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Forse siamo già morti
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E-book157 pagine2 ore

Forse siamo già morti

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Info su questo ebook

"Le crepe più profonde del mio essere continuarono a dilatarsi: sanguinavo e morivo lentamente."

Elia Piras è un giovane antieroe del nostro tempo; arrogante, presuntuoso e carismatico. Si sente invincibile, ma la corazza che lo protegge ben presto si frantuma, liberando fragilità e insicurezze. Una tormentata storia d'amore e un'amicizia pericolosa mettono a nudo tutte le pene del protagonista. Si assiste così al dramma di un uomo che viene consumato a poco a poco dai suoi sentimenti e dalle sue insoddisfazioni. Sesso, disperazione e malattia si intrecciano sullo sfondo di una Napoli fredda e indifferente.

Un'assurda premessa apre il romanzo: "se stai leggendo queste parole, amico mio, vorrà dire che ormai sono morto."
LinguaItaliano
Data di uscita20 lug 2023
ISBN9791221482195
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    Anteprima del libro

    Forse siamo già morti - Raoul Sandro Margarita

    PARTE I

    Premessa

    Questi momenti necessitano di estrema organizzazione. Tutto deve essere predisposto nel migliore dei modi. Sono un maniaco dell’ordine, gli oggetti devono seguire perfette linee orizzontali e verticali, al massimo posso accettare quelle oblique a quarantacinque gradi. Un po’ come la mappa della London Underground disegnata da Harry Beck, tanto per intenderci.

    Sistemo la bottiglia di wiskhy sulla scrivania con l’etichetta rivolta verso di me, il bicchiere colmo lo posiziono sullo stesso equatore, ma dal lato opposto. Al centro ho adagiato una candela accesa, per rendere il tutto più teatrale sotto una luce caravaggesca. A dieci centimetri dalla cera, la pila di fogli A4 categoricamente compattata, in tal modo che, se la guardo dall’alto, mi sembra di avere un’unica pagina. Sotto certi aspetti sono un tipo vecchio stile, avrei potuto usare il mio laptop, ma preferisco la carta e una pennino a china, mi impegnerò nell’ottenere una calligrafia facilmente comprensibile.

    Sento la durezza dello schienale della sedia girevole, sono pronto. Il pennino imbevuto d’inchiostro e si parte. Cazzo, mi trema la mano, che pasticcio.

    Va bene, il primo foglio è sempre di prova, dopotutto. Aspetta, manca ancora qualcosa. Ma certo, la musica! Come ci starebbe bene una traccia classica in un vecchio giradischi d’epoca, peccato che non ne possegga uno. Mi arrangerò con il mio cellulare, l’effetto non è per nulla lo stesso, ma va be’. Mi va di ascoltare musica gothic ambient, quella che ho adorato come sottofondo nelle letture di Lovecraft e di Poe.

    Dalla finestra aperta entra una leggera brezza fresca che accarezza la mia pelle col suo dolce alitare. Un bel respiro diaframmatico, profondo, e inizio il mio compito. Penso sia opportuno partire con una piccola premessa:

    Non so da chi verrà letto il mio manoscritto, né tantomeno come verrà giudicato, ma mi rivolgo a te che ti sei seduto per primo alla mia scrivania e che hai tra le mani questi fogli di carta: se stai leggendo queste parole, amico mio, vorrà dire che ormai sono morto.

    Elia Piras

    I

    Sicuramente vorrai conoscere le cose sin dal principio, posso subito dirti che la mia fu un’infanzia felice. Figlio unico, nacqui in Germania, in uno di quei piccoli villaggi incantati dove le bellissime fachwerkhäuser sono lo sfondo perfetto per una vista mozzafiato, e se ti starai chiedendo cosa siano le fachwerkhäuser, beh sono case a graticcio agghindate da reticoli di travi in legno disposte orizzontalmente, verticalmente e obliquamente (che la mia ossessione delle linee derivi dal ricordo infantile di quegli edifici?).

    Ma si sa che tutte le favole finiscono presto. Quando avevo tre anni, a causa di una serie di sfortunati eventi, i miei decisero di tornare alle origini. Ci ritirammo così in Italia, in un buco di paese, che nulla aveva da offrire e nulla offre tutt’oggi. Mia madre si limitò alle faccende domestiche, mio padre continuò come muratore. Io intanto crescevo, il paesino iniziava a piacermi, così come gli amici. Giocavamo a calcio fino a tarda sera, finché le nostre madri ci richiamavano urlando dalla finestra che la cena fosse pronta. All’epoca era una vita così semplice, così leggera, bastava poco per essere felice. Non mi mancava proprio nulla, crebbi da bravo angioletto viziato. Storcerai il naso, amico mio, ma tutti i figli unici conquistano il potere del controllo sui propri genitori, ottenendo tutto quello che desiderano.

    A volte sentivo mio padre urlare contro mia madre che non ero un imperatore, pertanto potevo anche darmi da fare, almeno qualche volta, e aiutarlo con i lavori manuali di casa. Lei però la pensava diversamente, sognava che io diventassi un bravo dottore, un noto ingegnere o magari un affermato avvocato, così mi obbligava a trascorrere la maggior parte del mio tempo sui libri. E quindi a quel santo di papà toccava rientrare da una dura giornata di lavoro e mettersi a sgobbare da sé anche in casa. Ho sempre pensato che il nervosismo in famiglia fosse direttamente consequenziale alla miseria finanziaria, spesso sentivo litigare i miei sulle questioni economiche e la scena finale era sempre la stessa: finiva sempre che mamma mandava a quel paese papà, e papà prendeva la bottiglia di vino, mi rivolgeva un sorriso amaro, e spariva in giardino per occuparsi di qualche lavoretto.

    Mia madre mi convinceva che da grande sarei diventato una persona importante. Sicuramente avrei ottenuto un rango sociale più elevato rispetto a quello di mio padre. E così mi sentivo un eletto, più intelligente di tutti i miei coetanei, e persino il più fortunato, dopotutto ero nato con la camicia.

    In tutti i giochi di squadra mi proponevo quale leader, e nessuno mai contestava la mia volontà. Tutti i ragazzi della mia età erano così ingenui, sempre accondiscendenti e pronti a farmi da sgherri. Io adoravo caricarmi di responsabilità, la mia vanità necessitava di attenzioni perenni. Ero un bulletto, ma questo l’ho capito solo da grande, prima pensavo che mi fosse concesso tutto per natura. Quando però mi mettevo nei guai seriamente, cercavo di venirne fuori nelle maniere più vili; grazie alla mia arte di persuasione riuscivo infatti a scaricare le colpe sugli altri, senza quasi mai incasinarmi. Ricordo che una volta ero con mio cugino Alessandro, di un anno più grande di me. Era grasso, diabetico, asmatico, occhialuto e biondo, esattamente il mio opposto; non spiccava nemmeno per intelligenza. Odiavo quando veniva a farci visita con sua madre, perché era estremamente noioso. Non si poteva giocare a calcio perché non ne aveva il fisico, ed era troppo stupido per gli scacchi, la dama o i puzzle. E quindi ogni volta che veniva dovevo inventarmi qualcosa di nuovo (e che non lo uccidesse) per passare il tempo.

    Successe che una volta eravamo con nostro nonno che ci incaricò di andare ad aprire il cancello della staccionata in legno delle pecore, per farle pascolare nel recinto superiore. Bisognava seguire delle precise indicazioni che il nonno ci aveva ripetuto: occorreva scendere lungo il pendio erboso del primo recinto, aprire il cancello e mettersi dietro di esso, aspettare che le pecore e il montone uscissero dalla staccionata inferiore, per poi risalire il recinto superiore e uscire dalla porta inferriata. Ovviamente il compito toccava sempre a me, agile e snello, perché Alessandro avrebbe perso i polmoni nel risalire il declivio. Quella volta però non ne avevo voglia e convinsi mio cugino ad andarci.

    «Vacci tu e io dopo andrò a prenderti il gelato senza farmi vedere da zia. Lo sai che lei non ti permetterebbe mai di mangiarlo, vai Ale è la tua occasione speciale.»

    Il cugino Alessandro ci pensò su, inforcò gli occhiali in un gesto automatico e mi guardò con occhi bramosi.

    «Giuri?»

    «Giuro.» E alzai la mano sinistra al cielo, mentre la destra la portai sul cuore.

    «Va bene, andrò io...Ehi aspetta, cosa dice il nonno sulla maglia rossa? Dovrei levarmela, giacché potrei far infuriare il montone, vero?

    Era vero, era la regola più severa del nonno e io lo sapevo.

    «Ma no, non è mica un toro. Non fare il fifone e scendi.»

    Alessandro si decise a fare il servizio. Scese lungo il pendio erboso, si fermò davanti al cancello della staccionata inferiore e tentennò per qualche istante. Gridò qualcosa verso di me, che lo guardavo dall’esterno del recinto superiore.

    «Il montone mi guarda male, ha abbassato la testa e gratta la zampa a terra.»

    «Non fare il fifone,» gridai dall’alto «e datti una mossa ad aprire quel cancello.»

    E così fece, mettendosi poi dietro di esso. Il montone, eccitato dalla t-shirt rossa di Alessandro, iniziò a puntarlo e partì in una vigorosa carica. Mio cugino cercò di ripararsi dietro al cancello, ma quando il montone prese la rincorsa per la seconda carica egli scappò via goffamente, urlando come un pazzo. La sua fortuna fu che il montone si incastrò con la testa cornuta tra due travi orizzontali del cancello in legno. Questo gli diede diversi secondi di vantaggio, ma il pendio era duro da salire. Si voltò e capì che il montone si era liberato ed era pronto a rincorrerlo, il cuore dovette salirgli in gola per lo spavento. Era tutto sudato e correva goffamente verso di me, la faccia terrorizzata era diventata dello stesso colore della maglietta. Pensai gli stesse per venire un attacco asmatico, o addirittura un infarto. Il montone l’aveva ormai raggiunto, il possente animale l’avrebbe ammazzato a suon di incornate. Ma ecco che Alessandro fece una mossa strepitosa, che mi stupì per davvero.

    Si infilò sotto la struttura in legno che il nonno aveva costruito per far riposare le galline quando il sole è troppo cocente. Il montone non riuscì più a raggiungerlo con le sue corna, e rimase lì infuriato continuando a sbattere la fronte contro le travi della struttura. E quindi mentre Alessandro era immobile a pancia in su nella merda delle galline, quasi incastrato nello stretto spazio claustrofobico, io corsi a chiamare il nonno. Quando tornai, il montone era ancora fermo davanti alla costruzione lignea per le galline. Io rimasi all’esterno del recinto e mio nonno entrò e corse verso l’animale, poi gli passò il braccio intorno alla testa, gliela strinse e lo buttò di faccia a terra, tenendolo fermo nella forte presa da wrestler. Poi riportò il montone nel recinto inferiore e finalmente mio cugino uscì allo scoperto. Mi fece una gran pena vederlo in quelle condizioni: sudatissimo, rossissimo, affannatissimo, singhiozzante e pieno di escrementi di galline. Mio nonno riuscì a tranquillizzarlo e gli diede qualche spruzzo di Ventolin (anche lui era asmatico e portava sempre con sé un inalatore spray).

    Quando tornammo a casa dalle nostre madri, partì l’interrogatorio, ma era tutto sotto controllo. Durante il tragitto verso casa avevo avvertito il cugino Alessandro. Se avesse incolpato me di averlo convinto a fare il servizio, allora io avrei detto a sua madre che tutte le volte lui mi costringeva a prendergli il gelato di nascosto. Se invece si fosse incaricato di tutte le responsabilità, come ricompensa glielo avrei preso senza farmi scoprire, perché nel suo stato di shock gli avrebbe risollevato il morale, inoltre se l’era davvero guadagnato.

    E quindi riuscii a scamparla anche quella volta, e il povero Alessandro fu preso per le orecchie da sua madre e portato a casa sua per darsi una pulita, senza nemmeno avere il tempo di mangiare il gelato tanto agognato e meritato.

    Il giorno dopo, quando tornò a casa mia, lo vidi con occhi diversi. Era stato coraggioso e responsabile e ottenne, in parte, il mio rispetto. Nostro nonno ci portò all’interno della fattoria e ci mostrò la testa decapitata del montone servita su un lucido piatto d’argento, e per un attimo mi ricordò quella di Giovanni Battista.

    Quando diventai un giovanotto, la retorica, sommata a un bell’aspetto, mi aiutò molto con le ragazze. Tra i maschi della mia età, io fui il primo a maturare. A quindici anni portavo già la barba incolta, ero alto e slanciato. Madre natura era stata molto buona con me e mi donò un fisico atletico e una pelle serica tendente all’olivastro.

    Troppi ragazzi arrivano a scoprire l’arcano in gran ritardo. Il segreto per avere successo con le donne, caro amico mio, è quello di puntare sempre in alto, alla più bella di tutte, e di avere il coraggio di buttarsi (almeno così funziona in età adolescenziale). Molti dei miei amici erano timidi, e non uscivano mai con nessuna, al contrario io ero sicuro di me, vedevo le ragazze come un gioco, e ti dirò, qualche volta le trattavo anche male. Ancora una

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