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Gotico milanese
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E-book378 pagine6 ore

Gotico milanese

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Info su questo ebook

Milano, 1963. Nelle strade tra corso Buenos Ayres e la stazione si sente ancora solo parlare italiano, o, piuttosto, parecchi dialetti. Ci sono ancora molte case di ringhiera, ciascuna un piccolo paese nella città. Ci sono i bar dove i pensionati giocano a carte fino alle ore piccole.
C’è l’oratorio di San Gregorio, con le sue brave ragazze molto inquadrate e molto represse, col suo prete, giovane e pieno di fede.
C’è un liceo, coi suoi studenti e professori, ancora del tutto ignari del sessantotto prossimo venturo.
Lisa e Anna hanno 17 anni, sono giovanissime di azione cattolica. Brave studentesse, appassionate di lettura, sognano un grande amore e ascoltano i dischi. Ragazze normali per quei tempi, forse un po’ troppo inquadrate, un po’ troppo represse.
Ma Lisa fa strani sogni, ha strane esperienze.
Intorno a loro incominciano ad accadere strani fatti. Una loro compagna scompare, un’altra si suicida. La cripta di San Gregorio viene profanata coi resti di una gallina nera.
Nel quartiere un barbone viene malamente assassinato. Spariscono due casalinghe, un impiegato comunale.
Il maresciallo dei carabinieri Caputo non sa che pesci pigliare. Vorrebbe credere alla normale follia di una setta satanica, ma l’indagine lo riporta sempre all’oratorio, al liceo, al prete, a Lisa; e c’è qualcos’altro, qualcosa che non sembra di questa terra e che rischia di scardinare tutte le sue solide certezze sulla realtà in cui è vissuto finora. Troverà un valido aiuto proprio nel prete, e poi in una anziana pensionata che vive in un mezzanino pieno di libri. E, se alla fine risolverà il mistero, sarà una soluzione che non potrà mai mettere a verbale.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2017
ISBN9788892663848
Gotico milanese

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    Anteprima del libro

    Gotico milanese - Alda Vercesi

    Indice

    Luglio 1630

    Novembre 1963

    Dicembre 1963

    Gennaio 1964

    Febbraio 1964

    Marzo 1964

    Gotico milanese

    Romanzo

    di Alda Vercesi

    Youcanprint Self-Publishing

    A Silvia,

    che ricorda.

    Titolo | Gotico milanese

    Autore | Alda Vercesi

    Immagine di copertina a cura dell’autrice

    ISBN | 9788892663848

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Luglio 1630

    Le vecchie pietre grigie del convento luccicavano e nel riverbero del sole parevano tremare; intorno solo erba secca. La carrozza si fermò al portone e il cocchiere saltò giù di cassetta per correre a spalancare lo sportello: era un piccolo uomo dai tratti mongoloidi, e pareva deforme.

    La carrozza era grande e pesante, di legno nero intagliato con arte; la polvere bianca del viaggio si era attaccata alle figure scolpite e dava loro maggior rilievo, eppure anche guardandole attentamente era difficile dire che cosa rappresentassero: la vista si confondeva, un particolare faceva perdere d' occhio l'insieme e l'osservatore distoglieva dopo poco l'attenzione con una impressione di fastidio.

    Il cocchiere spalancò lo sportello; anche l'interno era nero, tappezzato di un velluto incrostato d'argento in un disegno non del tutto gradevole d'intrico di foglie e di fiori. Anche i finestrini erano velati dallo stesso pesante tessuto, ma nonostante si fosse al sei d' agosto e il caldo fosse torrido l'aria nella carrozza era fredda come d' inverno.

    L'uomo che scese era alto e vestito di nero. In mano reggeva un elegante bastone da passeggio d'ebano, con il pomo all' apparenza in oro: solo quando la luce vi batteva in un certo modo, giocando con le iridescenze, si poteva vedere che era in realtà intarsiato di simboli a prima vista diversi dai fregi della carrozza.

    Il suo volto pareva avere tutte le età e nessuna.

    Si muoveva con eleganza. Il mantello era allo stesso tempo immobile e fluttuante come fumo.

    Sull' architrave di pietra c'era scritto: CLAUSURA.

    Il cocchiere afferrò il pesante anello di bronzo fissato al portone e lo batté una volta.

    Subito si aprì lo spioncino. La porta era di quercia, grosse travi squadrate unite con liste pesanti di ferro battuto. Nell' apertura una grata fitta, e dietro a quella un triangolo bianco che poteva essere un viso incorniciato da bende nere.

    -Sia lodato Gesù Cristo, bisbigliò la suora.

    -Ora e sempre, sorella. Sono il cavaliere Delminio. Ho un messaggio di una certa urgenza per una delle vostre consorelle. Vi prego di voler avvisare la reverenda madre superiora.

    L’ombra dietro la grata fece un segno di assenso e lo spioncino si richiuse. Passò del tempo.

    Passò parecchio tempo, poi la pesante porta si aprì. Girando sui cardini non fece alcun suono.

    La suora nella penombra accennò con la mano all' uomo, che poteva entrare. Ora portava un velo nero che copriva la sua persona fin quasi alla vita, e il volto non si vedeva più. Per qualcuno che non fosse lui avrebbe potuto essere inquietante.

    La suora era scalza, il pavimento di pietra. Faceva piacevolmente fresco dopo l'afa di fuori, un freddo dolce che non aveva niente a che vedere con la ventata gelida ch'era uscita dallo sportello della carrozza. La suora lo precedeva senza parlare. Al Carmelo c'era la regola stretta del silenzio. Muri imbiancati, porte nere, corridoi lunghi. In giro non c'era nessuno, non si sentivano voci, neppure il salmodiare lontano delle preghiere: il visitatore aveva scelto il momento con cura, lontano dalle ore canoniche delle funzioni.

    Già questo era un gran privilegio, poter entrare nel convento e accedere al parlatorio senza essere parente stretto di alcuna delle recluse e senza nessuna lettera di presentazione: ed era dovuto al suo rango, ed anche a qualcosa che nel suo sguardo obbligava all’obbedienza.

    Gli stivali ferrati non facevano sulle pietre del pavimento più rumore dei piedi nudi della monaca.

    Un'altra porta nera, poi una sala rettangolare con la volta a crociera, imbiancata, divisa per il lungo da una grata nera coperta da una tenda.

    La suora tirò la tenda, e dall' altra parte della grata c’era un'altra suora, simile in tutto alla prima, dritta nella semioscurità. Anche il suo viso era poco più che un triangolo bianco.

    Lui seppe subito di trovarsi di fronte alla superiora del convento, l'unica che potesse presentarsi in parlatorio senza abbassare il lungo velo sul viso e fino alle braccia; e s' inchinò profondamente.

    -Reverendissima madre - incominciò - avrei una preghiera da rivolgere a vostra reverenza.

    Lo disse con tono sommesso e in atteggiamento di profonda umiltà, e tuttavia la superiora ebbe un brivido di orgoglio ferito. Quell'uomo non supplicava affatto, ordinava. Ciò nonostante ella fece un cenno di assenso col capo.

    -Ho un messaggio urgente e strettamente personale per una delle vostre novizie. Sono a conoscenza del fatto che la regola permette solo ai parenti stretti... tuttavia…

    Si fermò, e non c'era confusione o incertezza in lui: aspettò che la superiora facesse un secondo segno di assenso.

    - Suor Margherita da Pallanza.

    Dalla forma nera che era dietro la grata venne un sussurro appena udibile.

    -Sono addolorata di non potervi servire. – disse. Le labbra pareva non si muovessero - La nostra sorella Margherita già dalla scorsa settimana è stata trasportata al lazzaretto di Milano...ieri mattina è morta di peste.

    Novembre 1963

    Nevicava. Uscivano in fretta, allacciandosi i cappotti.

    -Dio gente che tempo. Che freddo.

    Fitta e violenta la neve di fine ottobre, venuta giù all' improvviso dopo giorni di nebbia: l’inverno sarebbe stato rigido.

    -Tirati su la sciarpa Mariù.

    Mariuccia sbuffava perché sua sorella la trattava come una bambina piccola.

    Anna mise il naso fuori.

    -Dio come la viene. Comincia presto quest'anno: pensare che ci son state delle volte che in ottobre si poteva ancora andare in montagna, a funghi, vi ricordate? Mi sa che ormai è incominciato l'inverno.

    Per tutta la via Settembrini quant' era lunga, non si vedeva un cane. La neve avvolgeva tutte le cose e confondeva la vista. Le ragazze aprivano gli ombrelli, che diventavano subito bianchi.

    Le mamme avrebbero detto: bisogna essere matte per andare in giro con questo tempo; e per un'adunanza all'oratorio oltretutto.

    La mamma di Lisa avrebbe protestato il doppio, perché lei di figlie matte ne aveva due; e la nonna, quando l'avesse saputo, avrebbe brontolato scuotendo la testa: Vialter du si beghinn, che in lingua milanese significa: voialtre due siete beghine senza speranza.

    Ma a quindici sedici anni non si ha paura della neve: a quindici sedici anni la neve è un giocattolo e non c' è niente di tragico a tornare a casa dicendo sono bagnata fino alle mutande. Anzi, è un modo diverso di ridere e scherzare, fare gli scivoloni e le battaglie di palle di neve riparandosi dietro le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi.

    -Andiamo a vedere la vetrina del cinese- disse Adriana, e tutte le altre sei sette ragazze si mossero con lei e nonostante tutto nessuna aveva fretta.

    Svoltarono in via San Gregorio. La vetrina s' intravedeva pallida di fronte alla chiesa. Alle sei del pomeriggio faceva già buio del tutto.

    Attraversarono la strada. In realtà il negozio aveva due vetrine illuminate, piene di ciondoli e di cose strane come a Milano in quella prima metà degli anni sessanta ancora non se n' era viste: la moda dell'oriente era ancora di là da venire. Gli scarsi ristoranti cinesi nei dintorni di via Canonica erano cari, e frequentati solo dagli stranieri e da qualche milanese particolarmente eccentrico.

    Quello era forse il primo negozio di articoli importati dall' oriente che fosse stato aperto in Milano, e da pochissimi giorni, forse neanche un mese. Tutte le ragazze dell'oratorio ne erano affascinate; madreperle sete colorate statue di Buddha ed elefanti intarsiati, ma soprattutto bigiotteria, che poi per la maggior parte era vera e propria oreficeria in argento e pietre dure. Collane e orecchini, niente a che vedere con quelli della Standa e del mercatino - i loro fornitori ufficiali - e nemmeno con quelli delle fotografie di moda: cose che sarebbero diventate addirittura comuni nel corso del successivo decennio, ma in quel momento strane e meravigliose.

    Qualcuna faceva i conti per vedere cosa avrebbe potuto acquistare con il mensile che le passava la mamma, se avesse rinunciato alla merenda nell' intervallo delle lezioni e per qualche giorno fosse andata a scuola a piedi anziché in tram. Un paio addirittura avevano già provato l'emozione di entrare, e avevano riferito alle compagne sbalordite come il padrone del negozio non si limitasse a venderti la collanina o l'orecchino (si guardi allo specchio signorina, guardi come le dona!) ma ti teneva lì magari mezz' ora a spiegare le proprietà arcane della pietra, a convincerti che stavi comprando una cosa magica con il potere in grado di influire davvero sul tuo corpo e sul tuo spirito.

    Le ragazze dell'oratorio, sempre divise tra la curiosità per il mistero e la paura istituzionale del diavolo, lo ritenevano un po’ ciarlatano e un po’ mago; e qualcuna tra le più vecchie e inquadrate, o tra le più giovani e influenzabili, giurava che non sarebbe mai stata sua cliente (non foss'altro perché mettersi addosso quella paccottiglia non era serio, e neppure elegante).

    Lui, il cinese (nessuna dubitava che cinese fosse) se ne stava sempre seduto dietro il bancone. Difficilmente si riusciva a vederlo in faccia dalla vetrina. Sembrava molto basso di statura, e chi aveva avuto occasione di osservarlo da vicino affermava che fosse molto brutto: forse deforme, di una difformità difficile da definire.

    Vestiva bluse di seta e papaline colorate. A Lisa dava piuttosto l'impressione di assomigliare a un personaggio dei cartoni animati.

    Le ragazze si fermarono di fronte alle vetrine. Il cinese era come al solito là in fondo, dietro il paravento di legno intagliato. Aveva una camicia nera con pochi ornamenti rossi. Scriveva in quello che pareva un libro di conti. D’un tratto alzò la testa e guardò fisso verso la strada: e questa volta a Lisa parve tutt' altro che un cartone animato.

    Non avrebbe saputo dire come ma fu molto, molto sgradevole, e strano: per un momento era sicura di conoscerlo… di ri-conoscerlo anzi. Ma naturalmente era impossibile.

    Come masticare una caramella che lasci in bocca un retrogusto di cose schifose.

    Domenica pomeriggio non nevicava più da due giorni, e la neve era stata tutta spazzata e ammucchiata negli angoli.

    Don Giulio si appoggiò alla balaustrata che divideva in due il cortile. Guardava le sue ragazze giocare a palla-battaglia. Giovanissime di Azione Cattolica, dai 14 ai 18 anni, tutte belle della bellezza dell'asino, eccitate, le guance rosse e gli occhi brillanti per la corsa, le gonne al vento. I cappotti stavano buttati in un mucchio informe sulla balaustra, e qualcuno era scivolato sull'ammattonato dove restava qua e là qualche pozzanghera. La proprietaria non se ne dava pensiero.

    Lui le conosceva tutte una per una, per averle ascoltate un sabato dopo l'altro in confessione: con i loro piccoli dolci segreti di adolescenti fin troppo pure, fin troppo represse dalla disciplina cattolica.

    Fin troppo oppresse dagli scrupoli e dai problemi di coscienza.

    Niente a che vedere con la gioventù bruciata dei film americani; niente a che vedere con quella esistenzialista dei film francesi. Qualcuna di loro aveva letto Gide - e nella maggior parte dei casi se n'era poi confessata - e aveva magari anche tentato di approfondirlo; ma le era rimasta soltanto la documentazione di una filosofia estranea e lontana, distante dalla sua vita come poteva esserlo la Critica della ragion pura che era obbligatorio studiare perché stava nei programmi scolastici.

    Per loro una vita semplice, dei valori semplici e sicuri. Prima di tutto la religione, e anzi neanche tanto quella quanto il concetto cattolico di Dio e dell'amore di Dio: e da qui tutti gli altri. La Famiglia prima di tutto e poi il Dovere (una pletora di Doveri) verso se stessi e verso gli altri, da cui discendeva l’imperativo categorico di conservare la propria Purezza: nello spirito e soprattutto nel corpo.

    Per don Giulio insegnare queste cose era una fatica che spesso poteva venir compensata dalla gioia.

    Le due squadre si affrontavano in un balletto pieno di forza e di grazia. Sono tutte persone vere, pensava il prete, sono tutte in gamba, diventeranno donne vere. Grazie, Signore.

    E se altre volte era stato accasciato, deluso dall'andamento dei tempi e dal comportamento di qualcuna, oggi tutto era dimenticato.

    Dio sorrideva nel sole freddo di quell'ultima domenica di ottobre, e gli rispondeva e lo benediceva. Il sorriso che sul volto di don Giulio aveva sempre un che d'ironico e amaro oggi si andava tingendo di un vago color di rosa.

    L’oratorio era ricavato in un vasto edificio pieno di corridoi e cortili, che fino agli anni trenta era servito come collegio per i sordomuti poveri e come convento per le suore Canossiane; ancora oggi una piccola parte era occupata da un residuo dell'antica istituzione. Ospitava ancora una cinquantina di ragazzine sordomute, che però in giro non si vedevano mai.

    Le suore ormai erano molto ridotte di numero, e le ragazze dell'oratorio conoscevano solo le tre o quattro più anziane. La portinaia prima di tutto: un cane da guardia in cuffia e sottana che sbarrava l'ingresso a chiunque non avesse il pezzetto di manica della lunghezza regolamentare, e impediva l'uscita alle piccole - limitandosi ad abbaiare vigorosamente alle grandi - prima delle cinque e mezza del pomeriggio, o comunque non prima che fosse finito in cappella il rito della benedizione. E madre Maria, che teneva le chiavi di tutti gli armadi, e dentro gli armadi tesori tali da fare la felicità di parecchi rigattieri; e madre Giselda, che per tutto il pomeriggio della domenica se ne stava seduta dietro il banchetto delle chicche a vendere stringhe di liquirizia e fragoloni di zucchero di un color fucsia che stingeva sulle dita e che le piccole si spalmavano sulle labbra per fingere di avere il rossetto. E madre Rosetta che d’estate ricamava sotto il melograno del cortile, e insegnava la sua arte alle poche che come Lisa detestavano il gioco del pallone.

    In fondo al cortile c'era un rialzo, separato dalla balaustrata di pietra; ci si accedeva per quattro o cinque scalini. Sotto il rialzo c'erano le grate da cui si poteva sbirciare nelle cantine, con la speranza che ci fosse abbastanza luce per poter distinguere le ossa e i teschi.

    L'oratorio e la chiesa erano stati costruiti nel secolo scorso sopra i molto più antichi ossari che raccoglievano i resti di quelli ch'erano morti a Milano e nel circondario durante le pestilenze del 1576 e del 1630. Gli ossari non erano stati interrati. Le ossa erano state riposte con ordine dentro certe nicchie nei muri: qui i teschi, là le tibie, le costole e le vertebre da un'altra parte, con precisione da archivisti. Le nicchie avevano delle inferriate che non nascondevano nulla, limitandosi a impedire il crollo delle cataste.

    Nelle giornate particolarmente luminose, stando in cortile si potevano appuntare gli occhi nel buio della cantina: e più che vedere cercare di immaginarne i misteri. Tutte le bambine dai cinque anni in su facevano follie per sbirciare là sotto di nascosto dalle grandi, che comunque erano state anche loro bambine e avevano sbirciato anche loro: le più audaci avrebbero pagato di persona pur di poter scendere in quelle cantine, ma era proibito e comunque le porte erano sempre sbarrate. Le più fantasiose cercavano di far credere alle amiche di esserci riuscite e s’inventavano improbabili sistemi di apertura, e poi certe avventure tra il terrificante e l'ingenuo di cui non avrebbero potuto vantarsi neanche i personaggi di Carolina Invernizio.

    Certamente Lisa era stata fin verso i dodici anni una romanziera delle più attive, e propinava le sue fole ad Anna e a Mariuccia come fossero verità di vangelo. Loro le stavano a sentire a bocca aperta. Anna perfino arrivava a sognarsele la notte, bianche castellane in vestaglie di voile bianco ondeggiante alle brezze soprannaturali che aleggiavano sulle grondaie del tetto, e neri mantelli di vampiri: era giusto il tempo in cui il cinema ne riscopriva la leggenda, accostando la faccia più cavallina che terrificante di Christopher Lee (munita di canini affilati e possibilmente sanguinanti) alle eburnee tette delle dive maggiorate, scoperte appena quel tanto che la pruderie americana dei primi anni sessanta poteva permettere. Il vampiro poi, appuntando gli occhi nel buio, risultava essere nient’altro che il soprabito blu della mamma, appeso all'attaccapanni dell’ingresso e intravisto dallo spiraglio della porta nel dormiveglia che precede il sonno: ma rimaneva un disagio profondo, che le faceva nascondere la testa sotto il lenzuolo.

    Lisa leggeva molto, leggeva in continuazione, e nessuno controllava le sue letture. I suoi erano troppo occupati e preoccupati, il bar rimaneva aperto dalle cinque del mattino fin dopo la mezzanotte e le cambiali scadevano ogni mese; facevano in buona fede tutto il possibile per le figlie, ma in realtà le figlie restavano per lunghe ore affidate a sé stesse. Lisa avrebbe potuto incominciare a farsi di eroina, e nessuno se ne sarebbe accorto. Il tempo dei viaggi allucinati in cui si sarebbero persi tanti ragazzi fragili e soli come lei era ancora di là da venire, ma Lisa si drogava lo stesso: leggeva. Le storie erano la sua droga. Viveva dei libri e nei libri.

    Così ogni macchia d'umido sulla parete assumeva i contorni inquietanti di una fisionomia, ogni operaio che avesse un laboratorio nelle cantine doveva per forza nascondervi segreti degni de I Misteri di Parigi di Sue; ogni porta di solaio che non venisse spalancata almeno una volta la settimana avrebbe potuto essere la tomba di una Sepolta Viva. S'era perfino inventata un Misterioso Cavaliere vestito di nero, sorgente nottetempo dalle profondità di una cripta: per dirle che l’amava e invitarla emigrare con lui nel Regno dei Morti. Poi quasi subito l’aveva dimenticato: le sue fantasticherie avevano vita breve, appena se n’era formata una nella mente subito un’altra spuntava a prenderle il posto, più cupa e più interessante.

    La cripta era quella della chiesa di san Gregorio, dove spesso i gruppi di Azione Cattolica scendevano a recitare i salmi di Compieta: che altro non era se non l’avanzo di una più antica cappella cimiteriale. Anche lì erano rimaste le nicchie degli ossari disposte lungo le pareti, inframmezzate da più recenti affreschi in cui scheletri con la falce si aggiravano tra le tombe del vecchio camposanto sotto una luna spettrale.

    Sulle lapidi dipinte si leggevano i nomi dei morti più illustri che ancora restavano sepolti sotto le lastre del pavimento. Nell'angolo in alto a destra ce n'era una che portava questa iscrizione: cavaliere Giovanni Battista Delminio, conte di ***, + 1690. E nelle lunghe liste sulle colonne, dove figuravano i nomi di coloro che non erano abbastanza importanti da possedere una lapide propria, una lunga teoria di nomi di suore, e tra quelli: suor Margherita Favalli, +1630.

    Moltissimi erano quelli che erano morti in quello stesso anno, l'anno della grande peste.

    Le ragazze ormai gli affreschi li conoscevano a memoria e non s’impressionavano più, se mai se ne erano impressionate. Ogni tanto l’occhio cadeva su uno di quei nomi, poi scivolava via senza che la mente arrivasse a registrarlo.

    Fu in una di queste occasioni che don Giulio, scendendo in cripta con una ventina di ragazzine dai tredici ai diciassette anni nel pomeriggio avanzato dell'ultima domenica di ottobre, si trovò davanti a uno spettacolo rivoltante.

    Cercò di rimandare indietro le ragazze, ma qualcuna era già scesa e impallidiva tra i conati di vomito; intanto le altre si ammassavano sulla scala stretta sussurrando domande e spiando da sopra le spalle della Delegata, mentre quelle che avevano visto tornavano indietro con gli occhi fuori della testa. Tutte bisbigliavano, e nessuna voleva scendere e nessuna voleva risalire.

    Lisa si sentì soffocare, e subito dopo un crampo l'addentò alla bocca dello stomaco facendola piegare in due. Risalì in chiesa appoggiandosi al muro e andò a sedersi sulla panca più vicina, davanti all'altare della Madonna. Le sembrava di non aver bisogno di vedere niente, perché fin dal primo momento le era parso di capire tutto. Aveva una scena davanti agli occhi, ed era una scena che la sua mente raziocinante rifiutava in maniera totale. La nausea era talmente forte che cercò di difendersi non pensandoci, e si mise a recitare il Rosario.

    Il prete nel frattempo era riuscito a calmare le due o tre che erano andate avanti, e a ordinare che tutto il gruppo tornasse in oratorio, affidandolo alla Delegata; e finalmente aveva potuto inoltrarsi nella cappella per constatare di persona.

    Nel breve corridoio tra le panche c'erano gocce di sangue coagulate sul pavimento, e man mano ci si avvicinava all'altare diventavano pozze.

    La tovaglia bianca era tutta rossa di sangue, e altro sangue colava sui muri e dai teschi ammassati nelle nicchie. Davanti al tabernacolo qualcuno aveva messo una testa di gallina nera scorticata. Penne nere di gallina erano sparse dovunque; quelle che il sangue non appiccicava ai muri e alle panche fluttuavano leggermente agli spostamenti d'aria. Sull'altare brandelli di carne schiacciati formavano strani disegni. Le zampe dell'animale sacrificato erano disposte ai piedi del Crocifisso come un ideogramma.

    Qualcosa cadde dall'alto, ed era un'ultima lenta goccia di sangue: don Giulio alzò gli occhi e vide che le interiora della gallina erano state appese come festoni ai fregi del soffitto con oscenamente artistica cura, e luccicavano con vaghe tonalità viola madreperlacee. Per un attimo nella mente stupita un solo stupito pensiero: possibile, tanto sangue in una sola gallina.

    Rivoltato, ma più ancora offeso profondamente nella sua fede, meravigliato dell'audacia e scosso per la fantasia macabra di quello scherzo così incredibilmente malvagio e stupido, si fece il segno della croce. S’inginocchiò sul pavimento insudiciato e incominciò a recitare il miserere.

    Anche Lisa di sopra, in chiesa, continuava a pregare. Lo sgranarsi del rosario placava poco a poco il dolore che l'aveva presa allo stomaco, all'angoscia si sostituiva una pesantezza degli occhi, un torpore della mente che subito divenne sonnolenza, e poi sonno profondo; scivolò sulla panca appoggiando la guancia sul braccio. Così la trovò risalendo don Giulio.

    La scosse, cos'hai Lisa ti senti male? E sentì che bruciava di febbre. Al momento non seppe che fare. La chiesa era vuota, e non aveva il coraggio di lasciarla lì sola per andare a cercare aiuto. Ma lentamente la ragazza pareva riaversi; disse qualche parola vagamente coerente, poi perfino sorrise.

    No no, non stava male per niente. Dormiva? Lei non se n'era accorta. Febbre? Ma va?

    Don Giulio le toccò la fronte e non scottava più, era quasi fresca. Se se la sentiva di tornare a casa da sola? E perché no? E le altre dov'erano? E sua sorella? Al momento Lisa sembrava aver dimenticato tutto, e il prete non disse niente; la prese sottobraccio e la riaccompagnò in oratorio, dove la notizia si era già sparsa e nell'aria c'erano orrore ed emozione, subbuglio e anche allegria: l'allegria isterica delle ragazzine e delle vecchie suore di fronte al fatto straordinario.

    Verso sera era scesa la nebbia. Alle dieci era tanto fitta che don Giulio dalla finestra della sua camera intravedeva del palazzo di fronte solo vaghe luminosità gialline.

    Non vide giù in strada un uomo alto con un cappotto lungo e nero, che si appoggiava a un antiquato bastone da passeggio.

    Don Giulio leggeva il breviario. Pregava per le sue ragazze, per le sue suore, pregava per quei mentecatti che si erano divertiti a squartare la gallina nella cripta - come di dovere aveva avvertito subito il Vescovo, lasciando alla Curia il compito di decidere se chiamare o no la polizia, se dare o no pubblicità a quella pazzia - pregava per la propria confusione e solitudine.

    In strada l'uomo camminava con passo sicuro nella nebbia, come se si orientasse a memoria. I lampioni avevano una luce scarsa e opaca, in giro non c'era nessuno. Nemmeno una prostituta lungo i bastioni, vuoti i pochi locali pubblici ancora aperti. Una sera da stare in casa, nella tranquillità della lampada accesa, nel caldo dei termosifoni, sotto le coperte con un buon libro, davanti al televisore con un bicchierino di grappa. L'uomo risaliva il corso Venezia verso piazza del Duomo. Ogni tanto allungava un'occhiata distratta agli orologi stradali. Nessuno lo vedeva sorridere nella nebbia. Faceva molto freddo e umido. Un carro attrezzi fermo vicino al marciapiedi lampeggiava in sordina la sua luce gialla; il conducente stava a guardare dalla vetrata di un bar. Una coppia di innamorati si schiacciava contro un muro, beati loro, incuranti della stagione e del mondo.

    L'uomo risalì via Torino, solitario tra le vetrine che si smorzavano sull'asfalto, svoltò per il Carrobbio e raggiunse le Colonne, tristi per la serata e spettrali; s'intravedeva una lugubre piazza Vetra con l'ombra delle Basiliche. S'inoltrò in corso di porta Ticinese. A mano a mano la nebbia infittiva e ingialliva, fino a formare sulla Darsena una coltre di gelatina spessa e oleosa.

    Ignorò un mucchio di stracci e cartoni che ricopriva una panchina, e rivelava al di sotto una vaga forma umana. Scavalcò il cancelletto e scese sulla banchina. La superficie dell’acqua era nera e piatta e oleosa, e vi strisciava un vapore pesante.

    Lo vide il barbone rannicchiato sulla panchina, ché in una notte come quella non si poteva parlar di dormire ma soltanto di passarla alla meno peggio senza che l'umidità e il freddo lasciassero sollievo all’artrosi; ne sentì il passo, ma non volle uscire dal suo riparo effimero e aprì soltanto gli occhi per guardare quello che gli apparve al momento un aspirante suicida.

    Subito gli venne in mente di alzarsi e tentar di fermarlo, parlargli. Fare la parte dell'angelo custode come in un vecchio film di Frank Capra: non vedi la vita com'è bella? La vita di chi non ha ancora avuto il coraggio di affogarsi e dorme sotto i cartoni, la vita di chi non sa se domani riuscirà a rimediare un panino con la mortadella, e ha messo al mondo tre figli e adesso non sa più neanche se sono vivi o morti. Si mise a ridacchiare piano. Il senso del ridicolo era l'ultima cosa che gli era rimasta. In fondo, che si buttasse pure quel tale; probabilmente era la soluzione migliore anche per lui.

    Ma l’altro s'era fermato sull'orlo dell'acqua.

    Lisa dormiva da un pezzo, le lenzuola a fiori, il pigiama rosa, l'antologia degli autori latini caduta sul pavimento dopo un ultimo tentativo di ripasso. Non aveva detto alla mamma di quel mancamento in chiesa. Sapeva per esperienza quale sarebbe stata la reazione: Hai preso freddo l’altro giorno, che nevicava e sei tornata a casa tutta bagnata. E’ tutta colpa tua. E speriamo che non si sia presa un malanno anche tua sorella, tu non ci pensi mai a lei che è più piccola; e chissà oggi come avete sudato nel cortile dell’oratorio. Avrebbe misurato la febbre a tutte e due e le avrebbe obbligate a bere quella tisana disgustosa, più una punizione che una medicina.

    Il riflesso grigio della finestra si disegnava preciso sul pavimento di piastrelle, appena variegato dall'ombra delle tendine di pizzo.

    La ragazza dormiva di un sonno faticoso e profondo, con sogni confusi in bianco e nero. Conosceva quei sogni.

    Corridoi lunghissimi e opprimenti alternati a profonde rampe di scale; e canti gregoriani in lontananza, parole confuse mormorate all’orecchio, e una sensazione di soffocamento, d’impiccio come di bende avvolte intorno alla testa.

    Tormentosamente cercava di uscirne e ogni volta con senso di sollievo si svegliava nella sua stanza, per accorgersi subito dopo di essere in una celletta bianca con la finestra sbarrata da una croce. Sapendo di dover fare con urgenza qualcosa di irrevocabile, e senza riuscire a ricordarsi che cosa.

    Finché scese una scalinata di pietra ripida e lunga, senza ripari, da una parte il muro e dall’altra il vuoto, verso profondità sempre più gelide e oscure; e nel sonno pensava che la trapunta fosse scivolata via, e andava cercando di ricoprirsi tastoni. Poi fu sul fondo, in una cripta dove strani fuochi azzurri fumigavano in lampade di creta; e davanti a sé vide le proprie mani protese, mani lunghe e bianche che non riconobbe ma che seppe essere sue, e sulle mani qualcuno deponeva un libro che pareva un messale spalancato; e udì la propria voce cantilenare frasi che non avevano senso, e la voce d’un uomo dietro di lei intonare altre frasi.

    Allora alzò gli occhi, e quel che era sorto davanti a lei nel buio era così enorme e spaventosamente estraneo che si destò finalmente, gridando. Sua sorella era già in piedi vicino al suo letto e la scuoteva.

    L'uomo sul ciglio della banchina frugò nella tasca del cappotto e ne trasse qualcosa che aveva le dimensioni di un libro tascabile.

    Il barbone aguzzò gli occhi, gli erano sempre piaciuti i gialli. Ogni tanto ne rimediava qualcuno razzolando nei bidoni dei rifiuti e in mezzo alla carta da macero, e quello era un giorno di festa.

    Improbabile che un aspirante suicida avesse intenzione di leggere, soprattutto in quella notte e con quella luce; forse il fascicoletto anche così leggero gli dava fastidio, chissà lo ingombrava e gli impediva di tenere la mano sprofondata al caldo nella saccoccia e magari avrebbe voluto buttarlo, abbandonarlo nel cestino dell’immondizia dove lui l’avrebbe recuperato il giorno dopo.

    Ma non era un libro, era un piccolo blocco bianco, forse di cera. Su un lato aveva delle incisioni che si distinguevano perfettamente anche nell’ombra anche da così lontano: quasi fossero luminose, oppure quasi fossero nere, più nere del nero; ma non per questo erano comprensibili. Il loro insieme sfuggiva alla vista.

    L'uomo lo levò in alto sopra la testa e si mise a declamare.

    - O tu che giaci morto ma eternamente sogni, odi, il tuo servo ti chiama, odi, o possente Cthulhu! Odi, o Signore dei Sogni! Nella tua torre di R'lyeh ti hanno imprigionato, ma Dagon infrangerà le tue maledette catene, e il Tuo Regno risorgerà. Gli abitatori del profondo conoscono il Tuo Nome Segreto l'Idra conosce il Tuo Nome. Dammi il Tuo Segno, affinché io possa conoscere la Tua volontà sulla terra. Quando la morte morirà verrà il Tuo Tempo e Tu non dormirai più: concedimi il potere di acquietare le onde affinché io possa udire il tuo richiamo. -

    Una tiritera senza senso, pensava il barbone. L’uomo la ripeté per tre volte, poi strinse il pugno della mano sinistra e stendendo il dito medio fece quel gesto che comunemente ha il significato di: fottiti.

    Il barbone era sempre più interessato, non capitava spesso un matto a piede libero che desse spettacolo.

    Il blocchetto che forse era di cera descrisse un arco sopra le acque e andò a piombare al centro della darsena.

    - Nella sua casa di R'lyeh il morto Cthulhu attende sognando! Eppure Egli risorgerà e il Suo Regno coprirà la terra; eppure Egli verrà a te nel sonno e ti mostrerà il Suo Segno con cui schiuderai i segreti del profondo.

    L'acqua incominciò a ribollire, come se si volesse riversare tutta al centro del bacino; si alzava e gonfiava come cosa

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