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Il vento e la giostra
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E-book165 pagine2 ore

Il vento e la giostra

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Info su questo ebook

Quando Adelfio Francaviglia, affermato artista quarantenne che vive a Parigi da molti anni, scopre di avere una grave malattia, decide di tornare nella sua casa natale di Palermo, che aveva lasciato da ragazzo, per mettere in ordine i pezzi del suo passato. Esplorando la vecchia casa vuota tra memoria e sogno, pensiero e sentimento, delirio e realtà, Adelfio incontrerà i tesori e gli orrori dell’infanzia, gli amici luminosi dell’adolescenza, la scoperta dell’arte e dell’amore, ma anche la violenza, i tormenti nascosti, il senso di sconfitta che segnano come un marchio indelebile la storia della sua famiglia e della sua città, e che si condensano nella figura tragica della madre.
“Non importa se fossero brava gente o malacarne, innocenti o colpevoli, ignari o consapevoli, la malerba attecchisce e infetta tutto, e ad estirparla ci hanno provato in tanti, ma invano, perché cresce nel nostro cervello”.
LinguaItaliano
EditoreGFE
Data di uscita17 gen 2023
ISBN9791222050515
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    Anteprima del libro

    Il vento e la giostra - Salvatore Pitruzzella

    La casa

    Sei sveglio, forse. Forse non ancora. Ma già percepisci con crudele precisione in ogni singolo segmento del tuo corpo quel senso già conosciuto di condanna, quel vergognoso torpore di ciò che è destinato a finire, a corrompersi e a finire, quel marchio di fuoco volgare e disattento che dal pulsare dei piedi dilatati promana in onde cieche e aritmiche, che graffiano ossa e cartilagini, diffondendosi come serpi elettriche negli organi più molli e incustoditi. È la malattia, certo. È la malattia. Ma riconosci in essa lo stesso sollevarsi di onde oceaniche dense e soffocanti che premevano sul tuo petto nelle notti insonni, quando la luce arancione del semaforo della piazzetta trapelava a scatti nervosi da una fessura nella serranda, e tu, insaccato come una mummia nel lenzuolo di protezione, sapevi con certezza che quella crepa nella parete di fronte si stava lentamente allargando, diffondendo un chiarore di braci e di magma vulcanico, e che avrebbe continuato ad espandersi, congiungendosi infine con la voragine che spacca la montagna.  Quando l’ora sarà giunta, la voragine si schiuderà come un fiore tropicale, e ciò che ribolle nelle sue viscere sgorgherà fuori a onde e spirali, sommergendo le cose che pullulano e si dimenano all’esterno, e tutto tornerà nel caos e nell’indistinto. Per adesso la montagna è ancora là, tozza e pietrosa, che si innalza come un sogno triste oltre il cerchio di case della piazzetta, oltre i palazzi che lo attorniano, alti, grigi e indifferenti, oltre il mercato del pesce e la rimessa degli autobus, oltre i campi di sterpaglie e di detriti, oltre quella città che un giorno ebbe l’azzardo di sorgere in prossimità della soglia da cui prima o poi sarebbero venuti fuori i mostri.

    Adesso ti dirò qualcosa intorno ai mostri. Di mostri ce n’è davvero d’ogni tipo. Alcuni sono molto molto grandi: quella che ai tuoi occhi può sembrare una nuvola improvvisa che oscura il sole a mezzogiorno, è in verità la zampa immensa di un mostro di passaggio, che ti calpesterà come un insetto. I mostri possono anche essere piccoli come un gatto, o piccolissimi, come un verme o una lumaca, oppure alti pressappoco quanto me e quanto te, e quelli lì sono ancora peggio, perché ti guardano fisso negli occhi finché non muori di paura, a meno che non siano ciechi, e allora si chiamano: mostri ciechi. Ma i più cattivi di tutti sono quelli invisibili, che ti seguono di nascosto ovunque tu vada, e ne senti il fiato caldo sulla nuca, ma se ti giri di scatto vedi solo un’ombra.

    Negli intervalli tra i lampi di luce arancione, senti tua madre in cucina. È ancora in piedi. Lavora. Lavora sempre, tua madre. Giorno e notte, notte e giorno, lavora, lavora e lavora. Lei che fu covata come in un uovo di cristallo, e deposta su cuscini di seta e piume, principessa le dicevano, e aveva le manine morbide morbide come zampe di gatto, che non dovevano lavorare, né ora né mai, e che direbbe la fata adesso a vederla così? Sssss… Silenzio… la fata è in ascolto, spera di sentirla cantare, ma la madre non canta più, né ora né mai. O forse quegli atroci mugolii a bocca chiusa che si odono nel cuore della notte sono canti abortiti, risucchiati e ridigeriti in inutili spasmi di suono?

    Adesso il semaforo non c’è più, e al posto della chiassosa piazzetta hanno messo una rotatoria, più moderna e funzionale, un cerchio perfetto di erba verde con un alto faro al centro. La luce è fissa, giallastra, implacabile. Sei sveglio, sei in piedi accanto alla porta-finestra, la mano sinistra tiene la tenda scostata quel tanto che basta per guardare le rare auto che percorrono la rotatoria. Con la destra ti accarezzi leggermente il viso; chiudi gli occhi, abbassi la testa, senti il tocco della mano sulla pelle – è questo che vuol dire essere vivi? Sentire il mondo sulla pelle? – mentre l’Audi rossastra di un ubriaco rischia di finire fuori strada, frena all’ultimo minuto con un rozzo testacoda, e viene evitata per un pelo da un furgone sopravveniente. Era meglio quando c’era il semaforo, pensi, anche se una volta hai visto uno morire, attraversando la strada. Ma forse era solo uno che si era sentito male. Ne morivano tanti, ogni giorno, nel quartiere. Era un quartiere di vecchi.

    La camera dei genitori è l’unica in cui entra il sole, sommesso, dall’est, la mattina quando non c’è nessuno, solo letti sfatti e un odore greve di corpi che si mescola con il pulviscolo scintillante che compare e scompare quando le tende si muovono col vento. Il vento invece viene dal sud; incrocia il cammino del sole, soffiando asciutto e maestoso, e penetra nella casa attraverso il balconcino della camera, che si affaccia sul giardino della vecchia pazza. Il vento percorre tutto il corridoio per poter arrivare al lato opposto della casa, insinuarsi nel salotto buono, e da lì sfociare finalmente sulla piazzetta, dove a volte qualcuno ha montato una giostrina assordante, che il vento curioso aggira in varie forme a spirale, scombinando l’acconciatura della principessa assisa in trionfo sull’elefante come la sposa di Sandokan, e la nonna che l’aveva apparecchiata come una pupa guarda con pena e stringe la borsetta. Il vento impolvera i risvolti lucidi del cappotto della nonna, e le fa lacrimare gli occhi, poi corre a solleticare il ventre prominente del giostraio, che si gratta mentre aziona la leva, ed è finita, scendi dalla tua cavalcatura, si torna a casa, dà la mano alla nonna per attraversare la strada grigia, anche se c’è il semaforo. Il semaforo sta in cima a un palo verde, e ai suoi piedi una volta hai visto un dente di leone giallo. Il semaforo diventa rosso, verde, arancione; il dente di leone diventa un ciuffo di piume da soffiare via. Fra poco è il giorno dei morti, e tuo padre ti porta un regalo, una bambola, chissà, anche se avevi chiesto un cavallino, oppure un drago. Ma di sicuro ti porta una bambola, ci puoi giurare. Perché? Perché sei femmina. Il seme volante del dente di leone si allontana nell’aria in vaghe forme a spirale.

    Il vento entrato di soppiatto dal balconcino della stanza dei genitori agita le tende, che sono di stoffa sintetica, americane, e le fa frusciare di un fruscio metallico, simile a quello che producono i robot quando partono per eseguire gli ordini in terra lunare. E questo suono americano umilia la solennità sepolcrale della stanza, che è quella dove tuo padre penetrò tua madre generando te, e tu lo sai perché sei regina ormai, e non più principessa, regina del silenzio e dell’assenza, e dei letti sfatti dove hanno fatto te, e della madonnina con gli occhi acquosi sul capezzale del letto che regge un bimbo molle tra le braccia, fabbricato con quelle caramelle gommose che si attaccano ai denti. Allora concedi al vento il permesso di penetrare la casa, di penetrare l’intero palazzo, per generare un futuro dal silenzio.

    E il vento, che è un drago volante, tutto quanto divorerà di quella stanza: il letto, i lumi, la madonna e i comodini, la toeletta della mamma e le sue creme, i mozziconi delle Gauloises di papà e i suoi occhiali per leggere, e i tappeti, le scarpe, e lo sciroppo per la tosse, i pigiami abbandonati sulle sedie e poi le sedie stesse, fin quando la sua voracità sarà saziata, e allora vomiterà di nuovo tutto quanto, riportando infine ogni cosa allo stato iniziale, per prepararsi ad attraversare la soglia. Aggrappata allo stipite della porta, osservi il suo momentaneo aggirarsi indolente nella stanza, in vaghe forme a spirale, come se avesse dimenticato qualcosa o fosse tormentato da dubbi, poi di colpo il suo scatto fulmineo con cui penetra impetuoso il resto della casa, perlustra con furia la cucina e il corridoio, la stanza da pranzo ed il tinello, e infine sbatte violentemente e ripetutamente contro le imposte del salotto buono, finché queste non cederanno, aprendosi con uno schianto, e il vento sarà liberato e potrà soffiare a suo gusto sulla piazzetta. Solo la tua stanzetta sarà risparmiata. Da là il vento non passa.

    In cucina c’è il buttatoio. Si tratta di una specie di lavello rettangolare in cemento marmorizzato, e ha un’aria stranamente vissuta, come se fosse stato qui già da molto prima che la casa stessa fosse costruita. Il buttatoio è chiuso malamente da una tavola di legno ricoperta da una tovaglietta cerata a fiori geometrici e smorti, sotto la quale la polpa del legno marcisce e si sgretola, è attaccata da mille vermi e centomila millepiedi, e i brandelli anneriti che il tenace lavoro di anellidi, artropodi e altre immonde bestiole ha ricavato dalla tavola marcia si staccano dalla madre e saltano giù, nel buco senza luce del buttatoio. Il buco del buttatoio è largo quanto una mano, rotondo, e il grigio del cemento gli si scurisce gradualmente intorno, fino a confondersi col nero assoluto del buco stesso. È profondo, il buco, probabilmente senza fine. Scende da casa nostra al quarto piano, e penetra tutto il palazzo in senso verticale, a differenza del vento che, come si è già detto, lo penetra in orizzontale, e di nuovo a differenza del vento, che si sa che va a finire nella piazzetta, giostra o non giostra, il buco non si sa proprio dove vada a finire. L’unica cosa certa è che da lì arrivano gli scarafaggi.

    Provenienti da chissà dove, gli scarafaggi risalgono i quattro piani del palazzo, affiorano nel nostro buttatoio, scalandone le pareti con zampette frenetiche e uncinate, s’intrufolano nelle piaghe del legno marcito, ed escono di notte in lunghe processioni. Solo mia madre s’attardava in cucina la notte, e non riuscivo ad immaginare cosa sarebbe successo se gli scarafaggi fossero venuti fuori proprio quando lei si era appisolata seduta al tavolo, con la testa poggiata sulle briciole di pane rimaste sulla tovaglia dalla cena, e recuperava un po’ di forze prima di accingersi a lavare i piatti e rimettere ogni cosa a suo posto, mentre le legioni di insetti schifosi marciavano in ordinate schiere, s’arrampicavano sulle sue pantofole, e risalivano le caviglie snelle e i polpacci ben torniti, agganciandosi con minuscoli artigli alle smagliature delle calze di nylon, e percorrevano le pieghe della gonna grigia, e i bordi merlettati del grembiale a fiori, aggiravano il suo seno prosperoso, e arrivavano a sfiorarle i capelli e la pelle ancora morbida delle guance. Ma non potevo neppure pensare mia madre in guerra contro quelle bestie immonde, che le percuote, le calpesta, le fa a brandelli, le cosparge di veli bianchi di mortale insetticida fin quando le creature non si rovesciano a zampe all’aria invocando pietà, ma lei fiera e indomabile le annienta e le soverchia, ed esulta della vittoria urlando e battendosi il petto. Il meglio che potessi fare era sperare che non uscissero proprio, che qualche ancestrale pudore li costringesse a non mostrarsi fino a quando ci fosse in giro un essere umano, ancorché addormentato, e allora stavo zitto zitto nel mio letto, respirando il meno possibile, ad aspettare, con tutti i sensi in allerta e i muscoli contratti fino a farmi male, un rumore, un grido, un segnale che qualcosa stesse accadendo, ma mia madre continuava a dormire in cucina, e non c’era nessun rumore, niente, solo i lampi del semaforo arancione.

    Di quello che tua madre sognava non hai parlato mai a nessuno. In verità, non è che tu sapessi molto dei sogni innumerevoli che attraversavano le notti di tua madre, né degli altrettanto incalcolabili incubi, solo un sogno conoscevi, un sogno piccolo piccolo che ti raccontava a volte la sera quando non riuscivi a prendere sonno. Sapevi però con certezza che non sognava mai del tempo in cui era principessa e un mondo luminoso le ruotava attorno, prima che suo padre sparisse. Poi suo padre era tornato, ma solo una volta all’anno, da morto, per portare in segreto dolci e regali alla bambina di casa. Intanto la bambina osservava sua madre, giovane, bella e sorridente, trasformarsi a poco a poco in una nonna, coi capelli grigi e le rughe e il fiato corto, e la nonna, già vecchia di suo, in una creatura antichissima, tutta ricoperta di squame grigie, che borbottava di rado, con una voce che sapeva di polvere, e ogni notte lanciava nel sonno lunghi gridi lamentosi. Quelli li ricordi vagamente anche tu, quei lugubri guaiti che apparentemente eri il solo a udire, eppure erano talmente potenti che perfino i vicini avrebbero potuto svegliarsi, e la vedova Allotta avrebbe potuto bussare alla porta in vestaglia e pantofole coi bigodini ancora in testa, per chiedere se tutto andava bene, povera vecchia chissà che sogni deve fare, il marito gliel’hanno ammazzato in guerra, il figlio lo sappiamo tutti, meglio non parlarne, e la nuora, ma l’avete vista, mi pare una pazza, tutta scarmigliata, ti guarda con certi occhi, a me mi fanno pena, lo sa, ma certe volte sono proprio pesanti, la famiglia Scalogna mi pare, quando escono tutte e tre, e quella bambina, che pareva una stella, ora è una primula avvizzita, dico io: l’acqua passa, no? Anch’io, lo sa, mio marito, quanto mi voleva bene, mi teneva in palmo di mano, sono sempre i migliori che se ne vanno.

    Tua madre si chiamava Adele, come sua nonna. Questa era figlia di brava gente senza pretese che lavorava la terra da generazioni, ma lei l’avevano fatta studiare da maestra, e poi l’avevano data in moglie al figlio del padrone, che era dottore, un uomo bello ed elegante, premuroso ma

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