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Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana
Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana
Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana
E-book337 pagine4 ore

Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana

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Info su questo ebook

Nato con l’intento d’ illustrare la vita di Pierluigi Farnese, figlio di Paolo III e vittima di una congiura ordita a Piacenza da Ferrante Gonzaga, governatore di Milano e “longa manus” di Carlo V, questo libro si è presto trasformato nella storia di un’intera stirpe. Non poteva infatti essere altrimenti, data l’importanza conseguita da questa famiglia “rampante” con le figure di Paolo III, dei nipoti Alessandro e Ottavio, di Margherita d’Austria e del pronipote Alessandro: attori di primo piano nei decisivi eventi del XVI secolo.
Ne è scaturito il racconto di vicende umane indissolubilmente intrecciate a eventi importantissimi: dal “Sacco di Roma” alle guerre con Francia, Turchi e Riformati alternati a episodi buffi e boccacceschi di una servitù che, nelle terribili ore della congiura, seppe tuttavia testimoniare un’ammirevole fedeltà al suo signore.
Le grandi vicende storiche, fortunatamente, non sono fatte solo di trattati, battaglie e congiure. Sono anche impastate di umori, d’imprevisti, di passioni, di smemoratezze e di casuali fortune o sfortune che, nella loro umana carnalità, ce le rendono più vive e comprensibili, togliendo ai personaggi quel piedistallo ove, nel bene e nel male, la storiografia ufficiale li aveva collocati.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2015
ISBN9788868271206
Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana

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    Anteprima del libro

    Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia - Millo Borghini

    Gonzaga

    Prefazione

    Ho conosciuto Millo Borghini a scuola: un compagno sempre misurato, col quale si stava bene. Per la sua lealtà anche in quegli anni giovanili, soprattutto.

    Ho ritrovato Millo (sempre per chiamarlo come lo chiamavamo da ragazzi) dopo diversi anni (c’eravamo un po’ persi di vista), fermo nei principii come sempre. Ma, in più, scrittore: il suo prezioso libro su Sofonisba Anguissola si legge (e lo lessi) d’un fiato, perché al tema di per sé affascinante unisce la capacità di rendere in modo altrettanto affascinante la storia come ricostruita, non pedantemente sibbene come vita vissuta.

    Ora, questo racconto storico su una grande famiglia, seguita quasi giorno per giorno non solo nelle sue grandezze e miserie, ma anche nei sentimenti e negli intimi risvolti umani, sullo sfondo dei decisivi eventi della prima metà del cinquecento. Un racconto frizzante, dal quale si apprendono tanti costumi, tanti eventi, tante tradizioni come possono essere fatti rivivere solo sulla base di una grande cultura, davvero invidiabile, nella quale non c’è assolutamente spazio per vuoti, per imprecisioni, per alcuna superficialità (pur oggigiorno dilagante).

    In sostanza, una pubblicazione (che si è avvalsa – nella parte sul’assassinio di Pierluigi – anche delle pubblicazioni in argomento edite dalla Banca di Piacenza, in particolare con riferimento agli atti, stampati per la prima volta, del processo intentato da Paolo III contro i congiurati) completa, e che ci sentiamo di raccomandare all’attenzione dei piacentini. In quell’episodio della congiura c’è l’animo di chi non vuole sottomettersi ad un signore e si oppone – quindi, ed in pratica – all’erezione del nascente Stato moderno; ma c’è anche – forte – il disegno di conservare un’autonomia collaudata che – al di là di ogni storpiatura, o interessata descrizione, specie ottocentesca – la classe dirigente prefarnesiana aveva sempre saputo conservare al nostro territorio. La congiura, però, riuscì materialmente, ma fallì politicamente: il Ducato riuscì a sopravvivere, Piacenza restò condannata – contro ogni tradizione e interesse – all’innaturale unione con Parma voluta dal Papa. Di lì la sua decadenza (peggiorata nel Novecento), non certo per il trasferimento della Corte a Parma (è dimostrato che, nonostante il comune pensare, essa nulla ovunque significò dal punto di vista della storia economica), ma perché – chiusa in un innaturale connubio territoriale – Piacenza non riuscirà mai più ad acquistare (salvo che nel breve periodo risorgimentale) quel ruolo che sempre aveva avuto prima dell’avvento dello Stato dalla caratteristica della plenitudo potestatis.

    Nota

    Per evitare che le note esplicative a fondo pagina provochino nel lettore un’impressione nozionistica del tutto estranea allo spirito del libro, è importante sottolinearne la non essenzialità alla comprensione del testo.

    Al fine di scongiurare possibili (e probabili) dubbi conseguenti ai numerosi riferimenti topografici e cronologici, oltre alle frequenti omonimie, è tuttavia consigliabile consultare le tavole riportate a fine volume:

    Tavole Cronologiche

    Breve esame della situazione politico-militare europea nel XVI secolo

    Cronologia del periodo 1527-1559

    Elenco dei papi del periodo 1455-1565

    Tavole Topografiche

    Mappa 1 - Topografia di Roma al tempo del Sacco

    Mappa 2 - Topografia del ducato di Castro e della contea di Ronciglione.

    Località del ducato di Castro e della contea di Ronciglione.

    Tavole Genealogiche

    Tav. 1 - Genealogia dei Farnese

    Tav. 2 - Genealogia degli Sforza di S. Fiora

    Tav. 3 - Genealogia degli Asburgo (Ramo Comune 1451-1564)

    Tav. 4 - Genealogia degli Asburgo (Ramo di Carlo V - 1500-1598)

    Tav. 5 - Genealogia degli Asburgo (Ramo di Ferdinando I- 1503-1633)

    Tav. 6 - Genealogia dei Valois-Angoulême (1399-1619)

    Al benevolo lettore

    Quando si trattano argomenti così ricchi di dati, di personaggi, di notizie spesso contrastanti e non sempre condivise dagli studiosi, è facilissimo incorrere in sviste, errori e dimenticanze che inducono a chiederne perdono ai lettori.

    Basta sfogliare le prime pagine di un libro antico o anche semplicemente vecchio per imbattersi nell’onesta e gentile consuetudine con la quale gli antichi, spesso più umili di noi, erano soliti presentare le loro pubblicazioni.

    Vorrei quindi adeguarmi a questa simpatica usanza, riportando le parole con le quali il tipografo Cavallo licenziava l’opera di Achille Fario Alessandrino, da lui stampata a Venezia nel 1563:

    In tutte le attioni humane quasi di necessità conuien che succedano de li errori: ma doue più facilmente, in più diuersi modi, et più ne possono accadere che si auengano nello stampare i libri, non ne so imaginare alcuna.

    Et parmi la impresa della correttione di essi ueramente poterla assimigliare al fatto di Hercole intorno all’ Hydra de i cinquanta capi: percioché si come quando egli col suo ardire, et forse le tagliaua una testa, ne rinascevano due, così parimenti mentre co’l sapere, et con la diligentia, si emenda un errore, le più uolte s’imbatte che ne germogliano non pur due, ma ancho tre et quattro, spesse fiate di maggior importanza, che non era il primo…

    A questo punto non rimane che affidare ai miei ipotetici lettori il racconto pubblico e privato di una grande famiglia, seguita quasi giorno per giorno non solo nelle sue grandezze e miserie, ma anche nei sentimenti e negli intimi risvolti umani, sullo sfondo dei decisivi eventi della prima metà del Cinquecento.

    I

    Il SACCO di Roma

    (6 maggio 1527 - 17 febbraio 1528)

    Quella sera Roma era immersa nel silenzio. Sebbene a quell’ora i quartieri fossero sempre deserti perché la gente andava a dormire presto e non osava scendere in vie illuminate da rare lanterne, quel lunedì sei maggio il silenzio era assoluto. Non si percepivano neppure i rumori abituali in una città di 55.000 abitanti e perfino le rane di S. Pietro parevano azzittite.

    Al termine di una giornata di combattimenti i romani si erano rintanati in casa, parlando a bassa voce e scrutando le vie attraverso le imposte. Come si sarebbero comportati quei barbari che avevano occupato la città? Le notizie filtrate di quartiere in quartiere e sussurrate da finestra a finestra non bastavano a placare il terrore, anche se molti speravano nell’estremo aiuto della Lega¹.

    Mentre Roma s’interrogava sulle incombenti e incerte prospettive, (visto che le razzie erano al momento proibite), un capitano dalla lunga barba nera (fig.1) aveva occupato il maestoso palazzo che cingeva, a Campo dei Fiori, tutto un lato della piazza, acquartierando i soldati tra quelle antiche statue e chiudendo in fretta il portone… Perché?

    E perché, indifferente a quel tripudio di corsesche², terzarole³ e archebusi, si limiterà a seguire gli eventi dal balcone quando l’Orange⁴ permetterà di saccheggiare la città? Sarà mosso dalla pietà cristiana, dall’avversione agli atti di violenza o dal riguardo per importanti parentele?

    Nulla di tutto questo. Nonostante i detrattori contemporanei e postumi siano andati a gara per infangarne a sproposito la memoria, bisogna infatti riconoscere che Pierluigi Farnese non era affatto uno stinco di santo e che non avrebbe certamente sfigurato nell’orgia di violenze e ruberie di quella notte e dei mesi successivi. Ma quella sera non poteva distrarsi: doveva difendere il proprio palazzo dai commilitoni tedeschi, spagnoli e italiani intenzionati a saccheggiare le più belle dimore di Roma e quindi anche quell’ambita preda.

    In una città sconvolta da incendi, spari, galoppi, imprecazioni e lamenti, stava iniziando un calvario apparentemente senza fine. Gli abitanti di Roma sarebbero stati derubati, brutalizzati e trucidati anche se qualcuno, come il fiorentino Giovanni Ansaldi, riuscirà a uccidere i carnefici prima di suicidarsi.

    Chi non aveva potuto nascondersi o fingersi malato, come l’ambasciatore di Firenze Francesco Vettori, che si metterà a letto dichiarandosi appestato, si era rifugiato presso nobili filo-imperiali con scorte di viveri e col supporto di armi e soldati.

    Era ciò che aveva fatto la marchesana di Mantova, ospitata nel palazzo di rione Trevi dal cardinale Colonna. In attesa del cappello cardinalizio per il figlio Ercole, e sottovalutando i rischi che si stavano prospettando, Isabella d’Este aveva rimandato la partenza, contravvenendo alle sollecitazioni del figlio Federico, signore di Mantova. Quando però, al precipitare degli eventi, quei mercenari avevano disertato (col risultato che un palazzo alle Botteghe Oscure era tragicamente esploso e i Lomellini erano stati sterminati a Campo Marzio), la nobildonna aveva rinunciato alla difesa, confidando nel figlio Ferrante e negli altri congiunti presenti in quell’esercito.

    Ma quella sera il Gonzaga era in ritardo. Non potendo allontanarsi da Borgo aveva incaricato Alessandro Gonzaga di Novellara e don Alfonso de Cordoa (al quale il Borbone aveva raccomandato in punto di morte⁵ la marchesana). Ricevuti con sprovveduto sollievo dai presenti e issati al piano superiore con una corda, dato che il portone era sprangato, i due salvatori avevano prontamente valutato quali riscatti esigere da quella facoltosa umanità prima che Ferrante potesse ostacolarne gli affari. Accoglieranno il Gonzaga al termine di una trattativa e con la solenne promessa di non essere intralciati (ma escludendo, beninteso, la marchesana).

    La stessa sequenza si ripeterà in ogni dimora anti o filo-imperiale: dal palazzo di Andrea della Valle a quello di Alessandro Cesarini, dalla residenza di Guglielmo Enkevoirt a quella di Giovanni Piccolomini: asili trasformatisi all’istante in vere miniere d’oro.

    Nei giorni successivi, spianando la strada a usurai di professione e a strozzini di complemento, si ricorrerà anche ai rapimenti, come nel caso di Giovanni Battista Alberini, rifugiatosi con la famiglia in Cancelleria e subito sequestrato. Creduto morto, verrà scarcerato in cambio di un riscatto.

    Tutti i sontuosi palazzi, come quello del principe Domenico Massimo al Parione, verranno depredati. Un prete spagnolo vi aveva condotto il figlio Giuliano, gravemente ferito nella battaglia di S. Pietro, e le trattative di un padre famoso per l’avarizia avevano raggiunto il culmine del cinismo allorché la morte del ragazzo aveva ridotto il prezzo da 500 a 300 ducati. Per l’altro fratello ne basteranno solo 200.

    Ma l’edificio, impresso nella mente della soldataglia, sarà più tardi saccheggiato. Solo il principe e il figlio troveranno asilo a palazzo Colonna, mentre la moglie e tutte le figlie verranno stuprate e uccise.

    Le violenze sessuali saranno infatti all’ordine del giorno, soprattutto da parte spagnola. Nei conventi verranno perpetrate ai danni delle suore mentre, nelle case, accadranno sotto gli occhi di mariti, padri e fratelli, col risultato che molte donne si getteranno dalle finestre per la disperazione o verranno pietosamente uccise dai congiunti.

    Mentre gli spagnoli si riveleranno specialisti dello stupro, le chiese, anche quelle condotte da religiosi imperiali⁶, verranno devastate dai tedeschi con blasfemi dileggi di reliquie e sepolture. Ma sarà soprattutto contro i religiosi che si accanirà la violenza: a molti verranno tagliati naso e orecchie (quando non saranno sgozzati), altri saranno scherniti nelle strade, giocati ai dadi o venduti addirittura come schiavi. Un sacerdote che aveva ingoiato tutte le ostie per non dare la comunione a un asino, verrà torturato a morte.

    All’odio per il clero si unirà la bramosia di denaro. Il cardinale Cristoforo Numalio, con la minaccia di seppellirlo vivo in S. Maria in Aracoeli se non avesse pagato un ingente riscatto, sarà condotto di casa in casa per rastrellare tutti quei quattrini, mentre il cardinale Ferdinando Ponzetti, sorpreso a nascondere 20.000 ducati, verrà trascinato in catene finché non provvederà a un cospicuo pagamento.

    Accanto alle violenze fisiche e sacrileghe non si conteranno i vandalismi. Moltissimi oggetti di culto e documenti storici finiranno bruciati e dispersi, anche se buona parte della Biblioteca Vaticana si salverà perché nell’edificio si era insediato l’Orange.

    Roma sprofonderà nella spaventosa condizione di tutti i saccheggi, anche se l’infernale degrado fisico e morale verrà accresciuto dalla lunga durata, dalla maestà dei luoghi e dalle profanazioni. Nelle strade ingombre di macerie, di cadaveri e reliquie calpestate nel fango, numerosi soldati carichi di refurtiva saranno oggetto di tragiche risse, come nel caso di quegli spagnoli barricatisi per impadronirsi di un presunto tesoro di monete (poi rivelatesi false) e bruciati vivi dai commilitoni. Nell’aria ristagnerà il persistente odore degli incendi misto al lezzo dei cadaveri.

    Circostanze che avrebbero dovuto stimolare la solidarietà tra le vittime ne riveleranno invece il lato peggiore. Verranno traditi non solo i legami di amicizia e consanguineità, come nel caso degli Alberini, che dovranno svendere la casa alla cognata per poter pagare il riscatto, ma anche i doveri delle stesse autorità civili. In nome di una presunta normalizzazione verranno legittimate rapine e torture, ammantando di legalità⁷ quei patti estorti e anticipando le mostruose prassi dei moderni regimi totalitari.

    Ma non tutti saranno delle vittime. Oltre ai citati profittatori, anche le numerose prostitute, improvvisamente spuntate da postriboli, stufe⁸, locande e retrobotteghe, faranno tesoro della favorevole circostanza accompagnandosi con padroni goffamente agghindati con sete, collane e anelli trafugati.

    Il dramma di Roma era cominciato domenica cinque maggio quando un grande esercito, apparso improvvisamente nel pomeriggio, si era accampato al convento di S. Onofrio, al Gianicolo. Al calar delle tenebre nessuno era riuscito a dormire, mentre gli occhi di un’intera città erano costantemente rivolti a quei fuochi, a quelle fiaccole, al lontano vociare di ordini perentori misto al rullar di tamburi che giungeva dall’altra riva del Tevere.

    Era l’accampamento dei 30.000 soldati imperiali: un’enorme accozzaglia d’individui motivata dal solo desiderio di arricchirsi col saccheggio. Erano tedeschi, spagnoli e italiani: una babele di lingue, fogge e visi raccolta da Georg Frundsberg, capitano della contea del Tirolo, per soccorrere Carlo di Borbone in guerra contro la Lega Santa.

    I romani erano veramente preoccupati. Intuivano che quella massa affamata e senza soldo racchiudesse una ferocia che le corsesche minacciosamente ostentate parevano esaltare, dandole l’aspetto di un fiume in piena. Quando un araldo si era presentato chiedendo viveri e libero passaggio si erano infatti ben guardati dall’accettare e l’avevano scacciato con insulti e minacce.

    Quella moltitudine, pur incutendo timore, mancava in realtà di qualsiasi disciplina e l’infermità del Frundsberg, colto da ictus⁹ mentre cercava di calmare le truppe, ne era stata la conseguenza. Va anche detto che questa campagna non era stata fortunata: oltre al danaro erano infatti mancate, a causa del fango, le artiglierie promesse dal duca di Ferrara.

    Una volta ritiratosi il Frundsberg, il comando era passato allo stesso Carlo di Borbone, un ex generalissimo francese vincitore a Marignano e Pavia e imparentato coi Gonzaga attraverso la madre Chiara, mentre i singoli eserciti facevano capo a vari generali.

    I 12.000 tedeschi dipendevano dal principe d’Orange Filiberto di Chalon assistito da Melchiorre, figlio del Frundsberg, da suo cognato Ludovico di Landrone e, infine, da Corrado di Bemelberg e Sebastiano Schertlin, mentre i 6.000 spagnoli erano soggetti al marchese del Vasto Alfonso d’Avalos¹⁰ e a Giovanni d’Urbina. Tra i 12.000 italiani (oltre ad avventurieri come il calabrese Maramaldo) si contavano vari esponenti di famosi casati come Pier luigi Farnese, i tre Gonzaga (Ferrante, il cugino Luigi detto Rodomonte e il conte Alessandro di Novellara), i figli di Fabrizio Colonna Ascanio e Sciarra, il conte di Caiazzo e Federico Carafa.

    È curioso scoprire le stesse famiglie anche nel campo avverso: Ranuccio Farnese, diciannovenne fratello di Pierluigi, faceva parte della difesa di Roma come anche, tra i Gonzaga, il guelfo Federico di Bozzolo. Eleonora, sorella di Ferrante, era anche moglie di Francesco Maria della Rovere, duca d’Urbino e massimo generale della lega, mentre l’altro fratello, il marchese Federico II¹¹, appoggiava i confederati pur essendo feudatario imperiale. Altro esponente di famiglia ghibellina era infine Stefano Colonna.

    Poiché gli imperiali, privi di artiglierie, non avevano speranze di successo contro una città difesa dalle mura Aureliane e Leonine e in attesa del Guicciardini, del Rangoni e di Francesco Maria della Rovere, il generale pontificio Lorenzo Orsini dell’Anguillara (detto Renzo di Ceri), era ottimista. Dotato di grande esperienza acquisita al soldo di Firenze, Francia e Venezia (per la quale si era distinto nella battaglia di Pavia), era talmente convinto che i nemici non sarebbero neanche giunti fino a Roma da sostituire parte dell’esercito con gli ottocento archibugieri inviatigli dal Rangoni¹².

    Eppure, a dispetto dell’eroismo di molti e per gli errori e la superficialità di pochi, ma anche a seguito di tradimenti, viltà ed egoismi, quelle previsioni saranno drammaticamente rovesciate con inevitabili e terribili conseguenze.

    Il generale e Sua Santità non tenevano infatti conto dei sospetti e delle divisioni che allignavano tra gli alleati, inducendoli a partecipare alle operazioni in modo del tutto inadeguato. Lo stesso Francesco Maria della Rovere, soprattutto interessato alla tutela dei propri territori, indugiava tra Mantova, Casalmaggiore e Gazzuolo e si limitava, nella migliore delle ipotesi, a un blando inseguimento del nemico.

    La colpevole lentezza delle truppe leghiste e i sinistri presagi di certo Brandano da Siena, frate dalla pregressa vita dissipata e prodigo annunciatore di imminenti tragedie, avevano infine consigliato nuovi arruolamenti. A tale scopo Clemente VII aveva ordinato quattro cardinali, ma i 200 ducati che doveva ricavarne non erano ancora disponibili e le potenziali milizie si erano frattanto rifugiate¹³ a Ostia e Civitavecchia, località presidiate dalla lega.

    Mentre un cielo nuvoloso nascondeva la luna e una fitta nebbia stava alzandosi dal Tevere e dalle paludi dentro e fuori città, i soldati imperiali si preparavano all’attacco. Dall’alto degli spalti i difensori e gli insonni abitanti li scorgevano alla luce delle torce mentre allestivano scale con pali trovati nelle vigne, ricavandone la convinzione che quel vociare e quelle concitate parole preludessero a un assalto imminente.

    Non appena le luci dell’alba svelarono gli incerti contorni delle cose, i primi movimenti di truppe ne palesarono infatti la strategia, allertando le sentinelle degli spalti e la cavalleria di Giampaolo Orsini¹⁴.

    Per aggredire la parte più vulnerabile¹⁵ di Borgo, compresa tra le porte di Santo Spirito, Torrione¹⁶ e Pertusa, gli imperiali avevano deciso di usare le scale¹⁷, affidando ai lanzi¹⁸ il tratto da Santo Spirito a Torrione e la restante parte agli spagnoli. Gli italiani, attestati alla Lungara, controllavano invece le possibili sortite da Trastevere.

    Una volta completati gli schieramenti e preparate le retroguardie, i ripetuti squilli di tromba e il crescente rullar di tamburi annunciarono l’attacco. Le scale, impetuosamente appoggiate alle mura in un crescendo di grida assordanti, venivano freneticamente risalite con vessilli, spade, picche e mazze ferrate mentre, dalle retrovie, giungeva un nutrito fuoco di copertura.

    Ma la risposta a quell’irruente esordio era stata immediata. L’intervento degli archibugieri pontifici comandati da Lucantonio Tommasoni e la reazione dei centocinquanta svizzeri del comandante Gaspare Roust, attestati a Porta Fornaci¹⁹ con l’appoggio dei mille artigiani, negozianti e artisti della riserva agli ordini di Camillo Orsini, aveva prontamente riversato sugli attaccanti un’infernale gragnola di colpi, schiantando a terra parecchie scale e seminandovi cumuli di feriti.

    Mentre gli scontri si trascinavano svogliatamente da alcune ore e tre gentiluomini²⁰ tentavano invano una mediazione, le artiglierie di Giulio da Ferrara e i pezzi dislocati in città sottoponevano gli assedianti a un continuo martellamento diffondendovi lo sconforto e facendo apparire sempre più lontana la presa di Roma.

    Bisognava infondere nuovo entusiasmo ai soldati.

    Fallito il tentativo di ampliare il fronte²¹ per ridurre la resistenza dei nemici, Carlo di Borbone si pose alla testa delle truppe. Ma non aveva ancora cominciato che un’archibugiata del Cellini²² lo fece rotolare dalle scale: trasportato a S. Onofrio vi morirà poco dopo.

    Era destino che quel colpo cambiasse le sorti della battaglia, ma non nel senso che si potrebbe immaginare e soprattutto non nel modo che i romani avrebbero desiderato.

    Negli istanti immediatamente successivi capitò infatti un incredibile episodio che la dice lunga sul dilettantismo della macchina militare pontificia e sulla dabbenaggine dei romani. I difensori, vedendo la vittoria a portata di mano e comportandosi con inammissibile leggerezza, si abbandonarono infatti all’esultanza, lasciando sguarniti gli spalti e permettendo al capitano Nicola Seidenstucker e all’ufficiale Michele Hartmann di occupare il bastione di S. Spirito.

    Quando gli incauti difensori se ne accorsero, gli imperiali si erano già impadroniti delle artiglierie e stavano invadendo Borgo in gran numero. L’Orsini, sul punto di contrattaccare, ma scorgendo nei giardini del cardinale Armellini alcuni spagnoli penetrati da un varco nascosto dalla vegetazione, credette di essere stato preso tra due fuochi e ordinò la ritirata.

    La situazione militare, fino ad allora favorevole ai difensori, si era improvvisamente capovolta.

    Le avanguardie, rinforzate da nuove unità e sotto una pioggia battente, ebbero subito ragione dei fanti di Stefano Colonna ma vennero duramente impegnate dagli svizzeri e da numerosi civili attestati alla Basilica²³. Queste truppe, pur battendosi eroicamente, verranno infine sopraffatte con moltissimi caduti (tra i quali l’orafo Bernardino Passeri), mentre Luca e Giuliano, figli del Principe Massimo, rimarranno gravemente feriti.

    Ma il loro sacrificio non sarà vano. Mentre gli imperiali penetreranno in Basilica, il Giovio²⁴ riuscirà a riparare Sua Santità nel Passetto²⁵ e a portarlo in salvo a Castel S. Angelo.

    Nello spazio di un’ora le difese di Borgo erano state completamente annientate e le strette vie erano ingombre di cadaveri. Erano caduti, col loro capo Giulio da Ferrara, quasi tutti i bombardieri dislocati tra Porta S. Spirito e Torrione, la compagnia di Lucantonio Tommasoni, gli uomini della riserva e gli alunni del Collegio Capranica²⁶, gettatisi nella mischia con giovanile entusiasmo. Il capitano degli svizzeri Gaspare Roust, riparato in casa per porre in salvo la moglie Elisabetta Klinger, verrà trucidato davanti alla consorte disperatamente intervenuta in sua difesa.

    Perfino l’Ospedale di S. Spirito, proprio di fronte al Castello, sarà messo a ferro e fuoco. I ricoverati intrasportabili, assieme ai frati a alle suore rimasti ad accudire i malati, verranno tutti eliminati. Il reparto dei bimbi esposti sarà orribile teatro di un sistematico sterminio: i più verranno sgozzati mentre altri, scampati ai pugnali, verranno gettati nel Tevere tra risa, battimani e scommesse sul tempo che avrebbero impiegato ad annegare.

    Soltanto il direttore Cosimo Tornabuoni riuscirà a salvarsi con la promessa di 3.000 ducati, mentre Luca Massimo ne garantirà

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