Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte: I Girifalchi. Vol. II
Di Stepor Marqu
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Anteprima del libro
Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte - Stepor Marqu
Stepor Marqu (1967), seppure con diversa patronimica, è autore di Chiedere scusa. La letteratura come risarcimento (Viaindustriae, 2012) e di due lavori pubblicati in formato e-book, Operazione Marcuse (2019) e Deus ex Machina (2020). Nell’aprile 2021 ha dato avvio alla pubblicazione della teratologia I Girifalchi, facendo uscire, sempre in formato e-book, Note a piè di lapide, il primo volume della serie. Nel 2018 ha aperto il blog letterario L’Errore di Kafka.
© L’Errore di Kafka
© www.erroredikafka.blog
Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte
ISBN 979-12-20342-37-7
Prima edizione: giugno 2021
Progettazione grafica © L’Errore di Kafka
Copertina: Senza titolo, foto Virginia Salini
Avvertenza: Pianto rituale tra Nibbiano e Satriano, stanotte è un’opera di immaginazione. Personaggi, luoghi e fatti sono immaginari. Detto altrimenti, essi sono reali nella misura in cui lo sono i Girifalchi, entità mitologiche, teratologiche ed araldiche. La vita è sogno. Ne consegue che ogni eventuale identificazione con persone, luoghi e fatti reali è arbitraria. La mappa rappresenta un luogo immaginario.
Stepor Marqu
Pianto rituale
tra Nibbiano e Satriano,
stanotte
I GIRIFALCHI. VOL. II
Il profumo degli aghi di pino si sdipana mano a mano dal ripesto del tappeto di bosco. Le chiome alte degli alberi spaccano lo scoppio continuo di luce, e il sole lacero fende, spezzati i raggi, l’interno della cupola verde. Scherzano i raggi col verde esile e acerbo del virgulto, si spengono sui cespi umidi e irti, aggrappi contorti a terra. Ecco schiocca il gracchio gutturale, strano, di qualche strano uccello, così s’indovina. E tutto è sospeso, tra fatto e sogno. Non si crede alla possibilità del possibile, sotto la sferza infratta del sole, né che la scorza d’alloro fu bianca pelle di Dafne, un tempo. Ci si affranca dalla credula fede nel certo soltanto di notte. O naufragando per stupito andare, tremulo, incerto, tra la quiete del bosco, in un giorno come questo.
Normalmente è solo un respiro quello che sento, se lo sento. Il polmone del mondo che respira? Prende aria, rimane in apnea, un'apnea che può durare un'eternità o un istante, soffia fuori l’aria, normalmente senza suono. Deve esserci, da qualche parte, una grande pompa. Immette l’aria, la camera d’aria del mondo si gonfia e, a lento rilascio, si sgonfia. Sì, c’è molto silenzio in fondo a questo burrone, sebbene nel bosco le foglie siano fitte di voci. Prima che il sole sorga, si ode il canto del gallo sul tetto di lamiera del pollaio. Quando è giorno fatto, odonsi i colpi dello scalpello che arrivano dalla cava accanto al cimitero, in alto, sopra la mia chioma, sul versante occidentale. Quando il sole si nasconde dietro la fortezza, ecco allora che si ode il rumore delle ruote di gomma che stritolano i sassi, un crepitio di vetri infranti e di piccole e regolari esplosioni, sembra che qualcuno da qualche parte stia friggendo con una padella gigante. A ovest, alle mie spalle, come dicevo, il cimitero, la cava di pietra e, svettante sulla città alta di mura e turrita, la fortezza. Dico alle mie spalle perché io sono rivolta a oriente. A oriente il convento delle monache trucidate, poco più che un cumulo di pietre sul poggio a lato della statale; più oltre, salendo con gli occhi, la provinciale che s'inserpenta nelle cavità del Monte Subacqueo, passa accanto alla cava di cemento abbandonata, costeggia il borgo Tre Croci dove viveva la madonnina deforme, e si perde nelle latebre del monte. La statale, che cammina più in basso, a metà costa, si lascia alle spalle il convento e arriva alla bettola. E poi si inerpica verso Nibbiano, verso Satriano. Qui, da me, a fondo valle, c’è il torrente, c’è la torretta medievale, c’è il porcile e il pollaio della chiusa di ulivi, di cui è guardiano quello che va via la sera col suo furgoncino rosso e fa rumore sulla ghiaia. A nord, il brullo Col Caprone, dove c’è l’allevamento dei cani da caccia. A un certo punto i colpi dello scalpello, che mi hanno tenuto compagnia per molti cicli di Saturno, sono stati sostituiti da quello, dilaniante, del frullino. Poi, più niente. Devono averla chiusa, la cava. Scolpivano le lapidi per il cimitero. A proposito di suoni: le piagnone. Quando morì il vasaio il lamento funebre, ma più che un lamento era una lagna, l’ho sentito per tutta la notte. Certo, il povero vasaio torniva in terracotta anche le lucerne ad olio che si usavano nelle veglie funebri, si vede che le piagnone erano particolarmente addolorate per lui. Non le ho sentite più da un pezzo. Non muore più nessuno. O non muore più nessun vasaio.
No, no, muoiono ancora. La madonnina deforme è morta, ho visto il corteo delle macchine scendere lentamente da Tre Croci, tornante dopo tornante, sebbene la parola suoni beffarda, perché non c’è nessun tornante quando parliamo di un accompagno al cimitero, l’ho visto ancora immettersi nella statale e arrivare qua sopra, al cimitero. Tutto un grande silenzio. Sì, i rintocchi della campana del cimitero. Il giostraio è morto, finito quaggiù una notte di gennaio con la sua macchina ed altri due compari. La carcassa della macchina sta ancora quaggiù. Dice fossero ubriachi. La strada era ghiacciata. La figlia, dopo, veniva col motorino, di pomeriggio, sullo spiazzo. Sostava a lungo, fumava.
Quando Sirio compare all’alba il torrente quaggiù è una riviera sitibonda, un riarso e desertico letto di fiume. Quando le foglie prendono a ingiallire, passata la canicola, il greto ricomincia a ospitare dapprima un rivolo, un rigagnolo, poi una vena e infine un torrente, di nuovo. Muore e rinasce. Ha una seconda vita. Ricomincia a scorrere, dopo la lunga secca estiva. Ricomincia quello scroscio attenuato, ricomincia quel ribollire felpato, quel cristallino tintinnare sulle pietre e sui detriti, come se in lontananza ci fosse una lavatrice che risciacqua e scarica. Una di quelle vecchie lavatrici che scaraventano quaggiù dalla rupe, anch'essa con una seconda vita.
Certo, hanno buttato di tutto, quaggiù. Arrivavano con gli autocarri, con gli apetti, coi furgoni, e sversavano di sotto di tutto: spurgo, vecchie poltrone, materassi, bambole di gomma senza occhi, scarpe con la para scollata, carcasse di elettrodomestici, reti metalliche, cucine economiche di ghisa, fusti di vernice, orologi a pendolo fermi da secoli. Sul greto finivano la loro sobbalzante corsa anche logore ruote di gomma, che restavano immobili per l’eternità, guardando con una specie di stupore profondo tra macerie di mattoni ed erbacce.
Poi il loro vociare, di notte, dalla torretta medievale. Li sentivo porre la questione: se non c’è nessuno ad ascoltare lo sciabordio della corrente che va a infrangersi contro le macerie dei mattoni, si può dire che fa rumore? Mi facevano quasi tenerezza, mica rabbia, nella loro prosopopea. Ci provavano, almeno. Deducevano filosoficamente la mia inesistenza. Se una vipera guizza sul verde della radura ma non c’è nessuno nei paraggi, e per nessuno intendo nessun altro animale, esiste o non esiste il suo veleno? Quando a sera il guardiano richiude il porcile e il pollaio e risale la strada con il suo furgoncino rosso e con la sua scimmia a bordo e non c’è nessuno che ascolta, nessun altro umano, intendo, si può dire che il crepitio delle ruote che si propaga nella valletta non faccia rumore? Il guardiano non lo sente neanche più, il rumore, ci è abituato. E i cani dell’allevamento che continuano ad abbaiare furiosamente da dietro il recinto anche dopo che la Renault 4 è passata e ha svoltato i tornanti in salita, abbaiano davvero se non c’è nessuno che li ascolta?
Li sentivo quando tornavano quaggiù alla torretta, riconoscevo il rumore delle ruote che trituravano meticolosamente i sassi nella notte. I cani dell’allevamento, con furia ogni notte ridestata, si davano in selvaggio inseguimento della macchina per un tratto di recinto, lanciando latrati come smisurati e assordanti rimproveri che loro, umbriachi come erano, e lo erano, neanche sentivano. Non è chiaro se l’inseguimento e i latrati fossero per spaventare gli intrusi, che intrusi non erano, o se per tirare fuori lo spavento che li squassava dentro.
Una notte li sentii che discutevano fuori dalla torretta:
Sì, accetto il mio precario statuto ontologico, però rivendico una funzione morale: che ve ne pare se dico che sono la vostra cattiva strada e la vostra cattiva coscienza, gli replicavo con il mormorio delle foglie? Se fossi il coro tragico della vostra sceneggiata? Conosco i vostri segreti: per esempio quello che lotta per essere disinvolto e