Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I Castelli della Valle di Oenpell
I Castelli della Valle di Oenpell
I Castelli della Valle di Oenpell
E-book345 pagine4 ore

I Castelli della Valle di Oenpell

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Intanto più in là, oltre le colline, sui picchi più alti, si profilano le torri dei castelli che vigilano su questa terra assopita. 
Castelli eterni, antichi, segreti, che proteggono l’ingresso alla valle, le cose della natura e le vite delle persone.
Tra le cinque e le sei del pomeriggio, da questo crocevia passano carovane, viandanti e musicanti. 
Si fermano a ogni curva del fiume, ai piedi di ogni collina, e quando giungono sotto i bastioni di un castello, alzano gli occhi e dedicano una storia al tramonto in arrivo.

E finché le loro storie verranno raccontate, il sole non calerà. 

E così sia per sempre, tra le persone che vivono unite nella luce di questa valle.

Andrea Pupeschi è avvocato e vive con la compagna e la figlia tra Milano e la Brianza.
Ama il suo lavoro ed ama la lettura, il disegno, la fotografia, la natura incontaminata e l’esperienza del viaggio, in tutte le sue sfaccettature.
Le sue mete favorite sono i luoghi esotici e selvaggi, dove è possibile incontrare gli animali allo stato libero.
Scrive da sempre. Ha iniziato a farlo quando era un ragazzino pieno di immaginazione, e oggi quel ragazzino scrive ancora…
Ha pubblicato alcuni racconti, e nel marzo 2023 si è classificato primo al concorso letterario “I racconti dell’Ultimo Bicchiere”, seconda edizione, con un racconto dal titolo Albergo Personale.
 
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2023
ISBN9788830689596
I Castelli della Valle di Oenpell

Correlato a I Castelli della Valle di Oenpell

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I Castelli della Valle di Oenpell

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I Castelli della Valle di Oenpell - Andrea Pupeschi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Esiste da qualche parte un paese, in cui ogni cosa che accade, accade sempre, esattamente, tra le cinque e le sei del pomeriggio.

    Questo paese è attraversato da una valle di forme dolci e sinuose, che segue paziente un fiume con gli argini bianchi.

    A ogni curva del fiume, le colline avanzano e si ritirano, morbide e rotonde nella luce pallida, colorate di tinte pastello, accarezzate da un sole giallo arancio.

    Sopra ogni collina, i prati rasati, verdeggianti, punteggiati di covoni di fieno, attirano gli sguardi dei viaggiatori, le corse dei bambini e i movimenti zigzaganti dei trattori dei contadini.

    I boschi verdi e le case di mattoni riposano vicini, uniti e immutati nello scorrere lento degli anni.

    Gli stessi uomini e le stesse donne, eterei, animano la scena come in un quadro, immersi nelle loro quotidiane occupazioni.

    Due anziane signore stanno sempre ferme sul cancello di casa, e osservano serene la strada pigra, da cui sta salendo un’auto.

    Nell’aria tiepida non c’è paura, non ci sono presagi.

    A quest’ora nessuno sarà chiamato a partire.

    Nessun addio verrà pronunciato, e nessuna parola verrà spezzata.

    Le abitazioni lungo la valle resteranno aperte.

    Questa è l’ora degli arrivi.

    È l’ora di una carezza. Di uno slancio di meraviglia a occhi spalancati.

    Intanto più in là, oltre le colline, sui picchi più alti, si profilano le torri dei castelli che vigilano su questa terra assopita.

    Castelli eterni, antichi, segreti, che proteggono l’ingresso alla valle, i ritratti della natura e le vite delle persone.

    Tra le cinque e le sei del pomeriggio, da questo crocevia passano carovane, viandanti e musicanti.

    Si fermano a ogni curva del fiume, ai piedi di ogni collina, e quando giungono sotto i bastioni di un castello, alzano gli occhi e dedicano una storia al tramonto in arrivo.

    E finché le loro storie verranno raccontate, il sole non calerà.

    E così sia per sempre, tra le persone che vivono unite nella luce di questa valle.

    1.

    Il primo castello.

    Dove il viaggio è iniziato.

    Una mattina di giugno di tanti anni fa.

    Il vento dell’estate.

    Metà degli anni Ottanta.

    ELDORADO

    Mattina di metà giugno.

    Sono quasi le dieci. Il sole entra in sala, a sprazzi caldi e splendenti, dalle finestre socchiuse.

    C’è il televisore acceso, e una tazza di latte pronta sul tavolo della cucina, con un po’ di caffè.

    Tra mezz’ora arriverà la vicina del palazzo di fronte, la signora ben vestita con i capelli biondi, insieme al figlio, e li porterà in quella piscina con gli scivoli giganteschi, arrotolati come spire di grandi boa colorati.

    Sul tavolo sono aperti alla rinfusa quaderni, agende e blocchi per appunti, immersi nei raggi smaglianti del sole. Sono tutti pieni di disegni, creati a memoria guardando le immagini danzare sullo schermo del televisore.

    Le puntate di oggi sono da ricordare. La prima era già andata in onda su un altro canale, a primavera, o forse lo scorso anno. È la puntata dello scudo spaziale, e di quel feroce generale alieno che installa segreti schermi solari per bruciare la superficie della Terra. Alla fine si scopre che è lo stesso che compare come un miraggio nella sigla di coda, per una manciata di secondi, con spirali di cilindri rossi e blu che gli entrano ed escono dal corpo.

    L’agenda con la copertina scura rigida, che odora di pelle, ha una piccola scritta dorata in rilievo, quattro lettere in corsivetto sull’angolo in alto a destra. È la migliore per disegnare perché ha tantissimi fogli. Alla fine di ogni mese ci sono delle doppie pagine più spesse delle altre, plastificate, con fotografie a colori e in bianco e nero di costruzioni di cemento, per lo più dighe, centrali idroelettriche e torri dell’alta tensione. Col tempo quelle immagini hanno assunto un’aura enigmatica: a volte sinistra, soprattutto in certi pomeriggi solitari, ma altre volte, nelle giornate lucenti e affollate, dolcemente suggestiva.

    Quasi tutte le pagine sono fitte di disegni tracciati con la penna nera, calcando sulla carta bianca. Disegni di dinosauri, di mostri, di castelli turriti a picco sul mare da cui partono gli eserciti dei crociati, di cavalieri e battaglie con invasori che incombono da altri mondi.

    Un giorno non esisteranno più. Il tempo avrà raschiato via le immagini e sbriciolato i fogli di carta.

    È quasi giunta l’ora di scendere, di mettere nello zaino le cose da portare in piscina, l’asciugamano, il costume da bagno e i panini imbottiti già pronti, di chiudere la porta con le chiavi che ha lasciato mamma e correre giù per le scale.

    Ci saranno dei vicini in giro, magari giù nell’atrio, dove quel grande vaso colorato alto più di lui sta in un angolo a guardia dell’ingresso. O forse li incontrerà in giardino.

    Anche se non servono, perché a tenere compagnia ci sono già la signora elegante con i riccioli biondi e il figlio. E c’è anche una zia un po’ lunatica, sorella di quella signora, che ogni tanto viene su da Roma; forse stamattina ci sarà anche lei.

    Ma la casa è vuota.

    Anche se è piena di sole e la televisione è ancora accesa.

    Nella luce chiara e bianca, tiepida, a un tratto si sentono delle note lontane, esotiche, provenienti da un luogo remoto.

    Una giungla verde sconfinata e rigogliosa, e, da qualche parte, tra le chiome altissime madide di pioggia, un tesoro nascosto.

    Le note sembrano quelle di un flauto, o di un’ocarina. O forse è lo stormire delle ali delle paradisee tra le fronde più alte degli alberi.

    Quelle note svelano la strada che conduce a un tempio perduto nel fitto della giungla, tra le radici immense dei fichi e le cattedrali di liane scintillanti sotto il sole mattutino.

    Per arrivare al tempio bisogna ricordare.

    Potrebbe avere scoperto l’ingresso, per l’unica volta nella vita, proprio in questa mattina di inizio estate.

    Ecco un movimento indistinto nel sentiero all’ombra della volta verde. Scompare subito, ma per un attimo le fronde si scostano e si intravede una grande porta.

    È l’entrata del tempio, che conduce a una fonte incantata.

    Ci sono graffiti di figure stilizzate sulle pareti di pietra, e diavoli scolpiti con ali e code biforcute che si librano fra gli alberi.

    Ma bisogna tornare ancora più indietro. Fino ai recessi più profondi della foresta, dove sono adagiati tra le foglie di felce i ricordi più antichi, come navi fantastiche arenate nelle pieghe del tempo.

    E ancora più indietro…

    2.

    Il secondo castello.

    Il crocevia dove le mie strade sono passate e si sono riunite.

    Sipario del primo atto.

    Agosto 2007.

    LA STRADA PER LA CITTÀ BIANCA

    (ovvero I Pensieri Oscuri)

    Le ossessioni compulsive originate da una psiche alterata

    generano a loro volta stati oppressivi

    che possono assumere molteplici forme:

    comportamenti coattivi, idee fisse e ricorrenti, pensieri circolari,

    rituali ripetuti con insistenza patologica.

    Il loro tratto comune può essere una fissazione irrazionale,

    o un’attrazione innaturale,

    per una certa immagine,

    o una situazione,

    o un determinato luogo…

    La mia storia in fondo ha poco da offrire; poco che vada oltre la dimensione ordinaria che ha contraddistinto gran parte della mia esistenza, come del resto quella della maggioranza degli individui che ho conosciuto.

    Così è stato fino a un determinato momento, a partire dal quale niente ha avuto più significato, nelle mie abitudini, nei miei comportamenti, nelle azioni abituali, mentre la mia attenzione e le mie energie mentali hanno iniziato a concentrarsi senza apparente motivo, ma in modo maniacale, su certe immagini e certe idee. Sempre più ossessivamente, sempre più in profondità.

    Non ricordo il momento preciso in cui questo processo è iniziato; so che ne ho acquisito consapevolezza qualche tempo dopo la fine del mio matrimonio, quando ero tornato a vivere da solo, e in qualche modo mi ero allontanato dalla ristretta cerchia di amici e conoscenti che avevo frequentato fino ad allora. O forse loro si erano allontanati da me; non so, non ha importanza. Quello che conta è che da un certo momento ho capito che avrei dovuto fare piazza pulita di tutti i miei punti di riferimento e darmi una scossa; avrei dovuto andare lontano e iniziare a viaggiare, e già intuivo che non sarei più stato in grado di fermarmi.

    La spinta che mi animava era totalmente indefinita, eppure irresistibile. Era l’idea fissa, martellante, che ci fosse qualcosa, da qualche parte, che esisteva solo per me, e che io, a qualunque costo, avrei dovuto trovarla.

    Non avevo la più vaga percezione di ciò che dovevo cercare. Non una specifica persona, o un luogo, o una situazione determinata; era semplicemente qualcosa di cui percepivo l’esistenza pur senza riuscire a metterla a fuoco. Come in fondo a un sogno in cui ci si accorge di essere quasi giunti a una rivelazione senza tuttavia poterla afferrare, e la mente scivola in un labirinto di confusione, incapace di ricostruire, ma con la certezza irrazionale che qualcosa si è acceso. A quel punto ogni altro tassello della mia vita – la mia casa, le giornate di lavoro, le facce, le parole, gli incontri, e tutto il resto – non valeva più niente. E io, una mattina, ho pronunciato ad alta voce queste semplici parole: qualcosa mi sta aspettando.

    Ho detto che ho iniziato a viaggiare. Una, due, tre volte l’anno, non appena avevo la possibilità di assentarmi dal lavoro. Viaggi a ripetizione, in momenti e con una durata ogni volta diversi. Ma sempre nello stesso luogo.

    San Francisco.

    La Porta d’Oro. Vecchia Frisco.

    Acropoli bianca e dorata, emersa dal blu dell’oceano.

    Città delle cento colline.

    Perla gelida incastonata nella baia del vento e delle nebbie.

    L’hanno chiamata in tanti modi, tutti in qualche modo incapaci di coglierne la vera essenza, almeno per me.

    Io c’ero già stato in passato, così come ero stato in molte altre città d’oltreoceano. Ma per un motivo del tutto incomprensibile, ora sentivo che dovevo tornare lì il prima possibile. Senza ragione, forse per un incrocio di mere coincidenze, il mio inconscio mi stava ordinando di andare proprio in quella città.

    Partii per il primo dei miei nuovi viaggi a fine settembre, per dieci giorni.

    Al mio arrivo fu un susseguirsi di istantanee, un avvicinamento per immagini.

    La prima immagine, guidando verso nord l’auto noleggiata in aeroporto, fu una corona di alture intorno alla baia e il dedalo di quartieri arrampicati sulle colline brune.

    Un’immagine bianca.

    Era una mattina di sole, il cielo era terso e l’aria fredda. Spinsi l’auto verso quella vista e il cielo sembrò alzare un invisibile sipario per accogliermi.

    La seconda immagine si accese appena feci ingresso nel cuore della città: quelle strade impossibili che l’hanno resa famosa, quelle pendenze assurde figlie della pretesa, risalente a quasi due secoli fa, di trapiantare una griglia a scacchiera in quella teoria di colli sconnessi.

    E ancora un’altra immagine: come se potessi coglierli dall’alto, dal cielo viola e giallo di quel primo giorno, un mosaico di isolati, di blocks squadrati di trenta metri per dieci, e grappoli di case ed edifici in un miscuglio di stili e colori diversi.

    Presi in affitto una stanza alle pendici di Telegraph Hill, la collina che domina il porto sovrastata dalla colonna di pietra della Coit Tower, e trascorsi quei dieci giorni, dal primo all’ultimo, senza fare praticamente nulla. Non ero in grado di fare nulla, potevo solo guardarmi intorno come un automa, e assorbire le immagini.

    Giorni di totale disorientamento. Mi aggiravo soprattutto nella zona del porto, lungo i docks e le banchine battuti dal vento, a seguire l’andirivieni degli abitanti della città e dei turisti, o a osservare i clipper che uscivano nella baia per pescare le aringhe, e poi i cantieri, le strade grigie congestionate, il profilo bianco e azzurro dei palazzi e delle chiese, le nuvole in costante movimento nel cielo autunnale, e intanto ascoltavo le voci, i suoni delle sirene delle navi, i versi dei gabbiani e dei leoni marini assembrati in colonie sui pontili, il rumore dei tram a cremagliera. Ascoltavo e guardavo senza sosta, ma in modo profondamente apatico, come avrebbe fatto un manichino di plastica.

    Dopo i primi giorni di sole arrivò la nebbia, e Downtown divenne una grigia selva di torri puntate nella foschia. La baia appariva in brevi momenti tra i tetti e le sagome dei ponti, e potevo quasi percepire, sotto la superficie, la corrente della California che raffreddava l’aria alimentando la nebbia.

    Le notti erano silenziose, eccetto qualche sirena che riecheggiava in lontananza. Dormivo a lungo, mai meno di nove-dieci ore, eppure a ogni risveglio mi sentivo fiacco come se non avessi chiuso occhio. Forse per questo non riuscii mai a concentrare i miei pensieri su di me, sul reale motivo di quel viaggio, né feci nulla per cercare di capire perché mi trovassi lì, limitandomi ad assorbire passivamente ciò che mi fluiva intorno.

    La prima settimana trascorse veloce e già si profilava il momento della ripartenza. Spesi il tempo che mi rimaneva a bighellonare su e giù per le strade intorno al mio isolato, tra file e file di case vittoriane edificate nell’Ottocento, con le facciate esuberanti che occhieggiavano ai passanti come in una vetrina allestita. Case in stile Eastlake ricoperte di decorazioni gialle e blu, con i loro abbaini e le verande e le balaustre che ricordavano le grandi dimore degli Stati del Sud; case Queen Anne con due paia di torri ciascuna, e i timpani e le finestre sormontati da archi ornamentali; e poi altre case, con le facciate strette e oblunghe, asimmetriche, dipinte di azzurro turchese.

    Anche le facciate di tutte quelle case divennero immagini ricorrenti che scorrevano senza pausa nella mia mente. E così le colline, che da una visuale sembravano schiacciate dalla città, da un’altra svettavano verso il cielo come montagne a strapiombo. Le osservavo da direzioni e prospettive diverse, come avrebbe fatto un fotografo alla ricerca dell’inquadratura che ne cogliesse meglio l’essenza.

    Dopo la baia, i quartieri bianchi sulle colline, le strade ripide del centro e le case simili a castelli, una nuova immagine mi rimase impressa: le torri della città. I grattacieli di vetro e acciaio azzurro e di quarzo bianco ammassati di fronte al porto. Dalla cima di Telegraph Hill passai ore intere a fissare quelle sagome gigantesche, sia di giorno sia al calar della sera, mentre le luci del centro si confondevano nell’aria brumosa. Ero ancora incapace di capire, ma in qualche modo la mia ossessione indefinita trovava una panacea nell’effetto conturbante, spiazzante, che mi dava la vista dello skyline della città contro la luce del cielo.

    Quando la mia permanenza giunse al termine, lo stato di trance che aveva segnato quei giorni lasciò il posto alla consapevolezza che non avevo trovato alcuna risposta, non avevo scoperto ciò che cercavo, e – a parte quelle immagini ipnotiche marchiate a fuoco nella mente – stavo tornando a casa con un senso di vuoto e un disordine ancor più profondi.

    L’ultimo giorno a Telegraph Hill rimasi per tutta la mattina in contemplazione della baia, seguendo il movimento della foschia bianca che saliva dal porto formando un muro compatto. Nel pomeriggio il cielo si aprì all’improvviso dandomi un’ultima immagine delle case aristocratiche del centro bagnate da un timido sole, e rampe di scale e cottage di legno nascosti tra gli alberi. Rimasi fuori fino a notte passeggiando tra i palazzi sulla collina, e ogni tanto guardavo dalla strada le finestre delle ville e dei condomini e qualche fuggevole movimento dietro ai vetri appannati.

    Fu allora che mi venne da sorridere al pensiero del primo viaggio che avevo fatto in quella città, tanti anni prima, con la mia fidanzata di allora e due amici, e le sensazioni di benessere che avevano accompagnato quei giorni. Era stata una visita molto diversa, serena, a passeggiare a piedi tra quelle stesse strade immortalando le nostre chiacchiere, e i volti della città, con una videocamera e una macchina fotografica.

    Come lampi mi tornarono alla mente alcuni momenti di quel viaggio lontano, e spezzoni di frasi, di discorsi, rimasti registrati sul nastro delle mini-cassette quadrate della mia vecchia videocamera. Scampoli di riprese notturne, nel dedalo di viuzze ripide intorno a Russian Hill, alla ricerca di uno scorcio per fotografare lo skyline illuminato.

    Rallenta un po’, non riesco a riprendere le case.

    Questa era la mia voce, dal sedile accanto a quello del nostro amico che guidava.

    Io sono stanca, quando torniamo in albergo? … Oh guarda quella, che bella!

    La mia fidanzata, seduta sul sedile dietro di me.

    Aspettate un attimo, sto cercando il posto giusto.

    Il posto giusto per cosa?

    L’altra ragazza, con una piantina in mano.

    Per una foto. Ti ricordi che sono un architetto? Una sola foto e torniamo. Ora prendi quella strada.

    Certo che questa città è labirintica. Se non fosse per le colline…

    Ecco, si vedono i due ponti, e quella macchia nera è l’isola che sorge a metà e unisce le due campate.

    Per quello che ho visto finora, è la città americana che preferisco in assoluto. Aveva ragione Celeste.

    Le voci sovrapposte di tutti e quattro, nell’abitacolo rischiarato dalle luci dei lampioni.

    Fermati a quell’incrocio, per favore. Solo un attimo e torniamo in albergo.

    Ancora un attimo.

    Dovetti ripartire e lasciare la città.

    Ma quattro mesi dopo ero di nuovo lì, e rimasi a San Francisco per quasi venti giorni.

    Come la prima volta, nella mia mente avevo il disordine più totale. Ero sempre in cerca di qualcosa, ma ancora incapace di svelarne l’essenza. E la città, questa città e nessun’altra, continuava ad attirarmi come se avessi un bisogno viscerale di viverla, di nutrirmi di essa.

    Senza una speciale ragione, mi portai dietro la videocamera che avevo usato in quel lontano viaggio con la mia vecchia fidanzata e quella coppia di amici, e istintivamente buttai in valigia anche le cassettine che avevo registrato insieme a loro.

    Appena atterrato a Frisco, le immagini ricorrenti che avevano segnato il mio viaggio precedente, le istantanee delle case sulle colline del centro, della selva dei grattacieli e dello specchio blu cupo della baia, lasciarono spazio ad altri pensieri che divennero delle vere e proprie idee fisse, delle ossessioni irrazionali per alcuni luoghi che in qualche modo si erano insinuati nel mio subconscio.

    Innanzitutto le due isole al centro della baia, Treasure Island e Yerba Buena Island, attraversate dal Bay Bridge a metà distanza da Oakland.

    Nella realtà sono due luoghi privi di attrattiva, se si esclude il punto di osservazione privilegiato su Downtown che offrono ai turisti. Una è un blocco artificiale di 200 ettari creato per ospitare l’Esposizione internazionale del 1939 e successivamente assegnato alla marina militare, l’altra un sasso scosceso coperto di alberi in cui all’inizio del secolo scorso si radicò una comunità di famiglie benestanti, poi ceduta anch’essa alla marina perché vi realizzasse residenze per ufficiali, una stazione di controllo e un centro di osservazione. Ma nella mia immaginazione affaticata, alimentata da alcune foto d’epoca e dai racconti delle riviste che avevo raccolto prima di partire, divennero un territorio fuori dai confini ammessi, una cortina di alberi neri sopra la linea dell’acqua sullo sfondo di un cielo invernale, con edifici bianchi indistinti dai tetti a pagoda e le finestre nere, in cui si organizzavano balli, feste e altri eventi a me preclusi.

    La sera stessa del mio arrivo andai in auto a Yerba Buena, a sbirciare tra gli alberi e a guardare i grattacieli illuminati del centro, e per tutta la notte, nella mia solita stanza in affitto, sfogliai e risfogliai le fotografie che avevo raccolto spinto da una foga atavica, guardando le due isole riprese dall’alto, o dalla riva, da ogni angolazione.

    Nei giorni immediatamente successivi quel morboso interesse per le due isole scomparve con la stessa velocità con cui era esploso, ma dentro di me nacque una nuova attrazione, allo stesso modo irrazionale, per un edificio chiamato Cliff House, appollaiato in fondo alla costa ovest della città.

    Non ci andai subito. Per due giorni rimasi in casa a contemplare a occhi sbarrati un poster attaccato al muro che la ritraeva. Una vecchia fotografia in bianco e nero: in primo piano un uomo elegante di spalle, in giacca e cappello, seduto su una panchina accanto a un muretto con una statua di gesso bianco raffigurante un’ancella, o un fauno, con un braccio alzato. L’uomo guardava in basso, dove il promontorio scendeva ripido, e oltre una fila di alberi si ergeva la sagoma fiabesca di un castello vittoriano a picco sull’oceano. Un grande edificio di quattro piani, con torri e guglie sul corpo centrale di legno bianco, in mezzo una torre merlettata, e sopra e sotto file di finestre sovrapposte a formare lunghe verande, come un alveare. Mi si stamparono in mente immagini oniriche della grande casa bianca abbagliata dal sole, o sfolgorante di luci artificiali nel cielo notturno, e io fantasticavo di essere lì dentro, in sale immense piene di vetrate, tavoli di giocatori e salotti nascosti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1