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Soldo di cacio: Il diario della mamma di Riccardo, nato a 27 settimane
Soldo di cacio: Il diario della mamma di Riccardo, nato a 27 settimane
Soldo di cacio: Il diario della mamma di Riccardo, nato a 27 settimane
E-book195 pagine2 ore

Soldo di cacio: Il diario della mamma di Riccardo, nato a 27 settimane

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Info su questo ebook

Il pensiero di perdere un figlio è inconcepibile, è come pensare all’acqua che scorre verso l’alto, al fuoco che congela, al sole che sorge a Occidente. La mente rifiuta di elaborare l’ipotesi che Silvia ha dovuto vivere per i giorni in cui il suo Riccardo sopravviveva appeso a un tubicino, a un respiratore, a una speranza… Una storia, un’esperienza di vita dura, difficile, drammatica; la voglia di raccontarla per condividerla con chi potrebbe trovarsi nella stessa situazione fino a diventare una sorta di guida per genitori di… “soldi di cacio” (dalla prefazione di Vittorio Zucconi).
Ospite in tv e Segnalazioni:
Uno Mattina su RAI 1; Mamma mia su La7D.
Inserto salute di La RepubblicaSette del Corriere della Sera.
Silvia Mobili
Giornalista, co-conduttrice su Radio Capital un programma con Betty Senatore dalle 10 alle 12 dal titolo Ladies and Capital.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9788834156414
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    Anteprima del libro

    Soldo di cacio - Silvia Mobili

    esserci.

    INTRODUZIONE

    La gravidanza non è una malattia. Quante volte ho sentito questa frase. E anche oggi sono convinta che sia così. Ma durante questo percorso meraviglioso, dove senti dentro di te crescere una vita, può succedere un imprevisto. È successo a me. Un controllo, un esame di routine che dura qualche minuto. Un risultato che arriva e che ti cambia la vita. La prima sensazione è di gelo. Poi di estraniamento. Dopo arrivano sofferenza e rabbia. In ultimo, voglia di farcela. Noi siamo fortunati. Ce l’abbiamo fatta. Ma quelle emozioni che ho provato dovevano uscire da qualche parte. Non potevo tenerle solo per me. E così di punto in bianco ho realizzato un sito: www.soldodicacio.com che racconta la storia di Riccardo. Un bambino nato alla ventisettesima settimana con il peso di 915 grammi. Piccolo sì, ma coraggioso come dice il suo nome. Che ha affrontato 78 giorni di ospedale, con la voglia - a volte mi è sembrata disperata - di vivere.

    Riccardo Soldo di cacio doveva nascere il 5 novembre, segno dello Scorpione. Si è presentato invece alla vita la mattina del 7 agosto 2006, segno del Leone. E questa è la sua avventura.

    Una piccola storia, come era questa creaturina. Un racconto che speriamo possa dare speranza e conforto a chi in questo momento sta vivendo lo stesso dramma.

    PREFAZIONE

    di Vittorio Zucconi

    Non riesco neppure a immaginare - eppure in tanti anni, in tanti articoli, in tante trasmissioni e in tanti libri ho dovuto imparare a esercitare la fantasia professionale come uno Schwarzenegger con gli anabolizzanti - quello che un genitore provi davanti alla possibilità di perdere un figlio, che sia un pollicino prematuro di qualche etto, un ragazzo o una persona adulta. Come tutti, ho visitato in sogno mille volte la morte dei miei genitori, soprattutto della mamma (per consolarci, ci siamo inventati la storia che così le allunghiamo la vita, mica vero), ho visto andarsene persone care, nonni, dignitosamente composti sul letto, magari con il rosario in mano e la grisaglia della domenica, amici, sconosciuti sui campi di battaglia e sull’asfalto del terrorismo e ho cominciato vagamente a immaginare la mia, pur considerandomi, come tutti, immortale. Ci si adatta, poco alla volta, al concetto della morte. Ricordo bene mio padre, già molto malato, riuscire a sorridere della propria condizione, quando mi disse: Ormai ho l’età nella quale se vedo passare un carro da morto grido: taxi!». Ma il pensiero di perdere un figlio è inconcepibile, è come pensare all’acqua che scorre verso l’alto, al fuoco che congela, al sole che sorge a occidente. La mente rifiuta di elaborare l’ipotesi che Silvia ha dovuto vivere per i giorni in cui il suo Riccardo sopravviveva appeso a un tubicino, a un respiratore, a una speranza. Si può, ed è accaduto a persone importanti, coltissime, intelligentissime e famose delle quali non farò il nome, diventare clinicamente pazzi. Una donna a me cara, una zia, tenne per mezzo secolo la stanza della propria bambina stroncata da una malattia fulminante in tre giorni, esattamente come lei l’aveva lasciata al momento di portarla invano all’ospedale, un santuario avvolto nella plastica che da bambino mi costringeva a visitare nella penombra. Mi basta ripensare a quello che provai io nella stanza per il travaglio dell’ospedale Sibley di Washington dove mia moglie aspettava nel 1977 che il nostro secondo figlio si decidesse a imboccare l’uscita, per approssimare il terrore che i genitori di immaturi e prematuri nelle unità di Intensive Care vivono per giorni e giorni. Le infermiere ostetriche avevano agganciato la madre e il nascituro ai monitori per l’Ekg, gli elettrocardiografi, e il duetto fra il bip-bip forte del cuore della mamma e quello leggero, frenetico e velocissimo, ma regolare della sua creatura ancora in grembo erano una sinfonia esaltante. Fino a quando il tracciato del bambino cominciò a scomporsi, a trasformare il profilo stabile di picchi e valli in un sisma per appiattirsi in una linea diritta e continua come il lamento dell’allarme. Non ero uno specialista in cardiologia, ma avevo visto abbastanza film e telefilm per sapere che cosa significasse quel tracciato piatto. Schizzai dalla stanza come un demente correndo verso la stazione delle infermiere e gridando «Correte correte, il bambino è in arresto cardiaco» Le infermiere accorsero, alla velocità di una tartaruga in sciopero, secondo me, e i loro movimenti si fecero ancora più languidi dopo un’occhiata alle apparecchiature. «Ah - disse una come se avesse trovato un bicchiere fuori posto - si è staccata la ventosa». E con un movimento rapido reintrodusse il cavetto dove andava introdotto, riappiccicò la ventosina al corpo del feto e il bip bip regolare riapparve sul monitor. Mia moglie, sudata, esausta, dolente diede un’occhiata alla mia faccia e disse: «Vai a casa».

    «Ma...».

    «Niente, ma. Vai a casa, prima di avere un infarto. Non voglio che nostro figlio nasca orfano». Andai a casa ad attendere la telefonata guardando una partita di football. Meglio un padre vigliacco che un padre al cimitero.

    Ecco perché mi è impossibile aggiungere una parola, un aggettivo, un commento al racconto vero della battaglia di Riccardo per non morire prima ancora di vivere. Posso soltanto, questo sì, immaginare l’enormità della gioia che la madre ha provato, e che testimonia in questo libro, quando ha avuto la certezza che lui ce l’avrebbe fatta, contro tutte le probabilità, una gioia che non proverà mai più in quella intensità abbagliante, neppure se lo vedesse andare ad accettare un Nobel, un Oscar, una Coppa del Mondo. Ma c’è un ma. Il pensiero di quei giorni, di quelle ore, resterà con lei per sempre, quando picchierà la prima capocciata contro uno spigolo, quando gli daranno i primi punti dopo la caduta in bici, quando arriverà la telefonata che ogni genitore sogna, «Mamma, ho sfasciato la macchina» e la mamma pensa immediatamente che se mi telefona vuol dire che è ancora vivo e tutto in un pezzo. Non perché Riccardo abbia avuto una partenza così difficile, ma perché così vuole il giro dell’acqua dall’alto verso il basso, il percorso del sole da oriente a occidente. Ma perché è suo figlio. E se purtroppo si smette di essere figli, non si smette mai di essere genitori.

    SOLDO DI CACIO

    Incinta

    Avevo un sospetto. Piccolissimo ma ce l’avevo. Mi trovavo a Sanremo a seguire il più popolare dei festival italiani. Nessuna nausea, nessuna stanchezza particolare. Forse una leggera debolezza. Ma i ritmi di lavoro in questo caso erano davvero impossibili. L’unico campanello di allarme era un ritardo nelle mestruazioni. Ma decisi di non dire nulla a mio marito. Non ero sicura di nulla. Non stavamo cercando un figlio in quel momento. Se ne parlava, è vero. Anche perché l’orologio biologico è inesorabile. A 36 anni cominci almeno a pensarci, soprattutto quando hai una relazione sentimentale stabile e di lunga durata. Però preferivo aspettare agosto così avrei vissuto la gravidanza in autunno evitando le gambe gonfie e i malesseri nei mesi più caldi. E poi non avevamo ancora installato il condizionatore! Non amo molto l’estate. Vorrei vivere in un fresco eterno, con temperature gradevoli, magari anche con un po’ di pioggia che ogni tanto rinfresca le idee. Ma si sa, meno programmi fai nella vita e meglio è. Il destino infatti ha voluto diversamente e mi sono ritrovata a marzo a fare il test di gravidanza. Mi ricordo che mi vergognavo tantissimo a comprare gli stick che ti svelano se sei incinta o no. Non volevo chiedere a nessuno. E quindi la prima mossa fu quella di andare da sola al supermercato, nella confusione della folla. Ne presi uno e lo buttai nel carrello in mezzo a tante altre cose. Avevo comprato almeno una decina di prodotti con la speranza che lo stick alla fine passasse inosservato. A pensarci meglio non so bene perché provassi quel senso di disagio. Ma che male c’è ad essere incinta? Mica avevo rubato! Quando posai le cose accanto alla cassa mi sembrava che la commessa osservasse solo quello e che mi guardasse con un sorrisetto ironico. Fu il primo oggetto che misi nel sacchetto prima di andar via sentendomi gli occhi puntati addosso. Sarà stata l’angoscia, l’ansia, anche l’inesperienza ma quello stick, comprato tanto faticosamente, non funzionò. Sicuramente non l’avrò usato bene, chissà che avrò combinato, ma non indicò proprio un bel niente. Bianco era e bianco rimase. Il giorno dopo mi feci coraggio e andai in farmacia – dall’altra parte della città – e ne comprai uno più costoso ma sicuramente di migliore qualità. Mi ricordo che aspettai che al banco non ci fosse nessuno. Sembravo una ladra pronta a fare il colpo. Guardavo con interesse spasmodico lo scaffale con gli shampoo e i balsami per capelli. Poi presi coraggio e mi avvicinai alla farmacista e con un filo di voce le chiesi lo stick. Dopo fuggii via. A casa, in bagno, lessi con attenzione tutte le istruzioni almeno tre volte. Difficile descrivere le sensazioni provate quando ho visto la linea che indica una gravidanza. Credo di averla osservata una dozzina di volte anche se c’era una parte di me che in fondo sapeva già la risposta. Appena avuta la conferma il primo pensiero andò a quando – ipoteticamente – era avvenuto il concepimento. E subito mi venne in mente una sera in cui mio marito aveva aperto uno spumante che mi piace moltissimo. Credo di aver bevuto quasi tutta la bottiglia e di essermi poi dimenticata quello che avvenne dopo. Era un Monsupello, abbiamo ancora il tappo… Dopo quella fantomatica serata ora eccomi qui, in bagno a guardarmi allo specchio, con gli occhi sbarrati, con lo stick in mano e con un unico pensiero: come dirlo a mio marito. Il dubbio era: aspetto che lui torni dal lavoro per il pranzo o lo chiamo subito? Certe cose vanno dette a quattrocchi ma erano le 10 del mattino, come potevo aspettare tre ore? Sono problemi a cui non pensi fino a quando non ti accorgi di essere incinta. Poi quando ci sei in mezzo realizzi che non è una notizia semplice da dare. Io avevo sempre immaginato che lo avrei urlato con gioia, che avrei chiamato anche i vicini di casa. Invece mi trovavo lì davanti a uno stick sporco pure di pipì e con il dilemma se dirlo subito a mio marito e in che modo. Alla fine, dopo essere stata seduta inebetita sul letto, decisi di chiamarlo al telefono. Una di quelle frasi che mettono in ansia le persone è: «Ti devo dire una cosa, non so come fare, non ti preoccupare». Ecco, a me fanno pensare sempre a delle tragedie. Sono parole che non vorrei mai sentire eppure in quel momento le stavo pronunciando. E dall’altra parte del telefono mio marito già stava chiamando i carabinieri. Seguì una lunga pausa. Poi iniziai a ridere e lui a innervosirsi. Dopo dieci minuti di tira e molla mi decisi, presi fiato e, senza respirare, parlai di getto: «Le cose stanno così: avevo un ritardo, ho comprato un test di gravidanza e questo dice che sono incinta». Finalmente l’avevo detto. Come risposta solo silenzio. Poi una risatina nervosa e imbarazzo visto che in ufficio non era solo. «Che faccio?» mi chiese.

    «E che fai? - risposi - Ci vediamo a pranzo».

    Io tanto mi misi a pulire casa, nel mio giorno libero. Credo che l’aspetto che mi ha sempre angosciato di una gravidanza sia che è una situazione da cui non si torna indietro. Non è come quando ti iscrivi a un corso e poi decidi di ritirarti. Per qualsiasi cosa puoi prendere una decisione e poi, se non hai più voglia, puoi ripensarci. In questo caso se intraprendi questa strada è fatta. Hai davanti a te un percorso sconosciuto dove non ci sono vie di uscita. E tutto ciò che non ha alternative mi terrorizza. Il fatto però è che non ero più sola. Avevo una cosa minuscola in corpo che si stava organizzando nel mio utero, un essere minuscolo che si espandeva giorno dopo giorno eppure già lo sentivo, dopo che l’avevo scoperto grazie a uno stupido. Mio marito venne stranamente puntuale dal lavoro per la pausa pranzo. Quando aprii la porta non sapevo che dirgli. Per tutta l’ora a disposizione parlammo, ridemmo, in modo isterico a dire il vero. C’era dell’imbarazzo. Insomma, la nostra avventura iniziava. Certo non potevamo sapere quello avremmo affrontato.

    Gravidanza con sorpresa

    Visita dalla ginecologa, analisi del sangue. Ok. Confermato. Ero incinta. Mi sentivo come se stessi vivendo solo io la gravidanza in tutto il mondo. Mi sembrava anche che la gente lo capisse dai miei sguardi. E cominciavo a dare la notizia a parenti e amici ricevendo complimenti e auguri. Una sera invitammo i nostri genitori a cena. Mio suocero che si congratulava con mio marito (come se fosse lui l’unico protagonista della vicenda), mia suocera che urlava e si raccomandava a padre Pio e mia madre che ovviamente diceva di averlo capito da giorni, non so in quale maniera. Perché le mamme, si sa, sanno tutto. E io capii già da allora che sarei stata inondata da centinaia di consigli. Chissà perché ma quando aspetti un bambino la gente sembra mettersi d’accordo nel ripetere le stesse frasi. Al di là del fatto che la maggior parte, dopo che dai la notizia ovviamente, osserva che hai una luce speciale negli occhi. La lista dei suggerimenti è lunga, si parte da cosa devi mangiare, cosa devi bere al cosa puoi

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