Il massaggio come cura: Riscopri te stesso attraverso il massaggio olistico
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Anteprima del libro
Il massaggio come cura - Silvina Maggio
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1.
Pippi s’imbarca nella vita
Era di moda, anni fa, farsi beffe
dell’amore a prima vista
come di una ridicola fantasia.
Ma le persone che pensano,
e quelle che sentono profondamente,
hanno sempre affermato la sua esistenza.
Edgar Allan Poe
Durante le ultime due settimane ero stata un crocevia di emozioni.
Una parte di me, quella pragmatica, o forse quella più infantile – oppure semplicemente quella che non ne poteva più di somigliare a una balena – continuava a chiedersi quando sarebbe finita, quando finalmente sarei tornata come prima. L’altra, materna e sognatrice, ripeteva come un mantra che avrei dovuto assaporare ogni istante di quel momento, unico e irripetibile, della mia giovane vita.
A movimentare l’atmosfera c’era ancora una terza me, quella che riteneva tutta quella situazione pazzesca. Ero ancora troppo piccola, nient’altro che una ragazzina, Pippi Calzelunghe in mongolfiera, come avrei potuto affrontare l’enormità di quello che stava per accadere?
Insomma, ammetto che in quegli ultimi giorni mi sentivo vagamente in tensione. Forse, pure un tantino agitata. In una parola – o anche due – francamente insopportabile.
E dire che iniziavo a conoscermi più a fondo. Sapevo benissimo che se avessi iniziato a pensare troppo mi sarei incartata nell’ansia. Dovevo affidarmi all’istinto, alla natura, ed evitare tutte le trappole della pianificazione, dei calendari e delle scadenze programmate. Bastava che mi rilassassi e lasciassi fare al mio corpo. Lui avrebbe saputo esattamente cosa fare.
Invece stavo commettendo un errore strategico. Mi ero messa a pensare, rimuginare, rimestare troppo nei miei pensieri.
Ma rendiamoci conto, stavo per diventare mamma!
In fretta e furia, per giunta. Cioè, sempre in nove – lunghissimi – mesi, ma non avevo ancora 24 anni, ero ancora sul pianerottolo della vita. Avevo appena fatto in tempo a presentarmi sull’uscio, senza neppure suonare il campanello! Per le mie amiche era tuttora critico l’abbinamento tra minigonna e zeppe, mentre io ero sul punto di farmi esplodere la pancia e dare vita a un nuovo essere, un bambino.
Erano chiaramente saltati gli equilibri. Non valevano più le proporzioni.
In precaria oscillazione tra il desiderio di rimanere stesa a letto a oltranza e la voglia di uscire all’aria aperta, al sole, magari anche alla pioggia, basta che fosse fuori, avevo iniziato a incolonnare improbabili calcoli. Tentavo di ricostruire allineamenti cosmici tra la presunta data di nascita, i miei numeri preferiti, le lettere del nome prescelto e i segni zodiacali.
Mi preoccupavo per il peso, non il mio – quello era forse già fuori controllo da un pezzo – ma di quello del bambino: eravamo sicuri che potessero nascere bimbi così grandi? Sarei riuscita a sopportare il dolore? Mi sarei resa conto di quando sarebbe arrivato il momento, quel momento?
Avevo iniziato a contare i giorni all’inverso, e con il passare – a volte estenuante, altre rapidissimo – del tempo, mi preoccupavo prima che fosse troppo presto, poi in ritardo. Non tanto sull’ora biologica, quanto rispetto all’andamento astrologico. Mi sarebbe piaciuto un bambino con il segno dell’acqua – mi sembrava sinceramente dovuto, dopo anni trascorsi a navigare sugli oceani di tutto il mondo – ma era destino che saremmo scivolati nel fuoco, il che, a ben pensarci, era una metafora piuttosto azzeccata per la mia situazione.
Secondo le mie elaborate triangolazioni, saremmo approdati al Sagittario, il segno degli esploratori, a un tempo viaggiatori tra i sogni e solidi abitanti della realtà. Mi stava bene.
Il bello è che non avevo mai prestato troppa attenzione agli oroscopi, sapendo che la magia delle stelle risiede in ciascuno di noi, senza la necessità di filtri o interpretazioni.
In quei giorni, invece, ero diventata un’esperta di coordinate planetarie e mappe celesti, sulle quali aggiornavo di giorno in giorno le previsioni sulla nascita.
Fu così che mi ritrovai mezza stordita in sala parto.
Distesa tra cascate di sudore, circondata da odori mai sentiti, immersa in un dolore soffuso – mi facevano male anche ai piedi – attaccata da crampi d’agitazione e di chissà cos’altro, scandagliavo con gli occhi la stanza alla ricerca di mio marito.
Mentre medici e infermieri erano tutti in piedi attorno a me, lo ripescai nello specchio che pendeva dal soffitto, seduto alle mie spalle. Lo fissavo e vedevo i suoi occhi spalancati, paralizzati sopra il bordo del letto, fissi in un punto indistinto tra me e la mia pancia. Il ricordo più intenso di quegli attimi – nella memoria è durato tutto pochissimo – sono i suoi occhi, mai più così grandi come in quel momento.
Intuii subito che si sentiva spiazzato ancora più di me, profondamente a disagio, totalmente fuori posto. Compresi allora di aver commesso uno sbaglio.
Questa moda dell’uomo in sala parto, ad assistere a tutto – magari a fare filmini o a scocciare con domande inopportune o semplicemente ad andare in panico come accadeva al mio – non è per tutti. Alla fine, ci sono momenti in cui una donna deve starsene per conto proprio, vivere i suoi momenti di intimità, e poi – solo dopo – condividerli. In fondo, anche le femmine degli animali, quando devono partorire, si appartano, mica si mettono a far salotto. Hai voglia a parlare di conservazione della specie, il maschio la interpreta in altro modo. Quei suoni, quel dolore, quella fisicità esasperata – a gambe spalancate e sanguinanti, con tutti intorno – non sono nelle sue corde, e alla fine non sono un bel vedere per nessuno.
Chi può, se lo dovrebbe tranquillamente risparmiare.
Dovessi tornare indietro, ci penserei due volte. Probabilmente, lo spedirei a fumare in sala d’attesa – dove ovviamente fumare è vietato, ma insomma, nei film di una volta andava così – a camminare su e giù e a chiedere a ognuno che passa se è maschio o femmina, pur avendo dodici ecografie e venti esami in borsa.
Stanne fuori, è meglio. Molto meglio.
Ho la ferma sensazione che tante crisi di coppia, inclusa la mia, abbiano le proprie radici in queste commistioni di ruoli, troppo spesso forzate.
A tutto questo pensavo, tra un urlo, un’imprecazione e un morso all’infermiera. Stavo rapidamente acquisendo la consapevolezza che le novità tra noi sarebbero state più profonde del previsto, che avrei dovuto cementare la pazienza e ricucire dolcemente insieme le nostre vite, proprio come speravo sarebbero riusciti a fare con i pezzi lacerati – in qualche punto imprecisato, ma a occhio prezioso – del mio corpo.
Eravamo giunti a quella svolta un tantino impreparati, ma è mai possibile essere davvero pronti per eventi del genere? Alla nascita di un figlio, del nostro primo bambino?
Avrei dovuto aspettarlo un po’.
Era facile, a questo ero allenata. Fino a quel momento aspettarlo era stata la cosa che mi era riuscita meglio.
***
«Bella, questa».
«Dici? Mi sembro la cassiera del supermercato…»
«Ma chi, quella che va in giro come Boy George? Non hai mica i capelli arcobaleno».
«Sì, ma la giacca è la stessa».
«Vai, cambia. Prova quella nera».
La prima parte della nostra domenica pomeriggio era invariabilmente riservata al trucco e guardaroba. Scegliere il look per la discoteca era un’impresa delicata, che richiedeva massima concentrazione, mente rilassata e tempo. Molto tempo.
Che noi pensavamo di avere sempre in abbondanza e invece ci sfuggiva tra le dita.
Riflettere oggi su quelle ore trascorse tra amiche potrebbe servire a ricostruire la cronaca di una generazione intera e, magari, a capire meglio tutto quello che è successo dopo. Apparenza, moda e, sì, le radici di quella che sarebbe diventata la smania di apparire che porta adesso la gente a farsi i selfie persino in chiesa. Vero è che una nutrita fauna da discoteca sfoggiava tenute che meritavano di essere immortalate e archiviate per i posteri.
Io, a essere onesti, rimanevo piuttosto ai margini della corrente.
Osavo qualcosa, ma più per sentirmi adeguata al resto del gruppo che per convinzione. Non nutrivo reali ambizioni sexy, cercavo al massimo di guadagnare qualche anno che, sì, mi tornava utile.
Non mi sarei mai sognata, però, d’infilare delle calze a rete e poi i calzini bianchi o una canottierina aderente sotto il giubbotto di pelle, che poi sudavi e l’effetto finale era più imbarazzante che osé. A me importava soltanto arrivare presto alla discoteca, passare in fretta l’entrata e iniziare a cercare lui tra i suoi amici.
Lo riconoscevo ancora prima di vederne il viso. Alto, riccio, scuro di capelli e di occhi, la barba vera sul viso, a conferma dell’età, parecchio superiore alla mia.
Si muoveva perfettamente a suo agio, con