Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Canto d'aria e sale
Canto d'aria e sale
Canto d'aria e sale
E-book201 pagine2 ore

Canto d'aria e sale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il Bianco, Lola, Micio, la tata e la bambina con le elle nel nome. Ritrovatasi all’improvviso a dover vivere per strada, Rosa, sessantenne solitaria che deve usare un bastone per camminare, scoprirà un mondo inaspettato, in cui finalmente riuscirà a essere se stessa.
Rosa è una donna sulla sessantina che fin da piccola usa un bastone per camminare. Abita sola da quando la madre è morta, ha una piccola pensione. Vive a Firenze, vicina a un giardino dove, seduta su una panchina con due iniziali incise, passa il tempo. Sulla panchina conosce Lucio, detto il Bianco, intagliatore di legno ed ex marinaio, ma ignora che è senza fissa dimora.
La sua vita trascorre ritirata e solitaria, fino a quando la notizia che la casa dove abita non sarà più sua, ma della scombinata cugina Caterina, la costringe a un enorme cambiamento.
Il Bianco cerca di aiutarla standole vicino, in una sorta di amicizia amorosa, esperienza nuova nella sua vita di uomo abbandonato da due mogli e dagli amori di fortuna.
Dopo brevi esperienze traumatiche fatte di colloqui con l’assistente sociale e soggiorni in centri di accoglienza, a causa dei sui scarsi mezzi Rosa si troverà a dormire all’aperto con Micio, un gattino che ha “adottato”.
Per proteggerla da questa vita, il Bianco la convincerla a seguirlo in un bungalow sul mare prestatogli da un amico, a Rimigliano, in un campeggio ancora chiuso.
Qui Rosa conoscerà Lola, amica del Bianco, che, dopo un’iniziale diffidenza, si trasformerà in amica per la vita; Camilla, la bambina “con le elle nel nome”, e la sua tata filippina.
Rosa teme il mare, ma imparerà a capirne la voce ancor prima di vederlo.
Da un epilogo inaspettato Rosa rinascerà decidendo del proprio futuro, mentre la tata intonerà il suo canto.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2019
ISBN9788833283067
Canto d'aria e sale

Correlato a Canto d'aria e sale

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Canto d'aria e sale

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Canto d'aria e sale - Roberta Nacci

    cuore

    1

    Se ne stava seduta nel giardino vicino a casa, sulla panchina dalle A e V incise, con accanto il bastone. Nella sua vita, era stato lui il compagno sicuro.

    Camminava male, fin da bambina.

    Sua madre le preparava brodaglie di lesso e Rosa strabuzzava gli occhi e chiudeva lo stomaco. «Mangia, bambina mia, che non cresci. Vedi che gambina magra, come stecco di prugnolo?» le diceva.

    Cosa fosse il prugnolo, Rosa non lo sapeva ancora. La sua gamba era nata così, e ci voleva ben altro che allenarsi nel corridoio, reggendosi a sedie e mobiletti.

    «È colpa dei muscoli o della pelle?» chiedeva.

    «È colpa della testa», rispondeva sua madre, e a lei quelle parole mettevano dei dubbi. Sarò forse matta? si chiedeva.

    Lucio si sedette accanto a lei. Lo chiamavano il Bianco, perché bianco di barba, capelli e maglione. Le chiese: «Che hai fatto alle gambe, signora?»

    Rosa trasalì.

    Il Bianco continuò: «Ho rispetto per te e le tue gambe… Non nel senso che puoi pensare, ma perché ti vedo che hai bisogno. Da dove vieni e dove vai?»

    «Che domande difficili. Da neonata ho avuto una forte infiammazione. Viva sono viva, ma la gamba è partita.»

    Il Bianco non replicò, si limitò a inclinare il capo per guardare meglio il bastone. «Di notte ci appoggi i vestiti?»

    Rosa era tentata di alzarsi e andare via. Aveva timore a guardare un uomo negli occhi e teneva basso il viso. Sapeva qual era la forma delle sue grosse scarpe scure, con il velcro al posto delle stringhe. Le portava così anche d’estate. La zoppa, la chiamavano i compagni di scuola.

    «Non ricordo neanche perché sono qui», disse.

    «Perché ti trovassi», fece lui.

    «Chi lo sa, è così raro che qualcuno s’interessi…» Queste parole però le sussurrò e il Bianco non capì.

    «Vado via, bella signora, ci rivedremo?»

    Non era una domanda, lo sentiva, e lo lasciò andare.

    2

    Rosa tornò a casa, al primo piano di un palazzo in via Niccolini. Erano due stanze: una cucina, con i pensili troppo alti, e una camera, con letto e armadio. Un divano nel corridoio avrebbe potuto ospitare qualcuno che non era mai arrivato. Preparò il pranzo, mangiò in fretta e tornò di nuovo al giardino.

    Era semplice la sua vita, come piaceva a lei, costretta a misurare i dettagli della terra sotto le scarpe, e il cielo che vedeva sollevando lo sguardo e reggendosi bene.

    Si era chiesta spesso il perché, ma le domande erano misteri a cui aggiungere silenzio. Abituata a essere guardata per il suo arrancare, pensava: Sono senza testa, solo gambe, e gambe malate.

    Avrebbe voluto un luogo dove vivere senza sguardi. Fin da bambina lo aveva cercato, nei libri e nei sogni. Conosco lo spazio fra i due cipressi e la luna che fa capolino, guardo crescere le foglie di menta nell’angolo del balcone e questo mi basta, pensava, con i gomiti appoggiati sull’atlante, guardando in faccia il mondo.

    «Bella signora!» la voce del Bianco bucò i ricordi.

    «Mi ha spaventato, a urlare così!»

    «Sempre all’erta bisogna stare, non si sa mai chi arriverà, magari la morte!» disse lui, muovendo a singhiozzo la barba. «Dammi pure del tu, sono Lucio, il Bianco.»

    «Non ci riesco, a dare del tu.»

    «Chiamami Bianco almeno, con l’altro nome mi sento fuori casa.»

    Rosa si fece più in là, lasciando il tepore della sua impronta alla seduta di lui.

    «Eh già», disse il Bianco, «un altro inverno arriva, sa di mare lontano.»

    «A volte vedo i gabbiani dalla finestra di casa.»

    «Dove stai?»

    Si prende troppe confidenze, pensò Rosa, in fondo chi è, quest’uomo che mi siede accanto?

    Sentiva nell’aria un odore di fresco. Forse era la pelle di lui che odorava di onde e schiuma; così si diceva essere il mare, per quel poco che aveva conosciuto.

    «Non rispondi, non vuoi dirmelo?»

    «Qui vicino. Del resto, come farei ad andare lontano con questo?»

    «Questo cosa?»

    «Non lo vede? La mia gamba artificiale, intendo il bastone.»

    «E allora?»

    «Non mi confonda, per favore.» Rosa si sentì avvampare e per un po’ non seguì la voce del Bianco che raccontava: «… così vanno le cose, quando lei ha trovato uno più giovane mi ha mollato. Lo sapevo che le ragazze dell’est fanno così, ma sono state le prime a venire dalle nostre vecchie. Del resto, mia madre era diventata così grassa che il letto stava per crollare e io sudavo a sollevarla, anche se ero un pezzo di ragazzo. Lavarla poi, toccarla sotto e sopra, era insopportabile: il seno a cui mi ero attaccato per bere latte di mamma, il buco da cui ero uscito… Non era proprio il massimo.»

    Rosa si mosse sulla panchina.

    «Ti dà noia sentire che lavavo mia madre di sotto e di sopra?» Lei non rispose. «Beh, anche a me. Ho messo un annuncio e ho aspettato. Dopo tre giorni è arrivata lei, Irina si chiamava. Bianca e rossa e in carne, questo è certo, e si dimenava tutta ad alzare mia madre… Dimena oggi, dimena domani, siamo finiti a letto. Mi sembrava di mangiare panna montata. E poi, quel suo accento mi faceva impazzire.»

    Rosa si torse le mani: «Ora devo proprio andare.»

    «Ti ho messa in imbarazzo, vero? Mi dispiace, ogni tanto esagero. Anche col vino esageravo, sai, ma adesso leggo testi buddisti e poesie di un poeta persiano. Mi calmano. Che vuoi, vivo solo da quando Irina se n’è andata con uno più giovane, ma questo te l’ho già detto, e l’altra...»

    Rimasero in silenzio, incapaci di andar via, incapaci di restare. Una brezza saliva dalle colline vicine e accarezzava i loro profili.

    3

    Rosa era un’allodola, si svegliava presto la mattina, anche se, quando non riusciva a dormire, le piaceva alzarsi alla luce dei lampioni che custodivano la notte e mettersi alla finestra. Si concentrava su un pezzo di strada, dove magari passava un gatto, o un ritardatario del sonno. Nessuno sapeva che lei era lì, a illuminare un pezzo di vita col suo sguardo.

    Quando lavorava come centralinista all’ufficio dei ragionieri, puntava la sveglia alle cinque per arrivare alle otto dall’altra parte della città.

    Le chiedevano: «Come mai così presto, che hai da fare?» e lei rispondeva: «Mi piace il silenzio dell’alba, i primi animali che si svegliano.»

    Le chiedevano: «Che animali ci sono alle cinque? Gli sparvieri?»

    «Ci sono gli uccellini sui pini, davanti alla villa dei Rignano, e i gatti della mia vicina...»

    I ragionieri però, a quel punto si erano già tuffati nei numeri scritti nella loro testa e non l’ascoltavano più.

    Quando smise di lavorare ne fu contenta, ma si trovò a passare le giornate in una casa troppo vuota.

    Verso le tre del pomeriggio di quel giorno suonarono alla porta. Rosa si rassettò gli abiti e i capelli e si accostò: «Chi è?»

    «Buongiorno», rispose la voce di sua cugina.

    «Caterina, dopo tanto tempo! Hai trovato il portone aperto?» Aprì e la guardò da capo a piedi, avvolta com’era in uno scialle a fiori rossi su fondo cioccolato. «Che sorpresa!» e non si decideva a farla entrare.

    «Qui sulla porta fa freddo…»

    Rosa si fece da parte, reggendosi al bastone.

    L’altra s’incamminò svelta dove ricordava si trovasse il divano, con le impronte ben evidenti sul velluto. Lì, senza grazia, buttò un borsone a terra e si sedette.

    «Eccomi qua, dalla vecchia cugina zoppa», sussurrò, e Rosa, che arrivava lenta, sentì il bisbiglio. Pensò che non era cambiata, sempre stizzita col mondo.

    Da Toledo era il suo cognome, come quello di una nobildonna. Rossa di capelli, curva e magra, con un’ombra di baffi sopra il labbro, era stata fidanzata a un carabiniere tutto baci, di ferma nella loro città. Lui però era del nord, con l’accento chiuso e parole in dialetto che Caterina non capiva. La storia era finita quando il carabiniere era stato trasferito nelle terre del sud e aveva incontrato una donna senza baffi e senza spigoli. Scrisse a Caterina una lettera incomprensibile e non ci furono più baci.

    «Che sorpresa vederti, era tanto… Cosa hai fatto in questi anni? Non sapevo nemmeno se fossi viva!»

    «Certo che sono viva! Mi sono presa un periodo di pausa», rispose Caterina.

    «Altro che pausa, dieci anni…»

    «Che vuoi fare? Brontolare?»

    «Non ci penso nemmeno. Raccontami però.»

    Sorreggendosi al muro, Rosa accennò un sorriso, protetta dalla conoscenza sapiente degli spazi.

    «Niente di cambiato dai tempi della zia, eh?»

    «Niente è cambiato», rispose Rosa. «Solo i miei capelli grigi.»

    «Dovresti svecchiarti un po’, ormai sono anni che sei sola… Ma sei sola o hai trovato l’amore?»

    Rosa si sedette accanto a lei. «Che dici! Neanche da giovane, ora poi...»

    «Ti sei sempre sottovalutata, hai occhi belli.»

    «Bastassero gli occhi…» disse Rosa con voce piccola.

    Avvicinando una sedia, Caterina ci allungò sopra le lunghe gambe, coperte da piccole vene.

    Si ostina a portare gonne corte, anche ora che è vecchia e ancora più magra, pensò Rosa, e guardò la rete sottile che disegnava quella pelle bianca.

    Caterina raccontò degli anni in cui non si erano viste: «… e così mi mollò in quel motel, a piedi e senza soldi… Un tizio dall’accento straniero mi offrì però un caffè. Siamo stati insieme tre anni, ho viaggiato in lungo e in largo con lui: faceva il camionista. La moglie l’aveva lasciato e si era portata via il figlio, ma a lui non dispiaceva, stava sempre in giro. Quando ci siamo lasciati è tornato da lei e dal figlio. Chissà se l’hanno riconosciuto! Era un brav’uomo e faceva dei giochetti niente male!» ridacchiò.

    Rosa non sapeva che volesse dire, ma immaginava parti di sé mai nate. Anche loro avevano ali malate e si reggevano al bastone?

    «Caterina…» e l’altra continuò a ridacchiare.

    4

    La mattina era ovattata. Caterina dormiva sul divano a braccia scoperte, anche se i ciclamini sul balcone confermavano l’autunno.

    Nel suo letto, Rosa ripensava alle parole della cugina, al suo svolazzare da un uomo all’altro, e provava invidia. Accarezzò il peluche che si teneva accanto. Era caldo del suo calore e pareva guardarla. L’aveva vista crescere, mutare il viso e le stagioni.

    «Le gambe sono sempre quelle, solo più stanche», disse a bassa voce. Le calò fuori dal letto, prese il bastone e si alzò.

    Caterina aveva la coperta di lana attorcigliata ai fianchi; con la bocca semiaperta lasciava andare un debole russare, come un sospiro di vento.

    Rosa si avvicinò e la sistemò alla meglio. La cugina si girò dalla parte del muro e mugolò in un modo leggero, da ragazza, i capelli rossi appiccicati alla nuca, gli orecchini posati sulla sedia, comodino improvvisato. C’era anche un libro lì appoggiato, aperto. Rosa lo voltò e lesse: La figlia del Corsaro Nero. Un libro d’avventura, dunque, come forse era stata la vita di lei, non certo la propria.

    Respirò a fondo e andò alla finestra. Rivoli d’aria scorrevano alla luce fioca dei lampioni. Un’altra giornata di nebbia, quassù fra le montagne dei palazzi, pensò.

    Si avvicinò alla credenza, tirò fuori due tazze e le appoggiò sulla tavola, con le tovagliette che sapevano di bucato. Reggendosi al piano della cucina, riempì la macchinetta con la polvere. L’odore del caffè avrebbe solleticato le narici di Caterina. Lei però continuò a dormire e Rosa le si avvicinò: «È ora», disse, scuotendole piano il capo.

    «Per cosa?» chiese questa con voce arrochita.

    «Per andare alla panchina.»

    La luce dei lampioni si spense nella nebbia.

    «Cos’ha di speciale?» chiese la cugina, fasciata da un paio di pantaloni stravaganti.

    Ancora la hippy, pensò Rosa, guardando l’altra muoversi su quelle gambe da giraffa e sentendo le proprie impacciate nelle calze di nylon.

    A lei la panchina riempiva gli occhi. Da quanto tempo era stata accarezzata dall’ultima mano di vernice?

    Si sedettero e videro passare volti scuri. Rosa abbassava lo sguardo quando qualcuno fissava lei e il suo bastone.

    L’aria si era schiarita sull’impermeabile e i pantaloni di Caterina, sul cappotto e le scarpe pesanti di Rosa.

    «… così è andata la mia vita fino qui», disse la cugina. «Una sequenza di fallimenti, senza figli e troppe rughe sul viso.»

    «Non ti abbattere; anche per me la vita è stata avara fin dall’inizio, mi sono rinchiusa in un bozzolo e lì ancora sto. Ora poi che sono sola…»

    «Sola lo sei sempre stata. La zia, santa donna, aveva un caratterino! A me diceva: Gambe sgraziate, occhi da gufo, non farai nulla di buono… e aveva ragione, santa donna rompipalle…» Poi si zittì; aspettava dalla sera prima di parlare con la sua vecchia cugina. Sempre stata vecchia, anche se aveva pochi anni più di lei.

    Quello era il momento, e cominciò.

    5

    «Sarò anche balorda, ma una cosa è certa. Mi ha chiamato un avvocato di Lugano. Lo zio – tuo padre – ha lasciato l’appartamento a suo fratello – mio padre – e ora la tua casa è mia.»

    Le parole di Caterina vagarono come macchinine all’autoscontro e finirono dritte nella pancia di Rosa. Non le comprendeva. L’avvocato… Lo zio – tuo padre… La

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1