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L'amicizia
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E-book270 pagine4 ore

L'amicizia

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Info su questo ebook

Di fronte ai meccanismi misteriosi della Storia, gli esseri umani sembrano soltanto esili granelli di polvere. Ma sentimenti come l'amore e l'amicizia, spesso, possono trascendere anche il destino più tragico...Fulvio Tomizza, autore di una struggente Trilogia Istriana che racconta l'esodo drammatico dei profughi istriani dopo la Seconda guerra mondiale, è stato un romanziere di rara sensibilità, cantore della semplicità e dei sentimenti più archetipici di un'umanità che, nonostante le circonvoluzioni della grande Storia (sì, quella con la "s" maiuscola!), sembra ritornare sempre a una genuinità apparentemente smarrita. I due protagonisti del romanzo "L'amicizia", pubblicato per la prima volta nel 1980, sono rispettivamente un contadino istriano e un giovane borghese triestino. Il loro legame, avversato dalle vicissitudini sociali della loro epoca, si risolve invece in un'insperata amicizia: una di quelle che lasciano sempre un barlume di speranza... -
LinguaItaliano
Data di uscita20 giu 2023
ISBN9788728560396
L'amicizia

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    Anteprima del libro

    L'amicizia - Fulvio Tomizza

    L'amicizia

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1980, 2023 Fulvio Tomizza and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728560396

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    L’AMICIZIA

    Parte prima

    1

    È venuto il tempo che io mi dedichi a te. A quasi vent’anni da quella domenica d’inverno è rispuntata la seconda persona. Stavo chiudendo la porta della nostra casetta sul Carso, al bivio dopo Gabrovizza. Deserta la camera che mi attendeva al piano di sopra e io senza gran voglia di dormire. Mia moglie è da alcuni giorni dietro il figlio in città: spera di convincerlo a passare un’altra estate in campagna, neppure lei troppo entusiasta anche se pronta a giurare il contrario. Prima di tirare la porta ho dato un’occhiata al cielo che da settimane sembra assicurare pioggia a questa terra riarsa. La notte si addensano nuvole nere, che di primo mattino la bora sospinge verso la penisola istriana per mettermi davanti a una nuova giornata di afa. Ho guardato uno spacco giallo fra le nubi e mi sono sorpreso a chiedermi: Che ne è di Alessandro?.

    Ho stentato a prender sonno, mi sono alzato per buttar giù un’altra pastiglia. Percorrevo con le dita la cicatrice dell’operazione che m’impediva, m’impedirà sempre, di stendermi su quel fianco. Pensai: Eppure si vuol bene a questa carcassa di corpo, intenerito dal taglio brutale che non me lo rende più integro. E sentii che lo stavo comunicando a te. Seguitai riflessivo, ormai sotto il tuo giudizio: È l’anima, la complicazione aggiuntavi dall’uomo, a farsi insopportabile. Continuavo a giacere sul fianco sano, una listella di luce lunare mi attirava all’esterno. Di nuovo il pensiero fermò il tuo volto impassibile sopra il volante della seicento. Ti dissi: Hai visto? Sono stato io infine a fermarmi sul Carso. Non poteva accadere il contrario.

    Infilai il braccio sotto il cuscino, con l’altra mano ora ne scorrevo il bordo. L’ansiolitico cominciava a produrre il suo effetto, alternando alla tenerezza sprazzi di una lucidità cruda ma indolore.

    Mi ridestò il tuono. Si avvicinava da due direzioni opposte, e rotolò sopra il tetto. Fui pervaso da una paura infantile, proprio dopo essermi per un istante compiaciuto della mia solitudine. Si allontanò lasciando gli alberi accontentarsi di un vento neppure fresco. Portava il suo beneficio alla mia Istria verde, da dove vent’anni prima ero venuto a bussare alle porte di questa città, trovando alloggio con mia madre in un brutto fabbricato di via Paduina. Mi sforzavo di ricordare le sole frasi dedicate a te, a noi; il sorriso le precorreva, le superava, non mi consentiva di evocarle con precisione.

    A mattino inoltrato sono qui, seduto alla scrivania. Il foglio è nell’ultimo cassetto a destra, infilato in un pacco di fotografie. Lo ritrovo. Ho scritto perfino d’incontri fugaci in viaggi lontani, ma adesso ho la netta impressione di aver girato per tutto questo tempo intorno a te: di non aver mai interrotto, per parte mia, il gioco curioso che è stata la nostra amicizia.

    Leggo: «C’erano una volta due giovani e non sapevano di vivere nello stesso palazzo. Il loro non era un palazzo da re, ma uno di quei casamenti di città che prendono luce da un grigio cortile dove le donne si contendono la corda per asciugare il bucato. Una domenica pomeriggio tutto il palazzo parve spalancarsi al suono impertinente di un ottavino…».

    Nemmeno oggi riesco a dissociare il primo ricordo di te da quei trilli acuti e festosi, così sopra il rigo rispetto al tran tran dello squallido fabbricato, da far pensare a una sfrenata, giovanile presingiro. Gli arpeggi indiavolati sembravano profanare lo stanco pomeriggio rotto fino a quel momento da rumori di secchie smosse, scrosci d’acqua, imprecazioni isolate; ma via via mi giungevano come pungente beffa dei miei luoghi dove su canne sbucciate ancora verdi i miei compagni pastori tentavano d’imbroccare un motivo di marcia.

    Stavo cercando di scrivere, tra foga e sfiducia come adesso, a un tavolino accostato alla finestra del tinello: tu mi soverchiavi dall’alto del tuo soggiorno meglio illuminato e scandivi il tempo facendo sussultare la folta chioma di meridionale, trasportato in un improbabile ambiente silvano.

    Il fatto più non si ripetè: un conservatorista in visita a parenti poveri aveva voluto preparare il nostro incontro? Ti vidi qualche giorno dopo al naturale, un po’ più basso e più tarchiato di me, ed anche per l’angolosità cittadina del volto ti ritenni un operaio che si piccava d’intellettualismo. Ero già all’autodifesa poiché sapevo che mi spiavi mentre stavo chino sui fogli, e nel soppesare le mie ben diverse angolosità slave, per me inequivocabilmente contadine, avresti tenuto conto di un’aspirazione che dichiaravo con la penna in mano. Quasi ci urtammo nel lasciare e rispettivamente guadagnare il comune portone intriso di piscio di gatto, ma tu avesti come una sospensione, il tuo sguardo di animale docile e di bambino severo mi accompagnò per tutta la prima rampa mentre più lusingato che stizzito mi andavo mentendo: Che coglione questo elettricista, chi crede di essere?.

    Per alcuni giorni ci tenemmo a bada; scontrandoci ci annusavamo come due cani del medesimo sesso e di prestanza pari: vedremo. Poi tu cedesti: «Lei scrive?».

    La mia risposta poteva consentire un buon tratto di Viale da percorrere affiancati. Certamente stordito, accarezzato in contropelo, mi sentivo soprattutto solo, con mia madre e il suo sussidio di profuga (da cui l’assillante arbitrarietà di quello scrivere anche per inerzia); ero smanioso di una compagnia qualsiasi. Ma pur senza questi problemi addosso, fossi stato tu l’interrogato non è che ci saremmo sbrigati prima di giungere ai Portici di Chiozza. Mi scappò detto, sentendomi investito dal tuo fiato caldo, addirittura schiumoso: «Ci tento, non ho altro da fare».

    Balordamente ti avevo regalato una mossa decisiva. Non potesti reprimere un lampo di vittoria, subito dopo una piega di amarezza: i veri aspiranti scrittori, o meglio i grandi scrittori mancati, sono quelli che ne sono impediti dall’ufficio, la famiglia, spesso la politica e quasi sempre dalla nevrosi: mai hanno scritto né mai scriveranno un rigo.

    «Beato lei» ghignasti rischiando di squalificarti, e allora solo da quei livelli bassi poteva raggiungermi la provocazione.

    «Lei vorrebbe scrivere?» per poco non ti aggredii.

    «Oh no» ti parasti come un inquirente che sa e lascia intendere di star mentendo. Dall’asfalto del Viale timbrato da foglie di ippocastano fradice, radi i passanti avvolti nella nebbia della prima sera, eravamo scesi ai marmi pesticciati dei Portici dove ragazze e ragazzi chiassoni si lanciavano proposte su come passare quelle ore prima di cena. Ti scuotesti, nello spezzato marrone di aggiornato travet domenicale con buona parte dello stipendio nel portafoglio, come prendessi coscienza del tuo stato di uomo maturo anche rispetto a me, e sbirciasti l’orologio. Dovevi andare ma non palesavi fretta, quasi invidiavi non so quale mia indipendenza, così da farmi pensare che, qualunque fosse la tua meta, ti ci assoggettavi nell’intento di apparire qualcosa di più, qualcosa di meglio, mentre io tornavo ai miei fogli scombinati soltanto per provare a esistere.

    Grazie a te, l’unica persona del caseggiato che avevo guardato in faccia e con cui avevo perfino scambiato parole, la vita intorno e dentro di me si andava componendo. Prima vivevo con mia madre come in un abitacolo provvisorio, alla mercé dell’esterno; tonfi, grida, il cigolio di una carrucola nel cuore della notte, mi davano un soprassalto quasi fossero prodotti apposta, e a tradimento. Che non si trattasse soltanto di fisime mi fu confermato da un incidente che mi scosse in una specie di terrore panico. La povera inquilina, che occupava col padre l’appartamento sotto il tuo ed era dunque nostra dirimpettaia, divideva con mia madre la corda per stendere il bucato: d’improvviso aveva spalancato la finestra solitamente chiusa e celata da un telo scuro – un occhio cieco sull’anonima parete grigia. La scorgevo per la prima volta, scarna e ingobbita, il viso senza colore né età, i radi capelli giallastri raccolti in ciuffi irti come piume di un pollo affogato. Era una maschera di cera illuminata dalla collera. Inveiva contro mia madre che avrebbe occupato oltre la metà della corda in comune, ma il suo livore si riversava sull’intera nostra razza di zotici.

    Il padre la trasse ancora gesticolante dalla finestra che si richiuse con forza chiamandomi alla vista di una fila di mia biancheria penzolante in un silenzio teso. Fui a mia Volta accecato da un furore contro la costante tendenza di mia madre ad accaparrarsi un orlo di spazio, un margine di vantaggio sempre un po’ più in là del pattuito, e dalla quale rispuntava una volontà ancora fiduciosa, in snervante contrasto con le condizioni in cui versavamo e con la sventura che da poco ci aveva colpiti. Il dissidio serrato fra noi due verteva in particolare su questo punto: lei non si dava ragione che non mi preoccupassi di cercarmi una sistemazione confacente al mio titolo di studio (quella dell’impiegato, che proprio detestavo), mentre io, per il suo grado quasi nullo d’istruzione, mi vedevo negata la possibilità di avvicinarla alla natura ed anche alla fondatezza della mia aspirazione, la quale coinvolgeva, almeno lo credevo, il suo stesso destino di donna sfortunata, chiamata ai più duri lavori fin dall’età di dieci anni, vedova a quaranta dopo aver perduto un patrimonio costruito giorno per giorno ignorando ogni esigenza, altrui e propria, che si sollevasse dal piano materiale. Nessuna pagina che avessi letto specchiava ciò che in quei momenti di offuscamento mi ribolliva nel sangue; allora riconoscevo vane, irrisorie, sostanzialmente false le ragioni, pur tanto crude, che poco prima m’incoraggiavano a scrivere; e, nell’impossibilità di trovar lo sfogo fisico, tentato ma non fin nel profondo a ridurre a brandelli i pretenziosi fogli ammucchiati, correvo fuori a cercar rifugio nel mondo che mi escludeva.

    Da quando dunque ti sentii presente nel nostro cronicario e nel mio inferno, le cose accennarono a prendere un’altra piega. Regolavo le ore della giornata sulle tue uscite e i tuoi rientri, organizzandomele in qualche modo fino a contrabbandare il mio tinello per un ufficio. Lo abbandonavo verso le undici per compiere una breve passeggiata nel Viale penetrato da un pallido sole che scomponeva i vapori mattutini, prendevo il caffè e un paio di sigarette al bar Rio se ero riuscito a strappare un centinaio di lire alla vecchia. Mi lasciavo intiepidire sulla porta e sbirciavo la vetrina della libreria Universitas con le copertine scintillanti dei nuovi libri tra i quali mai sarebbe potuto comparire uno mio, ritornavo verso casa compreso da una sfiducia addirittura carezzevole che mi rendeva più battagliero e soprattutto curioso del mio futuro. Quando alla sera mi stendevo sul letto imparavo a distinguere i rumori del caseggiato, a considerarli fortuiti, spontanei. Alle dieci si spegnevano le luci delle scale, poco dopo avvertivo il passo strascicato e i borbottii del marittimo ubriaco che infine raggiungeva la sua porta sopra il nostro pianerottolo e pretendeva di far levare la moglie già scivolata nel sonno; il tinnire delle bottiglie nella cassetta deposta all’aperto mi annunciava che era trascorsa mezzanotte e il ristorante Pordenone stava per chiudere. Ero sveglio, smanioso di sesso, la mente eccitata per esser rimasto inattivo o, peggio, occupato in un lavoro inutile e quasi proibito per l’intera giornata, e meditavo che insieme al fumo e all’odore di fritto del ristorante, così lindo a vederlo dal Viale, tutto lo scarto della città rifluisse sotterraneo dai retrobottega nel maledetto cortile.

    Una notte cigolò più a lungo la puleggia della corda; mi lanciai alla finestra e attraverso una fessura scorsi la folle zitella appendere con fare circospetto i propri indumenti intimi. Mai ti confidai ciò che perfino ora mi trattengo dal ricordare pur essendo da tempo convinto che niente si ha da temere dalla verità, se non altro per il suo grado di originalità superiore a ogni fantasia. Ne ebbi un desiderio violento, nient’affatto morboso o malato: cercavo di abbellirla, di scambiarla, mantenendola ardentemente femminile nel proprio segreto notturno appena scoperto, a costo di acuire i cosiddetti tormenti della carne che il trapasso al rapporto pieno con la donna m’impediva di sciogliere in modo inglorioso (per altri ignominioso). L’indomani mattina – questi incontri improbabili avvengono perfino tra spasimanti destinati a legare! – la vidi in strada per la prima volta: chiusa in un abito giallino dalla testa ai piedi, i radi capelli raccolti in un nastrino rosa al sommo del capo, era una vecchia nana o una bambina avvizzita che dondolava a braccetto del padre, spensierata e quasi raggiante come la figlia più fortunata del mondo.

    Riparliamo di te, di noi. Procedevamo per il Viale in senso inverso al flusso normale, in leggera salita. Indagavi con molta circospezione sugli argomenti che mi trattenevano al tavolino. Mi piaceva Pavese, Vittorini, oppure intendevo proseguire lungo una linea più nostra, tracciata da Svevo e da Saba? Arrossii. Non solo dei triestini non avevo letto una riga, ma addirittura dubitavo che da una città quale io la conoscevo, dialettale e perciò burlona, pratica e dunque gaudente, potessero essere usciti dei personaggi chiamati alla rinuncia e alla meditazione. Era la mia un’improntitudine bella e buona poiché giudicavo un’intera popolazione dal fugace contatto avuto con osti di San Giovanni che si rimpinzavano di tutto per scaricare poi lo stomaco tra le botti allineate sull’aia, con ragazzini che mi deridevano il vestito del fratello quando venivo in visita dalla zia. Risposi che non avevo avuto ancora occasione di leggere né Svevo né Saba e aggiunsi: «Di là ci arrivavano i libri degli scrittori italiani e americani più progressisti».

    Sorridesti non so se dei progressisti, che qui si sarebbero piuttosto detti impegnati, o se sentendo confermato il sospetto che mi attardassi, come quasi tutti i giovani di allora, a fare il verso ai neorealisti. Poi constatasti gelido, come parlando a te stesso ma in realtà sferzandomi: «Non so proprio che cosa si possa aggiungere oggi a tutto quanto è stato già detto».

    Alla provocazione ancor oggi son solito rispondere aprendo la bocca senza aver chiara una risposta, quasi abbandonandomi a un misterioso influsso soccorritore. Sono le battute che mi riescono meglio e fanno alzare le mie quotazioni. «Non si tratta del cosa, ma del come» azzardai. Mi era andata bene, accusasti il colpo, tanto da spingermi a ridarti una mano: «E lei che cosa legge? Qual è il suo autore?».

    Avere da te una risposta pronta e netta… Alla domanda più innocua rinforzavi mentalmente la cucitura di tutti i bottoni: eri una torre fornita di ogni ben di Dio in vista di un lungo assedio, per cui non esisteva argomento né digressione che non potesse toccarti. «Mah…» cominciasti per finire subito e chiuderti nelle spalle. «Come si può domandare a uno qual è il suo autore preferito?»

    Camminavamo spediti senza guardarci, quando dall’incrocio con la via Rossetti, sul rumore delle macchine in corsa, mi domandasti distratto ma come a bruciapelo: «Conosce Kafka?».

    Dalle vaghe nozioni della sua biografia, intuii che non solo era quello il tuo autore prediletto ma addirittura lo avevi preso a modello di vita. «Neppure» sostenni lasciandoti tutt’altro che contrariato.

    Attraverso la via aperta a sinistra, rilanciato dalle chiome più alte del Giardino Pubblico, filtrava un fiotto di bora che in me sempre solleva un moto di alacrità e insieme di abbandono. Stabilii in un attimo che proprio in te, peggio di me oscillante tra senso d’inferiorità assoluto e presunzione smaccata, avrei trovato il giudice più severo e più mite; e dissi: «Se vuole, le faccio vedere i miei scritti».

    Indimenticabile la tua reazione. Ti irrigidisti come accogliendo una resa definitiva. «Andiamo» mi intimasti da questurino.

    Mi angustiava soprattutto introdurti nell’appartamentino affittato insieme al mobilio, senza aver preparato alla visita mia madre; ma non potevo più tergiversare. Risultava evidente che ci eravamo accettati ciascuno quale esatto contrario dell’altro. Io ora dovevo svolgere il ruolo del risoluto, più avanti probabilmente quello del cinico, del balzano, dell’accorto.

    Entrasti per fortuna senza guardarti attorno, tutto proteso verso il corpo del delitto. A mia madre ti presentasti freddamente: «Sono un amico di suo figlio. Abitiamo del resto nello stesso palazzo» e le allungasti la mano che lei trattenne sospesa nella sua, in dubbio sull’utile che poteva giungermi dalla nuova conoscenza. Come avevo previsto non le eri piaciuto granché, ossia non le davi alcun affidamento. Le lasciai intendere che volevamo restare soli e lei, da contadina rispettosa del parlottare dei giovanotti, si ritirò in cucina.

    Ritto nelle spalle rivolte alla finestra dalla quale spesso ti avevo sbirciato, aspettavi implacabile che scegliessi le pagine da sottoporti. Oltre a rispondere, agisco con profitto quando sono messo allo sbaraglio: pur certo di non saper distinguere il valore di uno scritto da un altro, improvvisai una scelta che avrebbe dovuto segnare un crescendo. Fortunatamente erano cose brevi, capitoli a sé stanti; potevano fungere anche da racconti, secondo la furbesca ingenuità degli esordienti. Ti buttasti nella lettura senza interromperla neppure quando accogliendo il mio cenno ti mettesti a sedere. Il volto era immobile, indecifrabile, soltanto gli occhi scorrevano da un margine all’altro con la regolarità sempre un po’ faticosa di un tergicristallo. Mi ripagavo osservandoti in viso con la stessa inclemenza. I capelli crespi e assai folti nascondevano qualche filo bianco, il grosso labbro inferiore accennava una spaccatura nel mezzo, il collo un po’ corto e tozzo ti dava una fissità ingombrante da orso, la barba troppo fitta rendeva la rasatura imperfetta soprattutto sul mento tendente a dividersi; sopra gli occhi tondi e più gialli che castani si arcuavano le sopracciglia severe, e qualche pelo biondastro ti spuntava sulla fronte rimarcando rudezza e cocciutaggine. Meglio che un operaio riuscivi adesso un ex sportivo appesantito da lunga inoperosità, soprattutto da un’esistenza non più competitiva. Lo confermarono improvvise gocce di sudore che ti spruzzavano la fronte, mentre il viso andava coprendosi di uno strato di untume.

    Levasti lo sguardo: avevi finito il primo gruppo di fogli. Emettesti un suono col naso piegando il capo a destra, in segno di parziale delusione o di sorpresa non del tutto sgradita. «Non si può dire che sia scritto male» e intanto raccoglievi i fogli letti, ti apprestavi ad affrontare quelli successivi.

    A questo punto non ressi più; annullandomi per non far rumore lasciai il tinello e mi rifugiai nella camera da letto. Eri al resoconto di un evento che, dopo trent’anni, ancora mi punge: l’imprigionamento del padre, il suo assurdo processo e la morte prematura. Non mi affliggeva il probabile giudizio, quanto l’aver fornito ad un estraneo l’occasione di calarsi nella nostra più sconsolata vicenda familiare. Seduto quasi al buio sulla sponda del letto, la testa tra le mani, ripercorrevo l’intero arco del racconto soffermandomi sui particolari più intimi e quelli più crudeli. Ero balzato in piedi ricordando di non aver tralasciato un episodio che nell’aula del tribunale mi aveva particolarmente messo a disagio. Ammaestrato da un compagno di cella, nel presentarsi davanti ai giudici popolari sotto l’accusa di essere proprietario terriero (sfruttatore del popolo) e difensore della causa italiana (nemico dello Stato) mio padre si era accostato alla bandiera con la falce e il martello e aveva risolutamente alzato il pugno, sottolineando il saluto con un colpo di tacchi. Soffocavo nella stanza, volevo intervenire per interrompere la lettura, ma le gambe vi si rifiutavano. Mi risedetti, rassegnato: o mi accettavi in blocco o mi avresti lasciato per la mia strada. Nello scritto autobiografico non mancavano tratti del più intenso amore filiale, specie nel terzo e ultimo capitolo-racconto dedicato alla morte del padre. Ma neanche da quello strazio uscivo assolto, anzi. Dopo averlo atteso per ore che significavano giorni e per minuti che equivalevano a ore, il momento del decesso nel letto di casa mi colse impreparato. Ero sceso in cucina a mangiare qualcosa, la notizia mi giunse mentre avevo la bocca piena. Dovevo sputar fuori tutto o inghiottire? Mandai giù in fretta ma mi trovavo già in svantaggio rispetto agli altri, e di nuovo nella stanza, tra l’abbandono isterico dei parenti, incredulo, esterrefatto, lucido come mai prima, non mi restò che fingere lo svenimento. Quale giudizio umano il mio primo lettore poteva trarre sul suo nuovo compagno?

    Schiusi la porta e ti

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