazione politica frammentata in tanti Stati, quasi tutti sottoposti al dominio diretto o indiretto dell’Austria, una condizione che avrebbe dovuto garantire la pace per svariati anni. Rovigo, una città situata in quel lembo di terra delimitato dal Po e dall’Adige, dopo secoli di appartenenza alla Repubblica veneta, entrò a far parte di una nuova entità giuridica, il Lombardo-Veneto, un Vicereame legato alla corona asburgica attraverso il fratello dell’Imperatore, il viceré Ranieri. In questa città, tra la fine del 1818 e l’inizio del 1819, avvennero le prime repressioni nei confronti dei carbonari che vagheggiavano una patria italiana libera, unita e indipendente. L’anno successivo fu la volta di Silvio Pellico e Felice Confalonieri, arrestati a Milano e condannati allo stesso destino dei patrioti rodigini. Ma se tutti conosciamo le vicende di Pellico e Confalonieri, perché ampiamente riportate dai testi scolastici, ben pochi conoscono il sacrificio di Antonio Fortunato Oroboni e Cecilia Monti, misconosciuti perfino nei luoghi che hanno dato loro i natali. La ignorata primogenitura dei carbonari rodigini nei confronti di quelli milanesi ha svariate giustificazioni: le vicissitudini dei carbonari milanesi hanno avuto una vasta eco grazie a un memorialista eccezionale come Silvio Pellico che, nel suo libro Le mie Prigioni, lasciò ai contemporanei e ai posteri una formidabile testimonianza della sua detenzione; l’aristocrazia milanese ha sicuramente contribuito a fare da cassa di risonanza molto più rumorosa del modesto ambiente nobiliare polesano; infine la notorietà dei patrioti milanesi, che collaboravano al giornale Il Conciliatore, era già largamente diffusa rispetto agli sconosciuti cospiratori polesani.
Questo libro, che ha la pretesa di colmare una lacuna a causa della quale il martirio dei carbonari rodigini non ha avuto la sua legittima ribalta, è stato scritto sotto forma di romanzo storico: pertanto non sono riportati fatti nuovi degni di un saggio e frutto di una ricerca storiografica o archivistica. Il racconto è il risultato di immaginazione che però rispetta sia la reale successione degli avvenimenti che hanno caratterizzato quest’epoca sia le poche ma documentate notizie che si conoscono sui protagonisti. Sarà compito del lettore giudicare se la parte immaginata si fonda con i fatti tramandati da fonti accertate, creando una narrazione credibile. Se effettivamente il vero e il verosimile si confondono per formare un unico composito affresco, allora potrà essere stimolata la divulgazione di vicende, altrimenti destinate all’oblio, ma che hanno pur sempre contribuito a creare il nostro senso patrio.
E se la primogenitura dei miei illustri conterranei non sarà del tutto convincente, rimarrà in ogni caso il sentimento di riconoscenza per il loro sacrificio che ha anticipato il glorioso Risorgimento italiano.
Franco Gemelli
I
Congresso a Vienna
Nell’ottobre del 1815 Vienna era una capitale in fibrillazione. Era imminente l’inaugurazione del Congresso che doveva ridisegnare l’assetto politico-istituzionale dell’intera Europa, sconvolta dalle scorrerie degli eserciti napoleonici, e pertanto la presenza di sovrani, ministri, alti dignitari di corte, scorte, agenti segreti e informatori aveva sovvertito l’abituale vita ordinata della città. I viennesi tolleravano di buon grado il via vai di carrozze con scorta al seguito che incontravano lungo i viali del Prater, nei pressi della Hofburg o del Palazzo di Schönbrunn, ben consapevoli che stavano ospitando un evento storico di portata straordinaria. D’altra parte è pur vero che, anche ai nostri giorni, gli incontri al vertice dei potenti creano sempre problemi di ordine pubblico e sicurezza, forse infinitamente maggiori che nel passato: un G8 o un G20 si risolvono in pochi giorni, il tempo necessario per ratificare intese probabilmente già stabilite dalle diplomazie, ma richiedono misure di sicurezza che sconvolgono la vita civile della città che li ospita. Tuttavia le analogie si fermano qui: un G8 o un G20 sono sempre riunioni di un numero ristretto di Stati, nonostante le loro decisioni abbiano una ricaduta che riguarda l’intero pianeta, mentre nell’Europa agli albori del XIX secolo, governata dalle monarchie assolute, per allestire un convegno di capi di governo si avvertiva l’esigenza di invitare i rappresentati di tutti gli Stati, anche dei più marginali. Il Congresso, che era un indiscusso successo del principe Klemens von Metternich, il potente Ministro degli Esteri austriaco, non aveva le funzioni di una conferenza di pace che ponesse fine a uno stato di belligeranza: la pace era già stata siglata il 30 maggio a Parigi e aveva troncato in maniera definitiva il predominio napoleonico in Europa. In quella occasione Alessandro I, Zar di Russia, aveva ottenuto praticamente tutto quello che aveva chiesto e cioè che Napoleone fosse relegato all’isola d’Elba a spese della Francia. A costo zero aveva risolto la sistemazione del suo nemico mortale: l’isola d’Elba veniva sottratta al granducato di Toscana (appartenente alla casa asburgica), e l’appannaggio di due milioni di franchi, per il mantenimento dell’ex-Imperatore, sarebbe stato versato dallo Stato francese.
Quel mese di ottobre era stato particolarmente gravoso per i congressisti, non certo per le riunioni politiche (che dovevano ancora iniziare), ma per gli impegni mondani. Il giorno 2 c’era stato un ballo in maschera alla Hofburg, la residenza degli Asburgo, il giorno 6 una festa all’Augarten, lo storico parco aperto al pubblico quaranta anni prima e il giorno 18 Metternich aveva organizzato una festa nella sua dimora, da poco rinnovata e ampliata, situata nella Rennweg. La data non era certo casuale, coincideva con la battaglia di Lipsia, dove Napoleone era stato sconfitto dagli eserciti austriaci, una battaglia che rammentava ai convenuti che Vienna non era solo la capitale della diplomazia, ma anche la fucina di poderosi strumenti di guerra.
Metternich aveva quarantun anni e alle spalle già una ventennale carriera diplomatica. Nel salone delle feste, assieme alla moglie Eleonore Kaunitz, con l’insegna del Toson d’oro appesa al collo, accoglieva gli invitati a cominciare dallo Zar di Russia Alessandro I, poi il Re di Prussia Federico Guglielmo III, il Ministro degli Esteri inglese Castlereagh e tanti altri. Infine fu la volta di Talleyrand che si avvicinò con il suo incedere lento e claudicante a causa di un’infermità al piede destro che lo faceva zoppicare fin dalla fanciullezza. Appena lo scorse, Metternich abbandonò per un momento la consuetudine protocollare, per salutare amichevolmente il Ministro plenipotenziario francese: era stato, infatti, fino a pochi mesi prima ambasciatore a Parigi e pertanto i due si conoscevano molto bene.
Dopo che tutti gli invitati furono entrati, l’orchestra cominciò a suonare e il clima tra gli ospiti si fece un po’ alla volta festoso e vivace. Si iniziò con i minuetti per poi passare al valzer, la nuova tendenza musicale che sembrava fatta apposta per allietare le giornate dei viennesi nei caffè del Prater o del Grinzing. Il minuetto era la danza tradizionale delle corti europee, si eseguiva con passi cadenzati molto semplici da più coppie nelle quali il cavaliere dava appena la mano alla dama. Nel valzer invece la dama e il cavaliere erano strettamente allacciati e volteggiavano liberamente nella sala senza eseguire passi prestabiliti; era pertanto la danza nella quale il contatto ravvicinato tra dama e cavaliere poteva diventare il preludio di nuovi legami, di passioni clandestine, di approcci imprudenti. Il nuovo genere musicale trovava in Lanner e Strauss gli interpreti più popolari e dotati e si era diffuso nei salotti buoni della nobiltà e della ricca borghesia viennese. Vienna era diventata così la capitale del nuovo gusto melodico destinato a diffondersi nei palazzi reali. Il repentino cambio del ritmo musicale aveva indotto in Metternich un affannoso susseguirsi di fosche previsioni. Infatti, il passaggio dal minuetto al valzer era epocale e segnava un cambiamento profondo nei costumi e nella società. Analogamente la restaurazione dei vecchi regimi, spazzati via dalle armate napoleoniche, avrebbe provocato un trauma lacerante nel fragile tessuto politico europeo che si andava delineando, un trauma che, per essere superato pacificamente, avrebbe richiesto una difficile concordia e un problematico consenso tra i potenti convenuti. Inoltre, per fronteggiare le nuove aspirazioni popolari di libertà e fratellanza che si erano diffuse dopo la Rivoluzione francese, forse non sarebbero più bastati i sovrani illuminati che governavano per grazia di Dio e cercavano di accontentare le aspirazioni dei loro sudditi senza perdere nello stesso tempo tutta la propria egemonia e tutti i propri privilegi. All’orizzonte si affacciavano i nuovi ideali del Romanticismo con tutto il loro carico di patriottismo, di sentimenti nazionalistici, di libertà di espressione: per la prima volta Metternich ebbe la fugace sensazione che, forse, sarebbe stato inadeguato al nuovo scenario che il cambiamento comportava. Tuttavia si rassicurò osservando gli ospiti raccolti nel salone delle feste: nessuno sembrava trascurare la sua munifica accoglienza. Nel teatrino della storia che aveva davanti ai propri occhi poteva rilevare con soddisfazione che, per il momento, tutti gli attori si muovevano come previsto dal copione. E, come al solito, con una punta di superbo compiacimento, considerava se stesso il regista dell’evento epocale, mentre gli altri recitavano il ruolo di comprimari e comparse. Gli ideali patriottici e libertari avrebbero dovuto fare qualche altro decennio di anticamera, il loro momento non era ancora giunto.
Mentre lo Zar Alessandro non perdeva un ballo ed era perfettamente a suo agio al centro della sala e al centro dell’attenzione, Metternich se ne stava cautamente in disparte per osservare i suoi ospiti, il loro comportamento, i loro incontri… Durante una pausa dell’orchestra, il suo sguardo fu attratto da un angolo della sala, dove si trovava un capannello particolarmente garrulo e brioso, formato dalla duchessa Wilhelmine von Sagan, lo Zar Alessandro, Talleyrand e altri ospiti. La duchessa Wilhelmine, fino a pochi giorni prima sua ardente e intima amica, ultimamente aveva raffreddato i loro rapporti, gli incontri si erano diradati, era spesso irraggiungibile mentre sembrava mostrare una particolare predilezione per la compagnia dello Zar. Fu a lungo incerto se ignorarla o avvicinarla. Infine decise che forse la sua ospitalità e il clima gioioso creato dalla musica potevano conciliare una riapertura del dialogo. Decise pertanto di dirigersi cautamente verso quel gruppo. Camminando tra la folla di ospiti, udì improvvisamente lo schiocco provocato dal tappo di una bottiglia di champagne che un cameriere aveva aperto per degli invitati: l’inaspettato rumore gli fece fare un sobbalzo, a causa del quale urtò un convitato che si versò così lo champagne sulla giacca. Metternich si scusò in maniera goffa sperando di non essere stato notato. Lo Zar Alessandro, però, che lo aveva attentamente osservato, non solo godette della scena ma non mancò anche di commentarla argutamente, suscitando l’ilarità dei suoi ascoltatori. Del resto non aveva mai tenuto in buona considerazione gli uomini che non sapevano portare la divisa e Metternich, da diplomatico di vecchio stampo, era uno di questi.
Finalmente Metternich raggiunse il gruppo e chiese amabilmente se la festa riusciva di loro gradimento. Wilhelmine non si fece sfuggire l’occasione per rispondere con finta cordialità: Vienna era la capitale della noia, i vostri invitati l’hanno resa la capitale della mondanità, possiamo finalmente competere con Parigi
.
Ma Alessandro lo fulminò con una considerazione più perentoria: Non ho mai capito perché i soldati debbano rischiare di farsi azzoppare in guerre che i diplomatici non sono riusciti a evitare
.
La frase era certamente diretta a lui e Wilhelmine, per rompere la tensione, si rivolse all’Imperatore Alessandro per esprimere il desiderio di ottenere un’udienza.
A questa richiesta lo Zar rispose categorico: "Un’udienza