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Il segreto di Viola
Il segreto di Viola
Il segreto di Viola
E-book114 pagine1 ora

Il segreto di Viola

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Info su questo ebook

"Ma pensavo che sarebbero venuti a cercarci, magari con un ombrello, perché stava piovendo sul serio. La nostra grossa roccia ci proteggeva, ma non troppo. Eravamo come Adamo ed Eva al principio del mondo, in estasi. La nostra felicità non avrebbe avuto più fine. La tua storia. Viola, stava veramente per cominciare: la tua storia d’amore".

Simpatica e attraente, Viola decide di lavorare durante l’estate come babysitter per pagarsi l’università. E come un piacevole uragano sconvolge la vita tranquilla e monotona di Villa Denis, una splendida casa padronale affacciata sul lago. Il primo (ma non è l’unico) a innamorarsi di lei è il figlio maggiore dei padroni di casa, un ragazzo disinvolto e deciso, già fidanzato con una giovane coetanea un po’ noiosa. Amore a prima vista. Ma un bacio appassionato, per lei, non significa niente, e non può cambiare la sua vita. Viola non può rinunciare alla sua indipendenza, ai suoi sogni, e non ama indossare i panni della rubacuori. Proprio per questo decide malinconicamente di lasciarsi alle spalle quell’estate unica e andarsene da quella casa per sempre. Meglio voltare pagina. Ma un imprevisto… Dolce e sofisticato, Il segreto di Viola è un romanzo di Elisa Trapani, firma indimenticabile, fra gli altri, di “Grazia”, “Annabella”, “Gioia” e “Marie Claire”.
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2020
ISBN9788893041881
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    Anteprima del libro

    Il segreto di Viola - Elisa Trapani

    2020

    1

    Infine la corriera si fermò e io scesi. Il viaggio era finito. Misi a terra la valigia, mi rassettai la giacca, i capelli.

    Mi sentivo un piccolo mostro arruffato, in disordine, con l'aria vagamente ottocentesca da signorina-di-buona-famiglia-travolta-dalle-vicende-della-vita, che coraggiosamente inizia le sue esperienze in seno alla società.

    Di colpo sentivo che erano calate sulle mie spalle non ancora ventenni valanghe di responsabilità e di preoccupazioni. Non ero già più la birichina di papà amata e viziata fino all’assurdo (almeno a detta dei parenti), né la compagna inseparabile di passeggiate, cinema, divertimenti, di mia madre e della mia sorellina. Ero una donna sola con se stessa, che d’ora in avanti avrebbe dovuto rispondere di persona a ciò che gli altri si aspettavano da lei.

    E questa volta non si trattava di professori e professoresse che conoscevo e amavo, e che potevano anche indulgere alle mie mancanze perché sapevano che d'indulgenza ero degna, ma di gente che mi aveva assunto, attraverso amicizie varie, perché io esplicassi un lavoro ben preciso, pieno d'incognite, ma ben remunerato.

    «E se non ti trovi bene, se qualcosa non dovesse essere di tuo gradimento, ritorna a casa, ritorna subito, non pensarci su due volte, noi siamo sempre pronti a riprenderti fra noi»!

    Povera, cara mamma, coi suoi grandi occhi azzurri da bambola appassita, mi sorrideva e piangeva dicendo questo.

    Certo, mamma, tornerò, vedrai che tornerò, magari domani pensavo, camminando con la valigia in una mano e la borsa nell’altra.

    Ma non c’era niente, nemmeno un taxi in quello strapelato paese?

    Macché, mi sbagliavo. C'era una macchina chiara, color senape, che pareva stesse aspettando proprio me.

    Un giovanotto se ne stava appoggiato alla portiera aperta, e mi guardava, forse con una certa compassione.

    Poi si decise, mi disse:

    — E lei la signorina che deve andare a villa Denis?

    — Sì, sì... sono io.

    — Allora salga, io sono l’autista. Ho l'incarico di condurla alla villa. I signori la aspettano.

    Mi prese la valigia con degnazione, la buttò nel portabagagli, poi salì al suo posto di guida, e io dietro, disciplinata. Ma andava già meglio. Potevo almeno guardarmi intorno, comodamente seduta, apprezzare le strade, la vegetazione fitta, le ville piccole e grandi, il lago.

    Mi aveva sempre affascinato il lago, forse più del mare, per quella sua calma, per quelle sue acque placide che non si abbandonavano mai alla violenza delle tempeste e delle burrasche, e anche per le sponde fiorite di ville e di giardini che lo circondavano da ogni parte.

    Forse non era precisamente così, ma la mia fantasia aveva avuto sempre il potere di dipingere ogni cosa coi suoi pennelli, intinti negli inverosimili colori dei sogni.

    L'autista non mi aveva degnato di una parola, ma non me ne accorgevo nemmeno, intenta com’ero a guardare avidamente il paesaggio. Del resto, villa Denis non era lontana, anzi ci stavamo avvicinando, la macchina aveva varcato i cancelli, e io ero tutta occhi e bocca. Dovevo far forza su me stessa per non spalancarla, infatti, come quella di un caimano.

    In fondo a un lungo viale di magnolie, sorgeva la villa, che da lontano pareva quasi più ricamata che costruita. Un piccolo castello, sul genere di quelli che sorgono sulla Loira. Finestre, bifore, terrazzine aeree, una bella torre, e tutto così grazioso e pieno di armonia, che veniva davvero voglia di battere le mani a chi, chissà quando, l’aveva ideata e fatta costruire.

    Il giardino era pieno d'ortensie, di rose, di magnolie, e il parco che si intravedeva dietro la casa... Non basterebbe un centinaio di punti esclamativi per commentare quello che provavo.

    Sulla soglia di una delle porte, ci ricevette una tizia in blu con grembiulino bianco e vaporosa crestina sui capelli neri. Una cameriera che sembrava una dama e che mi fece vergognare del mio vestitino, dei miei capelli in disordine e della mia valigia. La borsa la tenevo stretta sotto l'ascella, come il corpo di un reato. E pensavo che, se i camerieri erano così, cosa sarebbero stati mai i padroni della villa?

    — Buongiorno — mi disse la ragazza.

    — Venga, l’accompagno di sopra.

    Seguii lei e la mia valigia per una stretta scala che doveva essere quella di servizio. Quindi, passando per un corridoio, approdai a quella che sembrava essermi destinata come camera. Non era molto grande, ma era graziosa e poi c’era un'altra stanza vicina adibita a studio, e questa si affacciava su una di quelle terrazzette che avevo ammirate dal di fuori. C’era poi il bagno, che mi sembrò bellissimo, tutto in verde e nero.

    La cameriera mi disse che potevo riposarmi e che la signora mi avrebbe visto dopo il pranzo. Il mio mi sarebbe stato servito in camera, almeno per quel giorno.

    — Grazie — dissi — lei è molto gentile. Il suo nome?

    — Mi chiamo Katia — disse la ragazza, forse un po’ divertita del mio impaccio evidente.

    Rimasta sola, in un silenzio quasi inverosimile, mi guardai intorno con una gran voglia di chiedere aiuto ai mobili, allo specchio, ai quadri. C’era intorno un’atmosfera non so se di vecchio albergo sofisticato o di vecchio castello inglese, con fantasmi in agguato.

    Qui, cara Viola dissi a me stessa, perché avevo avuto sempre quella strana abitudine di apostrofarmi, specie quando non andava bene devi chiedere soccorso alla tua saggezza di fondo e prendere una decisione. Se ti senti così avvilita e congelata, non hai che da riprendere la valigia, rifare la stessa strada di prima, prendere la corriera, la prima che trovi, e tornare a casa, prima ancora di sera.

    Quella frase, alquanto arzigogolata, mi fece quasi piangere, ma pensai subito dopo che non potevo essere così puerile e sprovveduta da prendere una decisione di quel genere prima ancora di aver veduto in faccia i miei datori di lavoro. E che, se mai, quella decisione andava rimandata.

    Calma, Viola, calma, stenditi sul letto e rifletti. Oppure tira fuori dalla valigia le tue poche cose e sistemale in questi bei mobili vetusti, nei quali c’è spazio finché vuoi.

    Quando ebbi finito di sistemare ogni cosa, indossai la mia vestaglietta per stendermi un po’, ma sentii che bussavano alla porta. Doveva essere Katia, magari con un caffè, che genio. Invece, quando aprii, mi trovai davanti una ragazzina con un minivestito rosso e con dei capelli cortissimi e biondi. Aveva due dolci occhi azzurri e un sorriso tra timido e insolente.

    — Buongiorno — mi disse. — Ho sentito, anzi arguito, che è arrivata, e così sono venuta a darle il benvenuto.

    — Oh, grazie, è davvero gentile — le dissi, ma pensai che non era possibile che, così giovane, fosse la signora. Infatti, quasi subito, la ragazzina precisò:

    — Io sono Nora, la figlia.

    — Ho capito.

    — Be’, è un po' difficile che abbia capito così presto. Ma se avrà pazienza le farò un quadro preciso della nostra famiglia. Pardon, forse è stanca e se ne infischia di queste cose.

    — No, mi fa piacere. Molto piacere, davvero, parlare con qualcuno.

    — Fa piacere anche a me. Siamo in tanti, qui, ma quasi tutti musoni. Poi io sono trattata come un cucciolo, che qualche volta si può anche prendere a pedate.

    Non potei fare a meno di ridere, ma poi dissi:

    — Mi scusi, signorina!

    — Può chiamarmi Nora, e darmi del tu. Sono la piccola, non l’ha ancora capito? Del resto glielo dirà mia madre: «Ho tre bambini...»

    Puntini e sospiro.

    — Ma... Quanti anni ha?

    — Diciassette, anche se non sembra perché non sono molto alta. E lei?

    — Quasi venti.

    — Ma è giovanissima! E... ha esperienza di bambini?

    — No, non molta. Ma ci proverò. I bambini sono tre, ha detto?

    — No, no... Mi sono spiegata male, scusi. I bambini sono due, gemelli, graziosi, sornioni e capaci di tutto. Hanno sbaragliato non so quante governanti e nurse e baby-sitter nei loro quasi sei anni di

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