un grammo di leggerezza
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Info su questo ebook
E se la posta in gioco fosse più urgente e complicata da realizzare di un nuovo piatto da creare o di una ricetta da rendere gradevole e apprezzabile al palato.
Se la posta in gioco fosse per esempio la tua stessa vita, a chi faresti assaggiare per primo?
UN GRAMMO DI LEGGEREZZA
Un romanzo intimo e segreto. Cucina, talento e amore.
I principali ingredienti di un'opera scritta in prima persona femminile, narrata con la voce di chi sa che deve
farcela ad ogni costo.
"Immagino che la vita sia composta da tanti piccoli ingredienti che ogni giorno hai sotto gli occhi e sotto il naso.
Immagino la ricetta migliore per me, per il mio futuro. Un pizzico di questo, una manciata dell'altro, un grammo... di leggerezza, perché no. Mescolo tutto insieme e lascio riposare per un po'.
Poi assaggio.
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Anteprima del libro
un grammo di leggerezza - Lele Silingardi
Librinmente
Copyright
© Copyright Librinmente
© Copyright Prospettiva editrice
Civitavecchia, dicembre 2020
1° edizione
Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171
della legge 22 aprile 1941, n. 633).
ISBN 9788897911852
I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet:
www.prospettivaeditrice.it
epigrafe
E quella voglia di cielo blu,
focaccia e discorsi sull’amore
privi di qualsiasi logica,
da fare in riva al mare.
(Fabrizio Caramagna)
Scena 1 - Stazione Ferroviaria Genova - Piazza Principe - Esterno/Giorno
Primo maggio 2018, Arianna è tornata a Genova.
L’altoparlante della stazione annuncia che il treno regionale veloce 2278 proveniente da Bologna è in perfetto orario. Binario otto. La velocità diminuisce drasticamente e la sagoma massiccia dei vagoni in avvicinamento si fa sempre più ingombrante sui binari fino a raggiungere la pensilina. Poi tutto si ferma. - Genova Piazza Principe - e la vocina, roca e gracchiante, annuncia da sopra le teste dei viaggiatori che tutto è finito. Non c’è più tempo per fare nulla. Le porte si aprono e la calca di persone si riversa all’esterno di quel siluro di metallo con lo sguardo stupito di chi è la prima volta che arriva, e con gli occhi abituati e un po’ nostalgici di chi invece torna a casa. Forse per sempre. Il solito caos dei luoghi di ritorno e di partenza avvolge ogni cosa con la dinamicità frenetica di un puzzle confuso e rimescolato dove ogni tassello cerca la propria collocazione esatta. Il sottopasso dritto e sterile, un fuso perfettamente allineato che punta dritto verso la scalinata finale. Poi l’atrio arioso e l’eco delle centinaia di voci che lo appesantiscono di un sottofondo confuso e tumultuoso e infine la porta scorrevole sull’esterno che si apre e si chiude, continuamente sollecitata dagli impulsi fotoelettrici che la comandano.
Eccola qui Genova. Chi per lavoro, chi per vacanza, chi per amore, chi semplicemente perché casa. La città è tornata ad essere una lingua di fuoco bollente e gli occhi percepiscono leggeri miraggi ballerini e tarantolati se li costringi a fissare il selciato avanti a te.
L’orizzonte è un enorme limone incendiario che esplode in cielo e secca qualsiasi umore, disidrata torrenti e fiumi e ti scioglie la carne. L’afa e l’umidità ti penetrano nel cuore e nei polmoni appesantendoli e togliendoti ogni sfarzo vitale. Fitte schiere di piccioni lebbrosi tagliano il cielo in mille direzioni, disegnando figure nell’aria, impennandosi all’orizzonte come una vera e propria pattuglia acrobatica di jet supersonici. Il sole scioglie ogni cosa, ogni consistenza viene spalmata a terra. Il cemento avvolge tutto ciò che trova sul suo cammino e lo contiene in una morsa soffocante e infuocata, come un foglio d’alluminio che surriscalda ed allenta ogni resistenza in un forno a microonde. La piazzetta antistante la stazione è fitta di voci e gas di taxi che arrivano e che vanno, che si perdono in lontananza scendendo per via Balbi fino al ventre del centro storico. L’autobus gorgheggia su se stesso alla fermata in attesa di riprendere la stessa marcia all’infinito. Accartocciati sotto al monumento di Cristoforo Colombo i soliti appesantiti che attendano che qualcosa cada provvidenziale dall’alto nelle loro vicinanze. Va bene anche una monetina, bene anche una sigaretta tutt’al più.
I lampioni di piazza Acquaverde si levano dal cemento come snelli colli di giraffa e puntano al cielo. Arianna è ferma, dritta sulle gambe in attesa di una vettura disponibile che la porti a casa. Stringe saldamente l’impugnatura del trolley leggermente rigonfio per l’eccessiva quantità di bagagli stipati all’interno. Camicetta a righe di quel blu stiloso che lei adora tanto e giacchetta rigorosamente intonata ai calzini. Pantalone in tinta e scarpette di cuoio ricco. I capelli biondi sono lasciati liberi di scendere sulle spalle. Gli occhi blu, invece, liberi di sognare chissà dove. Al collo è appesa una collanina d’oro dalla quale ciondola un opale azzurro. Ecco poi all’improvviso sbucare un taxi vuoto che si ferma esattamente davanti a lei.
Dall’interno l’autista si allunga per aprire la portiera e Arianna sale. La macchina parte a gran velocità e si perde nel traffico. Il suo sguardo segreto penetra ogni forma ed esplora ogni dettaglio della sua città che non rincontrava da mesi ormai, attraverso il finestrino oscurato del van che distorce i raggi luminosi del sole e rimanda all’interno una sensazione come autunnale. Di opacità e temporali in arrivo.
È proprio strano, ripensandoci da adulti, come i luoghi dell’infanzia e il mondo intero apparivano ai tuoi occhi come qualcosa di gigantesco ed infinito. Come da bambini percepiamo le proporzioni delle cose, come si allungano le distanze mentre le giornate sono irrimediabilmente sempre troppo corte. Come avvertiamo il tempo e il fremito dell’esistenza. Tutto è così sproporzionato ai tuoi occhi e tutto sempre dannatamente scomodo. Hai ancora le braccia troppo corte per arrivare a toccare con mano le cose che desideri, come quei particolari che t’illuminano lo sguardo, e le gambe sono ancora troppo esili e minute per raggiungere l’apparente felicità che si manifesta ai tuoi occhi sotto forma di stravaganti oggetti che il tuo piglio curioso ed affamato di tutto, intercetta in ogni angolo di vita. Le sensazioni poi, lo stupore, la meraviglia, quella frenesia incontrollata e indomabile per qualsiasi particolare al quale proprio non riesci a dare una spiegazione certa e chiara. Come se lo spiega poi un bambino il mare?
Quella tovaglia blu distesa a perdita d’occhio che abbraccia il tuo orizzonte per intero, i profumi, gli odori che sono solo suoi, la brezza di ponente che ti solletica il naso, il brusio delle onde e la furia della tempesta che si sveglia di soprassalto e cancella il cielo all’improvviso. Come se lo spiega che dopo il mare ci sarà altra terra e viceversa.
Cosa s’immagina ci sia là infondo, oltre l’ultima sagoma quasi impercettibile di una nave che galleggia, sembra quasi danzando, diretta verso il nulla apparente. Dove stanno andando, cosa stanno cercando? Qualcosa che forse la tua ragione ancora non è in grado di catturare, qualcosa che forse non si può dire. Qualcosa che non esiste proprio magari. Un segreto, ecco. Una favola, forse. Forse le favole nascono dal mare ti viene subito da pensare, così misterioso e segreto.
Come la felicità, che anche se vista da lontano resta sempre un puntino più luminoso di tutti, intermittente, che vaga solitario nel cielo e ti gira sopra la testa, ti accarezza, ti sfiora. È una percezione che riconosci subito come lecita, che senti naturalmente addosso. Una sensazione che ti sfama. Ti allunghi, ti stiri, ti protrai in punta di piedi fino a perdere l’equilibrio, le braccia dritte e tese fino a sentire i nervi infuocati e rigidi. Ce l’hai quasi fatta, è lì davanti a te, l’hai quasi raggiunta, l’hai quasi agguantata, riesci perfino a sentirne le rotondità, a dargli una forma netta e precisa. Senti che stavolta ce la farai, che oggi sarà il tuo giorno fortunato. Ti rendi conto che non era poi così difficile afferrarla e portarla a te. Bastava aprire la finestra e uscire in balcone, salire in piedi su una seggiola ed allungare una mano. Talmente facile che ti viene quasi da pensare che sia stata lei a venire da te, lei a raggiungerti. Ce l’hai di fronte ora, riesci a sentire il profumo, riesci a dargli un volto, un aspetto, un’identità certa. Chissà come te la immaginavi questa felicità. E quanti sogni poi, quante fantasie, quante ansie, quante notti insonni e malinconiche prima d’incontrarla. E pensare che bastava solo andarla a cercare, spulciare il cielo in mille direzioni ed osservare attentamente. Bastava farlo con gli occhi giusti.
Come se la spiega poi la vita un bambino... Forse come una vera e propria favola con il suo meritato lieto fine. Una favola che nasce dal mare e che, giorno dopo giorno, impari a chiamare casa.
Fra circa un quarto d’ora avrà finalmente scalato il dislivello che la separa dalla vetta della città e il taxi avrà concluso l’arrampicata fino a Carignano.
Ci sono distanze che non separano mai.
Bentornata Arianna.
1
Scena 2 – Polonia – Esterno/Notte
Quando l’aereo atterrò in Italia in verità stavo dormendo. Non m’accorsi di nulla durante quel viaggio. Di quel viaggio, in verità, non ricordo nulla, nemmeno da dove è cominciato esattamente. Immagino da un luogo isolato, dal freddo di un paesino remoto della provincia polacca ad un paio d’ore di macchina da Varsavia. Immagino una campagna molle, umida e spettrale. È un viaggio senza memoria il mio, senza ricordi, solo domande. Tante. Troppe. Forse stava nevicando quella notte, forse no, ma poco importa.
Nella mia testa immagino una bambina che piange, forse è affamata. C’è una donna con lei che la tiene in braccio e tenta di calmarla come può. Non ha nulla per riempirle la bocca e cercare d’arginare lo strazio che le sue urla diffondono intorno. I suoi seni sono secchi e aridi. La disperazione è d’entrambe. La donna cammina veloce intano e finge di non sentire quel pianto, quella sorda cantilena. La donna ha lo sguardo segreto, velato da un senso di vergogna che ne scava i contorni. Ma non ci fa caso, non ha specchi per guardarsi su quella strada malandata, lastricata di ciottoli sconnessi, ma se lo sente addosso il peso. Se lo sente tutto. La bambina è leggera, avrà sì e no tre giorni di vita. È avvolta in una calda coperta di lana intrecciata a mano. La bambina è ancora così leggera, così com’è leggera la vita all’inizio di tutto. È una notte profonda e lunga, interminabile, così come interminabili sono gli ultimi momenti prima di scordarsene per sempre.
La donna corre più forte che può, il respiro è vivo, pesante. L’attimo più concitato della sua vita. La bambina ora tace, forse il freddo deve averla placata. Continuerà a piangere ancora da domani, ma stavolta lontano dalle sue orecchie. Non ha tempo per pensare ancora quella donna, comunque non in quel frangente.
Deve agire e scordarsene. Come si faccia non lo so. Me lo domando ancora oggi a distanza di molti anni. Cerco una colpa qualsiasi nella sua vita. Cerco assoluzioni che però non trovo. Nemmeno l’ombra più grande potrebbe mai nascondere la vigliaccheria di un gesto simile. Cerco alibi, giustificazioni che però sono introvabili, fuori e dentro di me. Cerco l’uomo che l’ha messa incinta. Cerco mio padre. Lo immagino appena. Invento tratti e forma del viso. Gli attribuisco una bellezza ed un fascino distinti. Gli cerco un ruolo preciso, definitivo. L’amore che doveva durare una vita intera probabilmente, ma che invece terminò tragicamente per qualche ragione? L’amore di una notte soltanto, forse. Dov’è ora? Chi era? Com’era fatto davvero? Cerco un senso nella solitudine, nella più acuta disperazione.
Immagino ancora mia madre. Cerco un appiglio qualsiasi per perdonarla. Cerco tratti sul mio viso da adulta che la possano ricordare. Oggi le assomiglio forse. Forse anche lei era bella come me da giovane. Forse era bella come me quella notte, mentre correva e piangeva sperando di non arrivare mai. Immagino le sue lacrime rigarle il volto. Ma questo me lo racconto io per consolarmi. Ci arrivò a destinazione quella notte, molto presto. Ci arrivammo insieme. Quella donna nella mia testa è sola nel silenzio. La bambina la guarda e lei guarda quella bambina, la sua bambina. La vedo appoggiare a terra quel fagotto che sembra non poter contenere una vita, tanto è rigido e inerte.
Immagino lo faccia delicatamente, con mille premure.
Poi una serie di colpi secchi e furiosi a quel portone di un legno grezzo e impietoso. Poi una luce s’accende improvvisa e dei passi concitati che si fanno sempre più chiari. La porta che si apre infine e una suora si china sulla bambina e la raccoglie. La donna ora non c’è più. Di lei resta solo un’ombra disegnata a terra, confusa nella memoria di tutti. Nessuno la vide mai, nessuno seppe mai il suo nome. La suora richiude il portone dietro di sé mentre le sue labbra sembrano intonare sottovoce una mielosa preghiera polacca. Assomiglia tanto ad una ninna nanna armoniosa, dolce, morbida. Calda, quasi bollente.
Quella notte mia madre mi partorì per la seconda volta, poi m’abbandonò al gelo.
Ha smesso di nevicare.
Scena 3 – Genova (Torrente Bisagno) - Esterno/Giorno
Arianna fin da piccola era stata una