Non c'è dono più grande
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Che sta succedendo all'ordinatissima vita di Colette, dottoranda in matematica che ha fatto della razionalità e della logica i cardini della propria esistenza? Da quando ha sognato un perfetto sconosciuto trovandoselo poi di fronte, così affascinante, sembra quasi che l'universo intero si sia mobilitato per spingerla tra le braccia di quell'uomo. Che c'entri la vena stregonesca di famiglia oppure no, Colette non ha nessuna intenzione di assecondare i sentimenti che ha iniziato a provare per lui, così sorprendenti e illogici, così spaventosamente veri. Ma come resistere alla geometrica perfezione di un disegno che sembra tratteggiato dal Destino? Come ignorare il percorso che, tra le vie di Parigi, potrebbe magicamente portarla a raggiugere l'autentica felicità?
Aquilana, Carla Arduini è scrittrice, saggista e drammaturga. Appassionata da sempre di letteratura rosa, ha al suo attivo decine di novelle. Nel 2012 ha vinto il premio Romance Mondadori con il racconto "Clio e il barbaro."
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Anteprima del libro
Non c'è dono più grande - Carla Arduini
a cura di Roberta Ciuffi
Non c'è dono più grande
di Carla Arduini
1.0 maggio 2014
ISBN versione ePub: 9788867753284
© 2014 Carla Arduini
Edizione ebook © 2014 Delos Digital srl
Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano
Versione: 1.0 maggio 2014
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
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Indice
Colophon
Carla Arduini
Non c'è dono più grande
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
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Carla Arduini
Aquilana, Carla Arduini è scrittrice, saggista e drammaturga. Appassionata da sempre di letteratura rosa, ha al suo attivo decine di novelle. Nel 2012 ha vinto il premio Romance Mondadori con il racconto Clio e il barbaro.
1
Colette camminava a passo veloce, in preda alla sensazione di essere in ritardo. Attraversò di corsa la strada, senza notare l’assenza delle solite macchine venefiche e rumorose, e in una vetrina colse di sfuggita il proprio riflesso: una ragazza esile, con una coda di cavallo che oscillava ritmicamente, le lunghe gambe snelle scoperte dalla gonna che le svolazzava leggera attorno alle ginocchia…
Abbassò lo sguardo, interdetta: non ricordava d’aver mai comprato quell’abito color crema con la gonna tempestata di papaveri, ma dovette ammettere che le stava benissimo e si abbinava a meraviglia con le ballerine di vernice rossa. Proseguì verso l’imbocco della metropolitana, svelta, preoccupata d’arrivare in tempo, ma quando svoltò l’angolo al posto dell’insegna rossa e bianca del metrò si trovò davanti un cartellone pubblicitario.
Si bloccò, disorientata, e si guardò intorno, cercando un qualche punto di riferimento. Tutto era familiare e al contempo estraneo, come se un gigante, nottetempo, avesse giocato con case e palazzi, spostandoli da una parte all’altra per ricostruire una città diversa. L’imponente edificio alla sua destra avrebbe dovuto trovarsi sul lungosenna, vicino al Pont Neuf, e di certo non di fronte al Lapin Agile, il vecchio cabaret di Montmartre, con la sua aria di rustica casetta di campagna.
Riprese a camminare, incerta e ormai decisamente spaventata, cercando invano i cartelli con i nomi delle strade, in modo da potersi orientare in quella topografia dissestata. Avrebbe volentieri chiesto informazioni, se in giro ci fosse stata anima viva. Lo realizzò all’improvviso, rendendosi conto del silenzio imperturbato che le aleggiava attorno, così diverso dalla cacofonia di rumori di ogni giorno: quel concerto dissonante in cui si fondevano clacson e scoppi di tosse, saluti gridati da un lato all’altro della via e bambini in lacrime, scarpe ticchettanti e saracinesche tirate su, mentre un cane abbaiava e i motori delle macchine non la smettevano di brontolare.
Si morse il labbro, sentendosi sull’orlo delle lacrime, e a passi titubanti proseguì fino a una piazza sulla quale incombevano, lugubri, le alte facciate dei palazzi. Al centro, un giardinetto spoglio e incolto dava piuttosto l’impressione di un vecchio cimitero, con i rami degli alberi che si protendevano scuri e nudi verso l’alto e le erbacce secche. Il sole, fino a quel momento alto nel cielo, descrisse un’ampia parabola e s'inabissò dietro ai tetti, rapido come se qualcuno, nell’altro emisfero, lo avesse arpionato e trascinato giù.
Fu subito notte, la notte più scura e spaventosa che Colette avesse mai vissuto, perché non c’era neppure una luce ad ammorbidirla: spenti i lampioni e buie le finestre delle case, come se tutti fossero andati via e lei fosse rimasta l’unica abitante di quella città, o forse del mondo intero. Si strinse il busto con le braccia, rabbrividendo di freddo e paura.
− Dove sei? – esclamò con un filo di voce, senza sapere neppure lei a chi si stesse rivolgendo.
– Più vicino di quanto non pensi.
Colette trasalì e si voltò di scatto. Accanto a lei, sua nonna Agathe le stava sorridendo, il volto rischiarato dalla luminescenza argentea dei lunghi capelli bianchi, simile a quella della neve sotto la luna.
− Nonna! Pensavo fossi morta.
La vecchia signora ammiccò furbescamente. – Sciocchezze, tesoro! Sciocchezze. – Ridacchiò e sollevò il mento, indicandole la piazza davanti a loro, fino a un istante prima simile a un buco nero incastrato tra le facciate perpendicolari dei palazzi. Come un fiammifero nel buio, un lampione si accese all’improvviso, seguito da un altro e un altro ancora, finché le tenebre non furono risospinte in alto, ben al di sopra di tetti e comignoli. C’era qualcosa di vitale e allegro, ora, nell’aria. Il piccolo giardino recintato al centro della piazza sembrò scrollarsi di dosso il torpore invernale e sbadigliare, prima di iniziare a germogliare a ritmo vertiginoso. Colette si riparò gli occhi con la mano, mentre la luce artificiale si diluiva in quella calda e