Mia cara Letizia
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Info su questo ebook
Il romanzo racconta una storia ambientata in Sardegna tra il 1930 e il 1957.
Siamo in estate. Dopo molti anni di assenza, un viaggio porta Toni Mameli da Cagliari a Sorgono, paese d’origine della famiglia, per un periodo di riposo. Questo gli fornirà l’occasione per esaminare alcuni documenti relativi a un caso giudiziario che, molti anni prima, ha coinvolto la sorella Letizia. Pur soggiornando nella casa paterna, sarà ospitato da Marcellina, cugina in primo grado parecchio più anziana di lui, che vive in paese ma che è ancora molto legata alla famiglia. Lei lo condurrà, quasi per mano, verso una nuova consapevolezza di se stesso e delle sue radici. Parallelamente vengono narrate le vicissitudini, ora romantiche ora tragiche che, dal 1930 fino al 1938, colpiscono la giovane Letizia, della quale, dopo quegli anni, si perdono le tracce. Questa avventura si chiude, non così le peripezie della famiglia Mameli. Ciò che è accaduto dopo il 1938 può essere solo ipotizzato, ma questa sarà un’altra storia.
Il taglio è quello del romanzo storico e di costume e il filo di mistero che percorre l’intera vicenda costituisce l’elemento d’unione tra il passato e il presente del protagonista. All’interno della narrazione sono inseriti dei documenti: alcuni originali, altri frutto della creatività dell’autrice. Anche i luoghi dell’ambientazione sono in parte veri e in parte frutto di fantasia. Oltre alle città di Cagliari e Sorgono, e agli altri centri citati, in particolare è reale Villa Laura, villa in stile liberty costruita ai primi del ‘900 in viale S. Avendrace in Cagliari, patrimonio storico e culturale del capoluogo.
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Anteprima del libro
Mia cara Letizia - Silvana Meloni
Cover
Nota dell’autore
Tutti gli avvenimenti narrati sono frutto di pura fantasia, sono reali soltanto i riferimenti storici, giuridici e di costume.
Si è voluto raccontare niente di più che un frammento della storia di una famiglia.
La narrazione è ambientata in Sardegna, in un’epoca tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, pertanto la voce dei personaggi e il ritmo narrativo tentano di immedesimarsi al contesto raccontato. Senza ulteriori pretese.
Siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi,
romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi.
Siamo le ginestre d’oro giallo
che spiovono sui sentieri rocciosi
come grandi lampade accese.
Siamo la solitudine selvaggia,
il silenzio immenso e profondo,
lo splendore del cielo,
il bianco fiore del cisto.
Siamo il regno ininterrotto del lentisco,
delle onde che ruscellano i graniti antichi,
della rosa canina, del vento,
dell’immensità del mare.
Siamo una terra antica di lunghi silenzi,
di orizzonti ampi e puri, di piante fosche,
di montagne bruciate dal sole e dalla vendetta.
Noi siamo sardi.
Grazia Deledda
Capitolo 1 - 1957
Chiuse il libro di Sebastiano Satta sulle ginocchia, infilandovi una cartolina di Cagliari come segnalibro, si tolse gli occhiali e, con un fazzoletto, si asciugò il sudore, che gli colava dalla fronte e dal collo. Il ritmo regolare del dondolio e il rumore del treno sulle rotaie inducevano sonnolenza e la calura del pomeriggio estivo gli appesantiva le palpebre.
Lo sguardo corse fuori dal finestrino. Superata la stazione di Mandas, il paesaggio era cambiato: alla piatta e interminabile distesa del Campidano si erano sostituite le prime colline, e anche i colori si erano fatti più intensi, come a seguire la più vivace vegetazione, ma lui non intravedeva ancora nulla di quello che sarebbe stato il verde paesaggio che era la sua destinazione.
Sapeva che ci sarebbero volute ancora diverse ore di viaggio e che solo oltre la stazione di Laconi avrebbe potuto cominciare a respirare un poco.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare al sonno, godendo della fragranza della campagna che inondava lo scompartimento, aperto per via dei finestrini senza vetri.
Terra bruciata, silenzio di canzoni di cicale rotto dal frusciare dei suoi passi e dall’ansimare del suo cane: una giornata di caccia. Quindici, sedici anni forse, si sentiva padrone del suo mondo; cavalcava meglio di qualsiasi ragazzo del paese, ma a caccia si andava a piedi, nelle narici il profumo delle estati felici: di erba bagnata all’alba, di terra riarsa nelle ore più calde della giornata.
Sorrise tra sé, sospeso tra sogno e ricordo: l’inverno era Cagliari, l’estate, invece, la libertà.
A volte, insieme a Babbo e a Giovanni, si spingevano anche fin verso Tonara e Aritzo, dove l’aria era frizzante e la terra verde e viva, con la carabina a tracolla e il cane vicino. In paese avevano parenti, ma raramente frequentavano qualcuno.
Un’ombra offuscò la sensazione di beatitudine in cui era immerso, un vago ricordo di storie di donne, l’omicidio avvenuto il giorno delle nozze di sua sorella.
Povera Letizia. Povere tutte e due le sue sorelle, sfortunate con gli sposi e con la guerra, a portar via loro gli anni migliori della giovinezza. A Letizia, però, era toccata la sorte più terribile: il processo, il manicomio e Dio solo sa cos’altro. Adesso lui sperava di poterla aiutare, dovunque fosse ora, perché da avvocato - insomma, quasi - tornava a Sorgono per la prima volta dopo tanti anni, a occuparsi degli affari di famiglia. Non avrebbe potuto fare altrimenti, era un suo preciso dovere nei confronti di Babbo e di Mamài.¹ E nei confronti di sua sorella. Mamài sarebbe stata fiera di lui, lo sapeva.
Quando il treno interruppe la sua corsa, si alzò per sgranchirsi le gambe. Ormai l’aria era notevolmente più fresca, si stavano avvicinando. Infilò il libro nella tasca del giubbotto appoggiato sul sedile e si sporse dal finestrino per leggere il nome della stazione.
Un cinghiale, che aveva intravisto correre in una radura, gli strappò un sorriso, che gli rimase stampato sul volto fino a destinazione.
Improvvisamente il cuore gli si era alleggerito, tanto da dimenticare il senso di disagio per la camicia fradicia di sudore e incollata alla schiena.
Il viaggio era quasi terminato: rimase affacciato a godersi il paesaggio amico che gli scorreva davanti, respirando a pieni polmoni. Tornava a nuova vita.
Saltò giù dal predellino e ritirò svelto la valigia e la bicicletta, tolse il berretto dalla tasca e se lo sistemò sul capo, legò la valigia e il giubbotto piegato sul portapacchi: era pronto ad affrontare la lunga salita che lo avrebbe condotto in paese. Si trattava di tre chilometri soltanto e al momento, più che la polvere e il sudore, lo impensierivano i brontolii del suo stomaco, vuoto ormai da parecchie ore.
A casa, ne era sicuro, Tzia² Marcellina gli avrebbe fatto trovare un pranzo coi fiocchi e una tinozza d’acqua per un bagno, sarebbe stato in paradiso.
«Questa casa è abbandonata da troppi anni. Certo, non sarà come in città, ma qui l’aria è più buona. Vedrai starai bene. E poi io l’ho sempre tenuta pulita e in ordine, vi stavo sempre aspettando. Cosa dice Babbo? Ti raggiunge per la caccia?»
Chiacchierava, Tzia Marcellina, ciabattando su e giù per la casa, mentre, munita di un gran mazzo di chiavi, apriva tutte le porte e spalancava le finestre, per far entrare aria e luce in quei locali impregnati di odore di chiuso e di umidità.
«Rinfrescati un pochino e poi scendi a casa mia a mangiare, che avrai fame, povero ragazzo. Qui non c’è ancora l’acqua corrente, ma ti ho preparato una tinozza in cui ti potrai lavare con acqua fresca e pulita; io, a casa mia, l’ho fatta mettere ed è tutta un’altra cosa. Ma tu già lo sai, quando mai a casa tua non avrai l’acqua corrente! In paese le cose vanno più lente. Ma Tzia Cristina sta bene? E gli altri in famiglia?»
Distolse lo sguardo ma, dopo un attimo di silenzio carico di imbarazzo, riattaccò imperterrita: «Gente buona, la tua famiglia, ma le disgrazie, si sa, non risparmiano nessuno. E Giovanni? Come mai non siete venuti assieme?»
«Sta lavorando, non aveva le ferie in questo periodo. Può darsi che più in là si avvicini in paese con Babbo.»
Toni aveva appoggiato la valigia su una panca e l’aveva aperta per cercarvi abiti puliti.
«Tzia», chiese, guardandosi intorno, «questi panni sporchi dove li posso lavare?»
«Ma non vorrai fare da solo? Ho promesso a tua madre di accudirti come un figlio.» Si fece il segno della croce, e aggiunse: «E poi lavare i panni non è cosa per uomini. Quando ti sarai cambiato, metti la roba sporca in questo cesto, ci penserò io a lavarla e a stirarla per bene. Anche per la casa non ti devi preoccupare: ho sempre pensato io a tenerla pulita quando era vuota, vuoi che non ci pensi ora che ci sei tu? Ora va’, che ti preparo la tavola.»
Sdraiato sul letto, Toni guardava i ghirigori che il sole, filtrando dalle tende ricamate, disegnava sul soffitto: un aratro tirato dai buoi, un cavallo imbizzarrito… A dispetto del suo senso del dovere, gli sarebbe piaciuto godersi il soggiorno in paese senza altri pensieri.
Girò il capo e guardò la chiave che aveva appoggiato sul comodino. Glie l’aveva data Babbo: «È del baule, lì troverai tutte le carte che ti servono, ho conservato tutto.»
Dov’era il baule, però? Sospirò, soppesando tra le mani la grossa chiave. Sicuramente Tzia Marcellina glie lo avrebbe indicato, chissà quante cose sapeva Tzia Marcellina! Chiacchierava con facilità e lui si sarebbe fatto raccontare da lei tutti i segreti della sua famiglia, le cose sulle quali Mamài era così reticente e Babbo così evasivo. Del resto aveva un lavoro da svolgere e doveva sapere tutto. Glie lo avrebbe chiesto l’indomani, quella sera aveva voglia di fare una passeggiata fino alle ultime case e oltre.
Assaporando l’aria di paese, l’olezzo della terra misto a quello degli escrementi dei cavalli, del latte e delle pecore che usciva dagli stazzi, Toni ridacchiò: immaginava l’espressione schifata dei suoi colleghi cittadini, se avessero potuto leggergli nel pensiero in quel momento.
Giunto fin dove le luci delle case non si vedevano più e cullato dal silenzio ovattato della notte, con il concerto dei rumori notturni della boscaglia in sottofondo, si sdraiò sull’erba, naso all’insù, cercando tra le stelle le risposte a tutte le domande dell’esistenza.
«Lo so io, dov’è il baule di tuo padre! Sei qui per quello, l’avevo capito. Andiamo.»
Tzia Marcellina lo accompagnò nel sottoscala, dove era stata ricavata una piccola cantina, piena di cianfrusaglie e di vecchi ricordi. Aprì la porta con il suo prezioso mazzo di chiavi.
«Puoi portarlo in camera, così lavori tranquillo. È pesante, ma tu sei giovane e di sicuro ce la farai», gli disse, prima di lasciarlo solo.
Non fu affatto semplice. Più volte si lasciò sfuggire una bestemmia a mezza voce mentre issava il grosso baule su per gli scalini ripidi, ma finalmente riuscì a portarlo in una stanza luminosa che aveva scelto come studio, anche perché era l’unica ad avere un ampio tavolo adattabile a scrivania e una grande credenza quasi vuota, utile per contenere le carte e i pochi libri che aveva portato con sé.
Non volle aprirlo subito. Approfittò dell’acqua fresca della tinozza per lavare via dal corpo la polvere e il sudore; dopo, infilatosi la biancheria che profumava di bucato, ebbe la sensazione di essersi scrollato di dosso un poco della stanchezza per la fatica appena fatta e della tensione che provava.
Si chinò sul baule, trattenendo la preziosa chiave e imponendo alle mani tutta la determinazione di cui era capace per riuscire a fermarne il tremito: la serratura fu docile e il baule si scoperchiò, mostrando il suo contenuto di carte ingiallite dal tempo.
La prima cosa che lo colpì, a dispetto della sua professione, non furono i grossi plichi contenenti evidentemente carte processuali, ma un piccolo quaderno blu scuro, con la copertina in brossura, che aveva tutta l’aria di essere un diario.
Mia cara Letizia,
accetta come pegno d’affetto quest’album dove, nelle ore d’ozio, potrai leggere i ricordi più cari e ricordare anche la tua amica che ti vorrà sempre bene.
Auguri sinceri per l’avvenire.
Maria Teresa
Sorgono, 25 dicembre 1930
La prima pagina, in bella grafia, svelava il contenuto e il nome della proprietaria del piccolo album, nonché il periodo al quale risaliva. Nel 1930 sua sorella Letizia era una dolce e spensierata ragazza di quindici anni e nulla ancora avrebbe potuto far presagire i terribili eventi che sarebbero accaduti qualche anno più tardi.
Toni non riuscì ad accantonare il quaderno per mettersi