Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il signore della notte (eLit): eLit
Il signore della notte (eLit): eLit
Il signore della notte (eLit): eLit
E-book390 pagine5 ore

Il signore della notte (eLit): eLit

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Wings in the night 5
Misterioso, cupo e affascinante, popola le fantasie di ogni donna.
Ma la sua è una vita solitaria, dominata da oscurità e pericolo.

Quando Morgan DeSilva trova degli antichi diari nella soffitta di una vecchia villa, si trova catapultata nell'affascinante mondo di Dante, uno scrittore geniale ma evidentemente folle, convinto di essere un vampiro. Per lei, aspirante sceneggiatrice, portare sul grande schermo quella storia cupa e misteriosa è un colpo di fortuna, ma una volta diventata ricca e famosa la sua salute mentale inizia a vacillare. Quel bellissimo vampiro popola i suoi sogni ogni notte, le fantasie erotiche di cui è protagonista sono così vivide che la mattina, svegliandosi, Morgan riesce a vederne i segni sul collo. E la sensazione che la vita le venga risucchiata lentamente dal corpo si fa sempre più intensa, quasi come se ciò che accade fosse davvero reale...
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788858989050
Il signore della notte (eLit): eLit
Autore

Maggie Shayne

RITA Award winning, New York Times bestselling author Maggie Shayne has published over 50 novels, including mini-series Wings in the Night (vampires), Secrets of Shadow Falls (suspense) and The Portal (witchcraft). A Wiccan High Priestess, tarot reader, advice columnist and former soap opera writer, Maggie lives in Cortland County, NY, with soulmate Lance and their furry family.

Correlato a Il signore della notte (eLit)

Titoli di questa serie (11)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica paranormale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il signore della notte (eLit)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il signore della notte (eLit) - Maggie Shayne

    Titoli originali delle edizioni in lingua inglese:

    Twilight Hunger

    Mira Books

    © 2002 Margaret Benson

    Traduzione di Gigliola Foglia

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-905-0

    1

    Noi bambini avremmo dovuto dormire...

    Ma ci svegliammo, come rispondendo a un silenzioso richiamo. Strisciammo all’ingresso delle nostre tende e dei nostri carri, attratti come falene dalle fiamme crepitanti del falò e dalle scure ombre saltellanti che la donna sconosciuta proiettava danzando.

    Non si sentiva alcuna musica. Sapevo che non ce n’era, eppure avevo ugualmente la sensazione che una melodia mi riempisse il cuore mentre la osservavo. Roteava, le sciarpe che seguivano la sua scia come spettri colorati, i capelli neri come la notte che scintillavano di blu nel bagliore del fuoco. Si inarcò e si piegò e di nuovo piroettò. Infine si fermò, immobile, e i suoi occhi simili a gemme di ossidiana fissarono i miei. Labbra scarlatte si incurvarono in un terrificante sorriso, e lei mi puntò contro un dito, piegandolo a uncino.

    Cercai di deglutire, ma il bolo di freddo terrore nella mia gola non si allentò. Lanciai un’occhiata alle tende e ai carrozzoni dipinti della mia gente, e vidi gli altri bambini della carovana che la spiavano proprio come facevo io. Alcuni dei miei cugini erano più grandi di me, alcuni più piccoli. La maggior parte mi assomigliavano molto: pelle olivastra, occhi tondi e neri, dalle ciglia troppo folte per dei maschi ma adorabili nelle bambine. I loro capelli erano incolti, come i miei, ma puliti e neri come l’ala di un corvo.

    Eravamo tutti fieri gitani. La donna che danzava... era anche lei una zingara, lo capii al primo sguardo. Era una di noi.

    E mi stava ancora chiamando con il dito.

    Dimitri, più anziano di me di tre anni, mi rivolse un’occhiata di superiorità e bisbigliò: «Va’ da lei. Ti sfido!».

    Solo per dimostrarmi più coraggioso di lui, raddrizzai le spalle e uscii dalla tenda di mia madre, avanzando con passo esitante. Gli altri, attingendo coraggio dal mio, cominciarono a uscire anche loro. Lentamente ci raccogliemmo attorno alla bella sconosciuta come peccatori venuti a prostrarsi ai piedi di una dea. Il suo sorriso si fece più ampio. Ci accennò di andare più vicino, un dito sulle labbra, e poi sedette su un ciocco vicino al falò.

    «Chi è?» bisbigliai a Dimitri, poiché anche lui si era unito a noi. Probabilmente si vergognava di se stesso, pensai, per non aver preso la nostra guida fin da principio.

    «Stupido, non sai proprio niente? È nostra zia.» Scosse la testa con disgusto, prima di riportare lo sguardo rapito sulla donna. «Il suo nome è Sarafina» disse. «Viene di tanto in tanto... anche se immagino che tu sia troppo piccolo per ricordare la sua ultima visita. Non dovrebbe essere qui. Quando i grandi lo scopriranno, saranno guai.»

    «Perché?» Anch’io ero ammaliato dalla misteriosa sconosciuta che si accomodava sul ciocco, allargando attorno a sé gli strati delle coloratissime gonne, aprendo le braccia ad accogliere i piccoli che si affollavano per sedersi a terra tutt’attorno a lei. Io sedetti più vicino di tutti, proprio ai suoi piedi. Non avevo mai visto una donna così bella. Ma c’era anche dell’altro in lei. Qualcosa di ultraterreno. Qualcosa di terribile.

    E il modo in cui i suoi occhi continuavano a incontrare i miei... C’era un segreto in quel nero sguardo, un segreto che non riuscivo a vedere.

    «Perché saranno guai?» bisbigliai di nuovo.

    «Perché?! Lei è stata bandita!»

    Aggrottai le sopracciglia. Stavo per chiedere come mai, ma proprio in quel momento la donna – mia zia, che non avevo mai visto – cominciò a parlare. La sua voce era come una canzone. Ipnotica, profonda, allettante.

    «Venite, piccoli. Oh, come mi siete mancati.» Il suo sguardo percorse le facce dei bambini, l’espressione degli occhi quasi dolorosa a vedersi, tanto intensa era l’emozione che trapelava. «La maggior parte di voi non si ricorda affatto di me, vero?» Il suo sorriso impallidì. «E tu, piccolo Dante. Quanti anni hai adesso?»

    «Sette» risposi, la voce un mero sussurro.

    «Sette anni» ripeté lei con un sospiro grave. «Io c’ero il giorno in cui nascesti, sai.»

    «No... non lo sapevo.»

    «Non fa niente. Oh, bambini, ho talmente tanto da raccontarvi. Ma prima...» Aprì una sacca chiusa da cordicelle che le pendeva dalla fusciacca attorno alla vita, e cominciò a estrarne oggetti stupendi, consegnandocene uno per ciascuno. Dolciumi e confetti come non ne avevamo mai assaggiati, avvolti in carta a colori vivaci. Splendenti gingilli appesi a catenelle, e pietre luccicanti di ogni tipo, scolpite a forma di animali e uccelli.

    Quella che diede a me era un ciottolo di onice nero a forma di pipistrello. Rabbrividii quando mi depose l’oggetto freddo nel palmo.

    Una volta che la sacca fu vuota e i bambini di nuovo tutti tranquilli, lei prese a parlare. «Ho visto talmente tante cose, piccoli. Cose che non credereste. Ho viaggiato fino alle terre desertiche, e là ho veduto costruzioni alte come montagne, ogni singola pietra più grossa di un intero carrozzone gitano! Perfette e lisce sono, e appuntite in cima.» Usò le mani per tracciare nell’aria davanti a noi la forma di quelle meraviglie. «Nessuno sa chi le abbia costruite, né quando. Sono lì da sempre, dice qualcuno. Altri raccontano che furono edificate come monumenti ad antichi re, e che i corpi di quei regnanti ancora riposano all’interno, insieme a tesori indicibili!» Quando i nostri occhi si dilatarono, lei annuì con energia, facendo danzare i riccioli corvini e tintinnare gli orecchini. «Sono stata al di là del mare, fino a una terra dove creature dai colli lunghi come... come quell’albero di tasso laggiù, camminano su esili zampe e addentano le foglie giovani dalla cima degli alberi. Giallo oro sono, e macchiettate! Con cornetti in cima alla testa!»

    Scossi la testa incredulo. Senz’altro stava inventando storie.

    «Oh, Dante, è vero» disse. E i suoi occhi tennero i miei, le sue parole per me soltanto, ne fui certo. «Un giorno anche tu vedrai queste cose. Un giorno te le mostrerò io stessa.» Abbassando una mano, tracciò un sentiero tra i miei capelli e si chinò più vicino, bisbigliandomi all’orecchio: «Tu sei il mio ragazzino speciale, Dante. Tu e io condividiamo un legame più potente perfino di quello che hai con la tua stessa madre. Rammenta le mie parole: tornerò per te, un giorno. Quando avrai bisogno di me, io verrò».

    Rabbrividii, senza capire perché.

    Poi mi irrigidii sentendo mia nonna strillare. «Bandita!» gridò con voce stridula, avventandosi fuori dalla sua tenda e protendendo le dita come pugnali verso Sarafina nel gesto che si diceva scacciasse il male, le due dita mediane ripiegate, indice e mignolo che puntavano dritti in fuori. Produsse un sibilo così facendo, che mi fece pensare a un serpente con una dardeggiante lingua biforcuta.

    I bambini si dispersero. Sarafina si alzò lentamente, il ritratto della grazia, e io solo rimasi davanti a lei. Quasi senza pensarci, mi alzai in piedi e mi voltai a fronteggiare la nonna. Come se volessi proteggere l’adorabile Sarafina. Come se potessi. Davo le spalle alla donna adesso, e quando le sue mani si chiusero sulle mie spalle mi sentii più alto. Poi la nonna mi lanciò un’occhiataccia, e credetti che mi sarei rattrappito fino alle dimensioni di una pulce della sabbia.

    «Non puoi tollerare la mia presenza neppure una volta ogni pochi anni, vecchia?» domandò Sarafina. La sua voce non era più amabile o dolce o gentile. Era profonda e chiara... e minacciosa.

    «Non hai niente da fare qui!» ribatté la nonna.

    «Invece sì» replicò lei. «Voi siete la mia famiglia. E vi piaccia o no, io sono la vostra.»

    «Tu non sei niente. Tu sei maledetta. Vattene!»

    Il caos eruppe attorno a noi mentre le madri, destate dal rumore, si precipitavano fuori da tende e carrozzoni, raccoglievano i figli e li riportavano dentro in fretta. Agirono come se al fuoco del nostro accampamento fosse comparso un lupo assassino, anziché una zia reietta di rara bellezza, che portava doni esotici e sorprendenti racconti.

    Venne anche mia madre. Mentre correva verso di me mi infilai su per la manica la pietra a forma di pipistrello. Si fermò prima di raggiungermi e fissò Sarafina. «Ti prego» fu tutto quello che disse.

    Vi fu un momento di silenzio mentre qualcosa passava tra le due donne. Un qualche messaggio inespresso, che lasciò gli occhi di mia madre tristi e pieni di lacrime.

    Sarafina si chinò e mi premette sulla guancia le labbra fredde. «Ti rivedrò, Dante. Non dubitarne mai. Ma per adesso vai. Va’ dalla tua mamma.» Mi diede una lieve spinta e mi lasciò le spalle.

    Raggiunsi mia madre, quasi odiandola perché mi costringeva a lasciare la misteriosa Sarafina prima di aver avuto un’occasione per apprendere i suoi segreti. Lei mi afferrò stretto il braccio e corse alla nostra tenda. Una volta dentro, chiuse il lembo e mi prese il viso tra le mani, cadendo in ginocchio davanti a me. «Ti ha toccato?» gridò. «Ti ha marchiato?»

    «Sarafina non mi farebbe mai del male, mamma. Lei è mia zia. È gentile, e bellissima.»

    Ma mia madre parve non udire le mie parole. Mi inclinò la testa da una parte e dall’altra, scostandomi i capelli ed esaminandomi la pelle. Me ne stancai molto presto e mi liberai con uno strattone.

    «Non dovrai mai più andarle vicino, mi hai sentito, Dante? Se la vedi, devi venire da me immediatamente. Promettimelo!»

    «Ma perché, mamma?»

    La sua mano mi schiaffeggiò così all’improvviso che sarei caduto se lei non mi avesse ancora artigliato il braccio con l’altra. «Non fare domande! Prometti, Dante. Giuralo sulla tua anima!»

    Abbassai il capo, la guancia bruciante, e borbottai: «Prometto». Provavo vergogna per le lacrime che mi bruciavano gli occhi, dovute più allo sbalordimento che al dolore. La mano di mia madre di rado scattava di rabbia. Non capivo perché l’avesse fatto quella notte.

    Poi lei si inginocchiò, le mani sulle mie spalle, il viso sciupato vicino al mio. «È una promessa che devi mantenere, Dante. Rischi l’anima se la infrangi.» Tirò il fiato, sospirò, e baciò la guancia che aveva appena colpito. «Adesso, a letto.» Era un po’ più calma, la voce quasi normale.

    Io invece non ero affatto calmo. Qualcosa mi aveva destato il sangue, quella notte. Mi trascinai a letto, mi tirai addosso le coperte e feci cadere la fredda pietra-pipistrello dalla manica nella mano. La strinsi, ne accarezzai con il pollice la liscia superficie, sotto la coperta dove mia madre non poteva vedere. Lei mi sorvegliò per un lungo momento, poi spense la lampada e si accoccolò... non sul proprio letto, bensì sul pavimento accanto al mio, con una coperta consunta come unico giaciglio.

    Nel silenzio, mi rigirai verso il lato della tenda e infilai un indice attraverso il minuscolo foro che avevo praticato nella tela per poter osservare gli adulti attorno al falò molto dopo che avevano mandato a letto i bambini. Tirai, allargando un po’ di più il buco nell’oscurità. E attraverso quel forellino, osservai e ascoltai mentre la nonna, la vecchia della carovana, la donna più anziana a venerata della famiglia, affrontava la donna più vibrante e bella che avessi mai visto in vita mia.

    «Perché ci tormenti tornando in mezzo a noi?» chiedeva la nonna, mentre le fiamme danzanti dipingevano il suo viso simile a cuoio di arancio e marrone, ombre e luci.

    «Perché? Tu, mia sorella, mi chiedi perché?»

    «Sorella, bah!» La nonna sputò per terra. «Tu non sei sorella mia, ma di un demone. Bandita! Maledetta!»

    Scossi la testa per la meraviglia. Che cosa voleva dire Sarafina? Sorella? Non poteva essere sorella della vecchia più di quanto potessi esserlo io.

    «Dimmi perché vieni, demone! Sono sempre i bambini che cerchi, quando torni. È per uno di loro, vero? La tua disgraziata maledizione è stata trasmessa a uno di loro! Non è così? Non è così?»

    Sarafina sorrise, il viso angelico e demoniaco al tempo stesso bagnato dal bagliore del fuoco. «Vengo perché voi siete tutto ciò che ho. Tornerò sempre, vecchia. Sempre. Molto dopo che tu sarai tornata alla polvere, io ritornerò ancora, portando doni ai piccoli. Trovando nei loro occhi e nei loro sorrisi l’amore e l’accettazione che mia sorella mi nega. E non c’è niente che tu possa fare per impedirlo.»

    Prima di voltarsi, Sarafina guardò oltre la nonna, dritto nei miei occhi. Come se avesse saputo per tutto il tempo che io ero là, a osservarla dall’altro lato di quel minuscolo foro nella tenda. Non poteva avermi visto. E tuttavia doveva essere così. Le sue labbra si incurvarono lievemente agli angoli, e la sua bocca si mosse. Anche se non ne emerse alcun suono, io capii la parola che bisbigliò. Ricorda.

    Poi si voltò, le sottane svolazzanti, e svanì nella notte. Vidi indugiare i colori delle fusciacche come code dietro di lei, per un attimo. Poi l’oscurità della notte si chiuse dove prima era lei, e non la vidi più.

    Rabbrividii. Ero io. Mia zia era venuta per me. Che cosa volesse da me, non potevo indovinarlo. Come lo sapessi era un mistero. Ma ero certo nell’intimo che lei aveva una ragione per tornare e sfidare un tale odio.

    E la ragione ero io.

    Piano, piano, il fumo dell’accampamento zingaro si assottigliò. La luce delle fiamme si attenuò, e il calore (così reale che lei avrebbe giurato di poterlo sentire sul viso) si raffreddò.

    Morgan DeSilva batté le palpebre per sottrarsi a quella fantasticheria. Non stava guardando un campo di gitani attraverso gli enormi occhi scuri di un bambino. Era seduta sul pavimento di un attico polveroso, a fissare le pagine ingiallite dal tempo di un diario scritto a mano, rilegato in pelle così vecchia da sembrare morbida come burro sotto le mani. La visione dipinta dalle parole che segnavano come una ragnatela le antiche pagine era stata vivida. Quasi... reale. Come se lei fosse stata in quel campo zingaro nel lontano passato, invece che sulla costa del Maine all’inizio della primavera del 1997.

    Girò pagina, impaziente di continuare a leggere...

    Lo squillo del telefono, che risuonò debolmente in lontananza, la bloccò. Con un sospiro rassegnato, chiuse il grosso volume e lo rimise con cura nel vecchio baule, in cima a una pila di altri diari del tutto simili. Quando chiuse il coperchio, i cardini gemettero e si alzò un minuscolo sbuffo di polvere. Strofinandosi le mani sui jeans, Morgan soffiò sulle candele che erano l’unica fonte di luce nella stanza e si affrettò giù per le anguste, ripide scale del solaio.

    Non si era aspettata di trovare alcunché lassù tranne ragnatele e polvere. Esplorare la soffitta era stato un esercizio di temporeggiamento, non un atto di curiosità. Se il suo lavoro fosse andato avanti, in qualche direzione, non si sarebbe mai curata di ficcanasare in quella casa che invecchiava, che si ripiegava su se stessa.

    E sarebbe stato un vero peccato.

    Corse per il corridoio, tra pareti di gesso che si sbriciolavano lasciando intravedere il canniccio sottostante, verso la successiva rampa di scale. Queste erano più larghe, ma in condizioni non molto migliori di tutto il resto in quella casa. Al terzo scalino dall’alto mancava un’assicella, e lei automaticamente lo saltò e continuò a correre mentre il telefono continuava a suonare.

    Se fosse stato un altro avvocato o esattore, pensò senza fiato, lo avrebbe cacciato via oppure ammazzato.

    L’ampia scala sbucava in un’enorme stanza che un secolo prima doveva esser stata sontuosa. Ora era vuota, fatta eccezione per qualche eco spezzata e un groviglio di fili scoperti che sporgevano dal soffitto rovinato, dove un tempo doveva esserci stato un magnifico lampadario. Oltre quella stanza, al di là di una coppia di doppie porte, c’era la sua camera. Il suo... ufficio. Per il momento, almeno, finché non avesse ritrovato la propria creatività e fosse tornata a Los Angeles in trionfo.

    Al contrario di com’era partita.

    Il cuore le batteva forte per lo sforzo quando finalmente arrivò al telefono, senza fiato, con lievi vertigini e una mano premuta sul petto. Ridicolo per una ventenne stancarsi così facilmente, eppure così era. Non era mai stata sprizzante di salute, e sapeva che mai lo sarebbe stata. Ma almeno le sue condizioni non avevano ancora cominciato a peggiorare. Era troppo presto. Aveva talmente tante cose da fare.

    Afferrò il telefono, che era antiquato quanto il resto del palazzo. Il ricevitore pesava almeno due libbre, valutò, e il disco rotante pareva burlarsi dei suoi gusti high-tech.

    Se il suo «Pronto?» suonò irritato, fu perché stava morendo dalla voglia di leggere ancora quei diari su nel solaio, di scoprire altro sul loro autore. Poteva essere sul punto di riconoscere di essere una scribacchina priva di talento, ma riconosceva ancora la buona scrittura quando la leggeva. E quella era dolorosamente buona.

    «Morgan? Perché ci hai messo tanto? Mi stavo preoccupando.»

    La sua irritazione svanì nel sentire la voce familiare di David Sumner. Il suo zio onorario (un titolo che lei aveva smesso di usare molto tempo prima) era l’unica persona che non le aveva voltato le spalle quando era finita da ricca fanciulla viziata a orfana senza un centesimo nel giro di poche ore. Lui era l’unica persona che non le dispiacesse sentire, in quel preciso momento.

    «Ehi, David» disse. «Stavo solo... esplorando. Questo posto è enorme, sai.»

    «No, non lo so, non essendoci mai stato. Sembri un po’ affannata.»

    «Due rampe di scale mi fanno questo effetto.»

    Notò la sua esitazione. Lui tendeva a preoccuparsi per lei molto più di quanto dovesse.

    «Com’è il posto, comunque?» domandò infine.

    «Un rudere» rispose lei in tono scherzoso, in parte per tranquillizzarlo e in parte perché si divertiva a prenderlo in giro. «E ben ti sta per averlo comprato senza vederlo.»

    Poteva quasi vedere il suo volto raggrinzito, le rughe d’espressione attorno agli occhi, il principio di calvizie. David era il suo migliore amico da quando riusciva a ricordare. Un amico di famiglia l’avevano sempre definito i suoi genitori. Ma a Morgan era parso che lui tollerasse a malapena la famiglia.

    Naturalmente, lui aveva saputo fin da principio la verità sui suoi genitori. Lei l’aveva appresa solo di recente, dai titoli dei giornali e dagli avvoltoi delle aule di tribunale.

    «L’ho comprata per la posizione, lo sai» le rispose David. «E mi fido del mio guru immobiliarista. L’edificio sta cadendo a pezzi, comunque.»

    «Sì, in effetti» disse Morgan. «Mentre parliamo.»

    David rimase in silenzio per un istante. «È ridotto davvero così male?»

    Morgan si sarebbe presa a schiaffi. A volte riusciva a essere proprio una piccola egoista... «Ma no» si affrettò a dire. «Stavo scherzando.» Si guardò attorno, osservando la stanza che aveva scelto per abitarci. Era stata la biblioteca o lo studio di qualcuno, un tempo.

    Pensò al bambino di cui stava leggendo e si chiese se fosse mai appartenuta a lui. A tarda età, magari, quando aveva deciso di scrivere le proprie memorie.

    Con la coda dell’occhio, lo vide. Una scura sagoma dalle ampie spalle, china sullo scrittoio, con una penna a calamo nella lunga mano aggraziata. Le sobbalzò il cuore, trattenne il fiato e si voltò verso di lui. Ma non c’era niente. Nessun uomo, nessuna sagoma, nessuna penna d’oca. Solo il suo computer. Qualunque cosa avesse visto c’era stata e poi era svanita. Una visione. Una forma immaginata. Una piccola iperattività della sua immaginazione.

    Un brivido si fece strada lungo la sua spina dorsale, ma lei lo scosse via.

    «Descrivimela» stava dicendo David.

    «Che cosa?» chiese lei, strappando gli occhi dal vecchio scrittoio.

    «La casa. Descrivimela.»

    Morgan lanciò un’altra occhiata verso la scrivania. Nessuno. Sospirando, cercò di esaudire la richiesta di David. «Deve essere stata incredibile, una volta. La decorazione a volute attorno alla mensola del caminetto è consunta e sbiadita, ma lussureggiante. Penso sia palissandro. Vorrai estrarre questo pezzo intero prima di demolirlo. E c’è un’incastellatura lavorata a mano che contorna ciascuna delle finestre. Questo posto ha... non so... qualcosa.»

    «È lontano da ciò a cui sei abituata» commentò David.

    «Sì, ecco, non è Beverly Hills, e non avremo attorno stelle del cinema per feste a bordo piscina... ma se così fosse non combinerei granché, no?»

    «E lo stai facendo? Un po’ di lavoro?»

    Morgan guardò lo schermo azzurro del computer... che era sfuggito agli ufficiali giudiziari solo perché era con lei all’UCLA quando i suoi genitori erano stati uccisi e si era scoperto il vero stato delle loro finanze. Erano in bancarotta, e così immersi nei debiti che Morgan riusciva a stento a farsi entrare nella testa i numeri effettivi. Non era riuscita a darvi un senso, sulle prime. Suo padre era un regista di successo, sua madre un’attrice che aveva raggiunto l’apice della carriera un decennio prima e negli ultimi tempi aveva ricoperto qualche piccolo ruolo, ma che tuttavia era parsa contenta della propria vita.

    O così Morgan aveva creduto. Poi si era resa conto di aver vissuto dentro una bolla. Il livello di cocaina nel fisico dei suoi genitori la notte dell’incidente era così alto che il medico legale si era chiesto come fossero riusciti anche solo a guidare.

    Erano dei tossicodipendenti, e l’intero loro stile di vita una menzogna.

    La casa e tutto ciò che c’era dentro erano stati venduti per coprire una parte del debito accumulato, e Morgan aveva dovuto lasciare la scuola. La sua retta non veniva pagata da mesi. E a quanto pareva le sue amicizie erano labili come David aveva sempre cercato di farle capire, perché una volta venuta fuori la verità l’avevano abbandonata come il guardaroba vecchio dell’anno prima, mentre coloro che lei aveva sempre considerato inferiori parevano segretamente divertiti dai suoi guai. Negli ultimi giorni che aveva passato al campus, aveva trovato pagine di giornali affisse con puntine da disegno sui tabelloni degli avvisi in ogni aula, che urlavano della segreta vita infestata dalla droga della famosa coppia che sembrava avere tutto. L’incubo dietro la favola, e la povera ragazza ricca lasciata a raccogliere i cocci.

    Era scappata da Los Angeles con la coda tra le gambe, senza un posto dove andare e niente che le fosse rimasto tranne le poche cose che era riuscita a portare con sé. Era entrata nel viale della casa di David con nient’altro che la propria Maserati (intestata a suo nome, grazie a Dio) e la roba che aveva stipato nella minuscola valigia. Lui era la sua unica speranza, e si era quasi aspettata che le voltasse le spalle disgustato, proprio come tutti gli altri.

    Ma lui non l’aveva fatto. L’aveva aiutata a vendere l’auto, ad acquistarne una modesta, usata, e a intascare la differenza. Quando gli aveva detto di aver bisogno di un nascondiglio dove andare a leccarsi le ferite, le aveva risposto che poteva usare quel posto nel Maine, gratis, per tutto il tempo che le serviva.

    Che non sarebbe stato molto, pensò Morgan. Aveva sempre avuto l’intenzione di diventare una sceneggiatrice di successo. Semplicemente, avrebbe dovuto succedere un po’ prima di quanto preventivato. David era un produttore. Le avrebbe dato una mano a trovare i contatti giusti, magari avrebbe perfino prodotto lui stesso il suo film. Aveva promesso di darle una spinta. Di aiutarla in tutto ciò che poteva.

    Tutto ciò di cui lei aveva bisogno era il materiale.

    «Morgan?» La voce di David la distolse dal percorso vagante dei suoi pensieri. «Mi hai sentito? Ti ho chiesto come sta procedendo la sceneggiatura...»

    Lei batté le palpebre verso lo schermo vuoto del computer. Il cursore ammiccava. «Alla grande. Sta venendo bene.» Tanto bene che lei aveva deciso di andare a esplorare quell’antico rudere piuttosto che continuare la battaglia con lo schermo bianco. L’unico tasto della tastiera che aveva usato con una discreta frequenza era quello per cancellare. Da quando era arrivata lì, non aveva prodotto altro che spazzatura.

    «Sai, è più che naturale che tu possa avere qualche problema a cominciare» la incoraggiò David. «Non sforzarti. Ne hai passate tante. La tua mente ha bisogno di tempo per digerire tutto.»

    Morgan si strinse nelle spalle. «Non è quello.»

    «No?»

    «Certo che no. Sono passati sei mesi. Mi sono totalmente ripresa.»

    «Dall’aver perso i tuoi genitori, il tuo patrimonio, la tua casa, la tua istruzione e quella che pensavi essere la tua identità?» Fece schioccare la lingua. «Io non credo.»

    «Ebbene, sì. E per dirti la verità, scoprire che sono stata adottata ha spiegato un sacco di cose. Voglio dire, tu sai che i miei genitori non sono mai stati poi così... affettuosi.»

    «Era la cocaina, tesoro. Non l’adozione. Non tu.»

    Morgan si schiarì la gola quando prese a serrarsi, e si diede un calcio mentalmente. «Quanto al resto... lo riavrò tutto indietro, David. Tutto ciò che ho perso. E anche di più.»

    Udì il sorriso nella voce di lui. «Non ne dubito minimamente.»

    «Neanch’io» disse Morgan, lanciando di nuovo un’occhiata allo schermo intonso, sentendosi quasi soffocare dai dubbi che aveva negato. Dannazione, perché scrivere una sceneggiatura campione d’incassi non poteva essere facile come aveva sempre pensato? Era solita guardare i film con la sensazione di poter fare di meglio perfino nel sonno.

    «Allora quando mi farai leggere la sceneggiatura?» chiese lui.

    Morgan desiderava tanto saperlo. «Un capolavoro richiede tempo... ed è... così imprevedibile.»

    «Ho bisogno di un progetto per l’autunno. Sto tenendo un buco libero per te, Morgan. Tre mesi. Mi serve il materiale entro tre mesi. Puoi farcela? Scrivere durante l’estate e consegnarmelo a settembre?»

    Sollevando il mento, deglutendo a forza, lei rispose: «Lo avrò finito per settembre. Nessun problema».

    Grosso problema.

    «Fantastico» disse David. «Andrai benissimo, Morgan. Puoi farcela a superare tutto questo.»

    «Certo che posso.»

    «Ti serve qualcosa?»

    «No, no, sono a posto.»

    «I fondi ti bastano ancora?»

    Lei si inumidì le labbra, costrinse la bugia a venir fuori. Come le aveva suggerito David, aveva prosciugato i propri conti bancari prima che gli ufficiali giudiziari e i creditori potessero impossessarsi del denaro, e aveva avuto il contante della macchina. Ma anche se lì non pagava affitto, c’erano altre spese: il telefono, l’elettricità, e doveva pur mangiare. A dire la verità, il denaro nel suo conto corrente si stava assottigliando a vista d’occhio. «Sono a posto» ripeté.

    «Ottimo» disse David sottovoce. «Ottimo. Fammi sapere se c’è qualcosa che ti occorre.»

    «Lo farò, David.»

    Lui restò un istante in silenzio. «Che mi dici della salute?»

    Morgan sospirò. «Sai come odio essere ritenuta malaticcia.»

    «Ho detto che sei malaticcia?»

    «No.»

    «Ebbene?»

    Lei imbronciò le labbra. «L’aria pulita e frizzante che si respira quassù sta facendo meraviglie» mentì. Che cosa poteva dirgli? La verità? Che lì era freddo e tetro e umido, e che la irritava l’idea che una temperatura di quindici gradi in aprile inoltrato fosse considerata un’ondata di calore, quando avrebbe potuto crogiolarsi al caldo accanto alla piscina dei genitori, lavorando sull’abbronzatura, se fosse stata a casa? Ma non faceva alcun bene desiderare ciò che non poteva avere.

    «Devo andare, David» bisbigliò con un nodo in gola. «Se devo finire di scrivere la sceneggiatura per l’autunno, devo mettermi d’impegno.»

    «Okay, tesoro. Ma chiama, se ti serve qualcosa.»

    «Lo farò, David. Grazie.»

    Morgan posò il vecchio ricevitore sulla forcella e si mordicchiò il labbro inferiore. Girò la traballante sedia di legno verso lo schermo del computer, si assicurò un’altra volta che non ci fosse nessuno, e finalmente si sedette. Mise le mani sopra la tastiera, si disse che doveva scrivere qualcosa, adesso, subito, o altrimenti rinunciare una volta per tutte e andare a cercarsi un lavoro. Il problema era che non sapeva fare niente.

    Scrivere era l’unica cosa che avesse mai desiderato fare, ed era brava una volta. O forse credeva di esserlo. A scuola, i suoi saggi facevano sfracelli. Il gruppo teatrale aveva perfino prodotto una delle sue commedie. Tutti l’avevano esaltata. I critici del campus, la stampa locale...

    Ma accadeva quando lei era Morgan DeSilva, la brillante figliola di un famoso regista e di un’attrice amata, la ragazza che conduceva una vita incantata e destinata al successo. Adesso era Morgan DeSilva, decaduta e in disgrazia, senza un soldo, senza una casa, praticamente fuggita dalla città, e guardava in faccia un futuro più scialbo di quanto avesse mai immaginato.

    E adesso... adesso proprio non sapeva se il suo talento fosse mai stato verace, o se fosse stato il suo nome a guadagnarle lodi per tutto quel tempo. Non sapeva più niente di niente, né chi era, né cosa stava facendo o perché le parole avessero semplicemente smesso di venirle in mente. Era come se la sua creatività fosse stata parte dell’illusione che era stata la sua vita. Come se si fosse prosciugata quando l’illusione si era infranta.

    Abbassò le mani senza aver digitato una sola parola. Fuori, il vento ululò; le luci si affievolirono, poi tornarono. La vecchia casa gemeva quando il vento soffiava. Se fosse stata vecchia

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1