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Il re scomparso
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E-book451 pagine6 ore

Il re scomparso

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Info su questo ebook

Pubblicato nel 1938 col titolo "The Lost King", "Il re scomparso" non è un semplice romanzo storico, bensì una vera e propria ucronia, volta a garantire una contro-storia – un po' meno drammatica della realtà – allo sfortunato Louis-Charles de Bourbon, ultimo delfino di Francia morto a soli dieci anni, nel 1795, a causa delle dure condizioni in cui i repubblicani lo avevano tenuto prigioniero dopo il ghigliottinamento del padre (re Luigi XVI, morto a Parigi nel 1791). In questa brillante rivisitazione dei fatti storici, Rafael Sabatini ipotizza che il giovane erede al trono sia riuscito a scappare, rifugiandosi in Svizzera fino alla maggiore età. Approfittando del breve esilio di Napoleone all'isola d'Elba, l'ormai adulto Luigi XVII fa un effimero tentativo di riappropriarsi del trono, anche se ben presto dovrà rinunciare a ogni velleità di regnare sulla Francia... -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728514870
Il re scomparso

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    Anteprima del libro

    Il re scomparso - Rafael Sabatini

    Il re scomparso

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: The Lost King

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1938, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728514870

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PARTE PRIMA

    IL RE SCOMPARSO

    I.

    Sua Maestà Luigi XVII

    Anassagora Chaumette, procuratore-sindaco alla Comune di Parigi, aveva affermato con pomposa sicumera che avrebbe preso in consegna un re e ne avrebbe fatto un uomo. Ed ora stava ad osservare soddisfatto la riuscita di quel suo nobile lavorìo nel grazioso ragazzo di otto anni, dai capelli di un biondo chiaro, che, seduto sul divano, dondolando le gambette, si esprimeva con una volubilità a volte incoerente in un linguaggio da trivio. Ciò lo confermava nella sua sincera opinione che anche in un materiale così corrotto quale è quello di un rampollo regale c’è sempre latente un fondo di schietta onesta umanità, che può essere riportato alla superficie se ci si prende la briga di lavorarlo a dovere.

    E quella briga se l’era presa, dietro istruzioni dello stesso Chaumette, Antonio Simon, l’ex-calzolaio improvvisato precettore del piccolo re. Era un omaccione, quel Simon; ed ora, vestito della lunga giubba di fine panno turchino da lui ritenuta indispensabile per chi aveva un incarico che fruttava qualche cosa come un diecimila franchi all’anno, se ne stava appoggiato sulla spalliera del divano a guardare inorgoglito il suo allievo. Era infatti ben sicuro d’avere meritata l’approvazione non soltanto di Chaumette per la trionfale riuscita dei suoi sforzi, ma anche del cittadino Hébert per l’evidente cura da lui, Simon, posta nell’insegnare al piccolo re l’ignobile lezione che in quel momento recitava.

    Hébert, l’azzimato damerino che compilava con elaborata oscenità il giornale dei Cordiglieri, il Père Duchesne, ascoltava gravemente, scambiando di tanto in tanto uno sguardo con l’occhialuto Chaumette; ed a volte, quando Sua Maestà s’interrompeva come se non si ricordasse più di ciò che doveva dire, interveniva a fare in tono blando qualche tendenziosa domanda che, aiutando la memoria del ragazzo, faceva riprendere quell’odioso terribile flusso di parole.

    A una tavola posta quasi nel mezzo della stanza, accanto a Pache, il grosso impassibile sindaco che in un certo senso presiedeva a quella riunione, c’era un giovane impiegato municipale, Daujou, che, funzionando da segretario, trascriveva rapidamente le parole del piccolo re. A labbra strette, Daujou aveva negli occhi una espressione di profondo orrore. Molto tempo dopo ebbe a dire che non aveva creduta una sola parola di ciò che era stato costretto a registrare. A volte anche il virtuoso Chaumette, offeso nei suoi sentimenti d’uomo onesto, sporgeva le grosse labbra tentennando la testa e levando gli occhi al soffitto, intendendo così di mostrare il suo ribrezzo per quelle rivelazioni, di cui Hébert si sarebbe servito per assicurare il trionfo dell’austerità repubblicana per la quale combatteva.

    Quel fervore, quello zelo di Hébert s’erano allarmati a certe voci che correvano, secondo le quali, nell’imminenza del processo a carico di Maria Antonietta, il Comitato di salute pubblica sperava d’indurre l’Austria a negoziare la liberazione di lei. Sarebbe dunque ritornata ad insozzare il mondo coi suoi trascorsi, quella Messalina? Mai, sino a che lui, Hébert, avesse avuto una penna e una lingua pronte a qualsiasi abiettezza che avvantaggiasse la buona causa. In un accesso di oscenamente virtuoso furore egli aveva detto, in una riunione di Giacobini:

    — Ho promessa in vostro nome ai sanculotti la testa dell’austriaca, e la darò loro, dovessi tagliargliela io con le mie mani.

    Acceso dallo stesso sacro fuoco, poi, egli era andato a parlare col Pubblicò accusatore, Fouquier-Tinville; il quale, esaminati gli atti processuali, aveva osservato, sporgendo dubbiosamente le labbra:

    — Mio caro Hébert, non c’è gran che da fare, credimi. Abbiamo sì e no quanto occorrerebbe per dimostrare le accuse fatte all’austriaca; e per di più vi sono considerazioni politiche che consiglierebbero a non insistervi troppo.

    Hébert aveva mandato cordialmente all’inferno le « considerazioni politiche », dicendo essere quella una èra di rettitudine e di coscienza nuova che aveva messo da parte ogni politica tortuosità. E s’era convinto così della necessità di trovare supplementari accuse contro Maria Antonietta, tali da mettere a tacere i traditori e gl’intriganti che sognavano una sua assoluzione. Per riuscire nel suo nobile scopo, poi, era andato a parlare col suo amico Chaumette, uomo nel quale riscontrava quella pura fiamma di altruistico repubblicanesimo che ardeva nell’anima sua.

    Appare strano che, nel cercare supplementari accuse atte a mandare irremissibilmente al patibolo l’infelice regina, Hébert non si servisse delle atroci calunnie la cui paternità risaliva principalmente al conte di Provenza, il fratello del defunto re Luigi XVI. Ed ecco in che cosa quelle calunnie consistevano.

    Fin da quando era ragazzo, il conte di Provenza male si era acconciato alla sua situazione di semplice cadetto ed al fatto che la corona di Francia, di cui si sentiva degno per le sue qualità, dovesse andare al fratello maggiore. La prolungata sterilità della regina, poi, gli aveva fatto per qualche tempo sperare che il destino volesse così compensarlo del torto fattogli con l’escluderlo dapprima dal trono. Invece ecco che, sette anni dopo il suo matrimonio, Maria Antonietta era divenuta madre di una principessa, e dopo tre anni ancora aveva dato alla luce un maschio. Ma anche a quegli inattesi avvenimenti il conte di Provenza non aveva disperato. Infatti era apparso ben presto chiaro che il Delfino era troppo cagionevole di salute per poter vivere a lungo, mentre d’altra parte pareva che la regina non avrebbe avuti altri figliuoli. Invece, dopo altri quattro anni, e cioè nel 1785 — morto già il Delfino — era nato un altro maschio, questo robusto e vitalissimo: Luigi Carlo; e il nuovo Delfino aveva definitivamente frustrate le ultime speranze del suo ambizioso zio.

    Il conte di Provenza era uno strano miscuglio di astuzia e di stupidità, di dignità e di buffonesca ciarlataneria; comunque, non vogliamo fargli l’ingiuria di supporre che non fosse lui stesso persuaso della verità dell’oltraggiosa accusa che si sforzava con tanto zelo di diffondere. Infatti si è sempre proclivi a credere ciò che ci conviene, e particolarmente al male che può danneggiare coloro cui siamo ostili; e l’ostilità fra il conte di Provenza e Maria Antonietta era forte quanto reciproca. Era mai possibile — domandava egli lamentosamente ai suoi intimi — che una donna, sterile durante sette anni di matrimonio, si mettesse improvvisamente ad aver figli? Non era di per sè la cosa per lo meno sospetta, e non era d’altra parte manifesto che le premure del conte di Fersen per la frivola regina erano troppo assidue per essere credute disinteressate e onorevoli? Si poteva cioè seriamente dubitare, anche dai più ottimisti, che il bel gentiluomo svedese non fosse l’amante di Sua Maestà, e che di conseguenza il Delfino era un bastardo?

    Quella calunnia, discretamente sussurrata da un orecchio all’altro e tuttavia velenosamente attiva, s’era andata diffondendo sempre più, passando dalla Corte a Versailles, da Versailles a Parigi; e, insieme con lo scandalo della famosa collana, e con le ignobili dicerie concernenti le relazioni fra Maria Antonietta e le sorelle Polignac, aveva fornita un’arma di più a coloro che si sforzavano di far disprezzare dal popolo la monarchia. Nella sua fatuità, e fino a che, spaventato, era fuggito all’estero per evitare la tempesta rivoluzionaria, il conte di Provenza aveva mostrato propensione per i giacobini. Sperava egli, scioccamente, che gli uomini nuovi volessero, per quelle calunnie contro la disgraziata regina, escludere dalla successione il Delfino dichiarando lui erede al trono.

    Ora, Hébert, a caccia di nuove accuse contro Maria Antonietta, avrebbe potuto servirsi contro di lei di quelle voci anche troppo diffuse, e ciò tanto più in quanto l’adulterio di una regina è stato sempre considerato delitto di alto tradimento. Ma forse non si poteva logicamente accusare una persona di tradimento al re davanti a gente che aveva voluto distruggere la regalità, oppure l’accusa non era così obbrobriosa da sembrare soddisfacente all’implacabile Hébert, che voleva essere sicuro del fatto suo; e perciò egli aveva preferito di ricorrere ad un più iniquo partito, adducendo di avere scoperta nella condotta della regina qualche cosa di infinitamente più orrendo che non fosse l’adulterio.

    Egli aveva discusso della cosa con Chaumette; il quale, sebbene fosse null’altro che un abietto avventuriero vissuto ignobilmente sin da quando, a tredici anni, era stato scacciato da un collegio ecclesiastico, era sembrato sopraffatto dall’orrore all’udire di che cosa l’austriaca fosse stata capace; e s’era coperto con le mani ruvide e rossicce il viso, rimasto sempre quello di un contadino, dicendo:

    — Scusa la mia debolezza, cittadino Hébert. Nonostante il ribrezzo che mi fanno i re, sono sempre uomo, io, e incapace quindi di udire certe atrocità senza esserne sconvolto.

    Ma dopo quel virtuoso e piuttosto oscuro sfogo, avendo dominata la propria emozione, egli era passato all’azione. Vale a dire che aveva date minuziose istruzioni all’ex-calzolaio Simon su ciò che avrebbe dovuto suggerire al piccolo re — un ragazzo mantenuto in uno stato di quasi continua ebbrezza coi liquori affinchè si offuscassero l’intelligenza, lo spirito di osservazione in lui innati, un ragazzo cui era stato insegnato a parlare molto liberamente e ad usare il più triviale linguaggio, che avrebbe dovuto sostituire in lui quello di Corte cui era stato avvezzo.

    Nell’ascoltare ora quella che era una vera e propria deposizione del piccolo re a carico della madre, Chaumette si compiaceva della forma di essa quanto Hébert si compiaceva della sostanza; ed entrambi erano sicuri in cuor loro che tutti i presenti sarebbero rimasti impressionati dalle orribili cose che il povero ragazzo diceva. Erano infatti presenti parecchie persone, in quella stanza al secondo piano della torre del Tempio nella quale aveva dimorato Luigi XVI durante la sua prigionia, e che ora faceva parte dell’alloggio dei coniugi Simon e del loro allievo. Era decorosamente arredata, quella stanza — dato che non si era lesinato nè sulla tavola nè su qualche parvenza di comodità nei riguardi del defunto re. Su un divano di broccato rosa posto contro la parete erano seduti due commissari della Comune quel giorno di turno, cioè un fabbricante di cioccolata, Heissé, e un medico, Séguy, i quali ascoltavano gravemente, scandalizzati. In fondo, Giacomo Luigi David, il pittore che il generoso mecenatismo di Luigi XVI aveva reso celebre, ora rivoluzionario sfegatato, occupava un seggiolone dall’alta spalliera, mentre il più promettente dei suoi allievi, Fiorenzo La Salle, era accanto a lui su uno sgabello: entrambi volgevano le spalle alla finestra, praticata nella parete a tanta altezza che un uomo non avrebbe potuto giungervi se non salendo su una sedia; e La Salle, inoltre, teneva aperto sulle ginocchia un album da disegno.

    Rimaneva ora pensoso e come sognante, il giovane pittore, battendo sui denti la punta della matita; e osservava intento il ragazzo coi suoi occhi luminosi, di un turchino cupo. Lo riscosse poi una gomitata del maestro, il quale, mettendo l’indice sul disegno già cominciato, borbottò:

    — Un po’ più decisa, questa linea!

    Quando poi l’allievo ebbe ubbidito, David espresse la sua soddisfazione annuendo, con un sorriso sulla ripugnante faccia sformata da un tumore al labbro. Indi riprese:

    — Vedi come così si cambia e si mette in valore tutto l’insieme? Vedi che hai la sensazione della profondità, ora? Meno disegno, Fiorenzo, meno disegno: poche linee appena, quelle soltanto che importano veramente. — E mise con atto affettuoso la mano sulla spalla del giovinotto. — La rassomiglianza non potrebbe essere maggiore: è il tuo forte, la rassomiglianza. Ah, se volessi menare una vita più austera, a che cosa non giungeresti! Austerità, ci vuole, austerità.

    — Cercherò di rifare il disegno — mormorò La Salle; e, voltata la pagina, scostò lo sgabello dalla sedia del maestro, apparentemente per vedere il modello da un altro punto.

    Ma non riprese subito a disegnare; e, impassibile, persistè ad osservare da sotto le nere sopracciglia aggrottate il ragazzo, che continuava a recitare l’abietta lezione insegnatagli.

    Era piccolo per la sua età, Luigi XVII, ma grassottello. Era vestito di una carmagnola verde, con appuntata sul petto una coccarda tricolore. Il viso, dalla candida pelle peculiare ai biondi, era arrossato in modo non naturale, e la sua innata grazia veniva ad essere alterata dalla puerile spavalderia del ragazzetto che si sforza di copiare i modi e l’aspetto dell’uomo adulto. Anche gli occhi di un bell’azzurro e sormontati da sopracciglia fini ed arcuate, avevano un luccicore anormale, e la bocca, dal labbro superiore un po’ sporgente, si atteggiava sguaiata mentre ne uscivano quelle terribili falsità che avrebbero mandata alla ghigliottina Maria Antonietta, cioè la madre di chi le pronunciava.

    E improvvisamente, mentre osservava intento il suo modello, La Salle ebbe quella più ampia e profonda visione di cui David deplorava sempre la mancanza in lui. Infatti il maestro, soleva dirgli:

    — Fiorenzo, tu sei un disegnatore; ma nonostante questo non diverrai un artista se non quando l’intelletto o le emozioni dell’animo non daranno ai tuoi lavori quella vita di cui ora mancano.

    Ed ecco, ora sentiva che l’uno o le altre avrebbero potuto darla, la vita, al ritratto che faceva. Quel disgraziato ragazzo eccitato dall’ebbrezza poteva, cioè, essere soggetto adatto ad una composizione di cinico, spietato umorismo, o ad una di profonda tragicità, secondo la disposizione di spirito dell’artista. Riprese quindi a disegnare. La matita si muoveva agile e sicura sul foglio; e, con una sobrietà di linee che poco dopo mandava in solluchero il maestro, egli ebbe in breve eseguito uno schizzo che era nello stesso tempo un ritratto ed una storia.

    Mentre egli disegnava ancora, il piccolo re aveva finita la sua deposizione. Pache, il sindaco, aveva domandato se avesse altro da dire, e Chaumette — l’ateo che aveva inventata la dèa Ragione — chiamava ora Dio, quel Dio che si era sforzato di distruggere nello spirito dei suoi concittadini, a testimone di tanta intollerabile nequizia, di quel complesso di orrori possibile soltanto nell’ambito della regalità. Dopo di che Pache aveva soggiunto che sarebbe stato bene mettere il ragazzo a confronto coi suoi parenti, e Daujou era stato mandato a prendere Maria Teresa Capeto nella stanza al piano disopra in cui era rinchiusa.

    In attesa della principessa, Hébert s’alzò per andare ad osservare il disegno di La Salle, lodandolo con frasi ricercate. Ma il giovane pittore non gli badò più che tanto, rimanendo assorto nelle sue fantasticherie anche quando David, avvicinatosi anche lui, pronunciò a sua volta parole di viva lode. Tuttavia Hébert insisteva nell’esprimere la sua ammirazione, e volle anzi farla condividere agli altri presenti.

    — Permetti, cittadino — disse, prendendo l’album che La Salle teneva sulle ginocchia. E andò a metterlo sulla tavola, chinandosi fra Pache e Chaumette per far loro osservare le bellezze del disegno.

    Chaumette si raggiustò i grossi occhiali sul naso, e prese a guardare a volta a volta il ritratto e il modello, come per fare un confronto; poi borbottò:

    — Davvero che ha il diavolo nella matita, quel giovinotto! Guarda, Pache! Guarda!

    Ma Pache parve ritenere quella del suo collega una inescusabile incomprensione della gravità del momento; e con gesto fra iroso e sprezzante scostò l’album, replicando:

    — Non mi annoiare con queste sciocchezze, Chaumette! Ti rendi conto dell’importanza di ciò che siamo venuti a far qui?

    — Sciocchezze? — ripetè Hébert, riprendendosi l’album. — Queste che tu chiami sciocchezze possono essere per i posteri documenti storici. — Poi, in tono di superiorità, soggiunse: — Peccato che tu non abbia cultura, cittadino Pache!

    Stava riportando l’album al pittore allorchè l’uscio si aprì; e Daujou tenne il battente per far entrare Maria Teresa Capeto, cioè Madama Reale.

    I pensosi occhi di La Salle consideravano ora, compassionevoli, quella pallida ragazza di sedici anni vestita in lutto stretto, la cui rassomiglianza col fratello era davvero notevole. Come lui, la principessa aveva capelli di un biondo chiaro, pelle bianca, occhi azzurri, sopracciglia fini ed arcuate — in lei così arcuate, anzi inarcate addirittura, da farla sembrare in un continuo atteggiamento di stupore. Il piccolo mento rotondo non aveva la fossetta che si vedeva in quello del re; ma le linee della bocca erano identiche, e persino il labbro superiore era un po’ sporgente, come quello di lui.

    Dal giorno in cui aveva imparato a camminare, per dir così, la piccola Maria Teresa era stata oggetto del più profondo ossequio. I maggiori personaggi del regno, dame e gentiluomini, si scostavano rispettosamente al suo passaggio nelle gallerie o nei viali di Versailles, inchinandosi profondamente a lei, pronti a riceverne i comandi. Soltanto l’insopprimibile certezza che tutto questo le era dovuto per diritto di nascita la faceva rimanere ora — per quanto appena poco più che una ragazzetta — in quasi sdegnosa sicurezza di sè davanti a quei rozzi uomini che ostentatamente le mancavano di rispetto col loro stesso atteggiamento. Pareva volesse far comprendere loro, così, che nulla in quel grossolano comportamento avrebbe potuto turbare lei, posta dalla sua nascita tanto in alto.

    Per un momento solo ella aveva mostrata una certa angoscia, e cioè quando aveva visto il fratello vestito con la carmagnola verde ed un panciotto dai vistosi colori mentre, per la morte del padre, egli avrebbe dovuto portare il lutto; poi, sdegnosa, aveva aspettato che parlassero quegli uomini che davanti a lei rimanevano seduti, quasi ad affermare l’eguaglianza della quale s’erano fatti apostoli. Pache, anzi, e i due commissari municipali avevano addirittura tenuto in testa il cappello ornato della coccarda tricolore. Séguy fumava, e Chaumette, per timore che l’essere egli a capo scoperto fosse creduto un atto di rispetto, s’era affrettato a rimettersi anche lui il cappello dal pennacchio tricolore, calcandoselo anzi sugli scomposti capelli neri con una manata che era un’asserzione di superiorità. Infatti era con una gioia quasi voluttuosa che quell’uomo, il quale sapeva di essere della schiuma salita alla superficie nel calderone rivoluzionario, s’inorgogliva di funzioni che gli permettevano di mettere il piede sul collo, figurativamente parlando, all’orgogliosa e delicata discendente di una lunga serie di re — di quei re che egli aborriva anche perchè non poteva liberarsi dall’abietta sensazione che erano esseri differenti dagli altri uomini, e come appartenenti ad un ordine superiore della creazione. Ed ora guardava ironicamente la principessa al disopra degli occhiali.

    Ma ella osservava di nuovo il fratello, che non aveva più visto da quando, circa tre mesi prima, lo avevano tolto a lei ed alla madre per affidarlo a Simon. Aveva fatto un passo verso di lui, e si sarebbe detto stesse per rivolgergli la parola; ma s’era fermata di botto, angosciata e sbalordita pel sottile mutamento che vedeva essersi operato nel piccolo re, e pel suo atteggiamento. Infatti il ragazzo dondolava ora di nuovo le gambe, come per darsi un contegno da ometto, ma era incupito in viso, quasi scontroso. Dalle profondità della sua anima infantile saliva ora, come evocata dal candido sguardo della sorella, una confusa sensazione di colpevolezza della quale ella avrebbe potuto chiedergli conto; e quindi pareva annoiato della presenza di quella Maria Teresa cui pure voleva molto bene. Poi l’aspra voce di Pache fece volgere verso di lui la principessa.

    — Maria Teresa Capeto, vieni qua e rispondi. Abbiamo qualche cosa da domandarti.

    Ella parve irrigidirsi, più che mai sostenuta, all’insolente linguaggio del sindaco; ma poichè protestare, per lei, sarebbe stato lo stesso che derogare alla sua dignità, stette ad aspettare in silenzio che l’altro la interrogasse, guardandolo ben bene in viso, con la testa un po’ arrovesciata indietro, in atto altezzoso.

    E l’interrogatorio cominciò. Pache le rivolse insistenti domande sulle relazioni che lei, la madre e la zia — la principessa Elisabetta — avevano avute con due commissari che, tradendo la Repubblica, avevano partecipato a un tentativo inteso a liberare la regina, organizzato da quell’intrepido avventuriero che era Giovanni de Batz: i quali commissari erano stati poi denunciati da Tison, allora custode della prigione del Tempio, in seguito rinchiuso a sua volta nella prigione stessa, dove rimaneva ancora. Lo scopo di quelle domande, poi, era che gl’inquirenti avrebbero voluto sapere qualche cosa di più di quello che lo stesso Tison aveva confessato.

    All’ammonizione del sindaco, che badasse bene a dire la verità, Maria Teresa rispose soltanto con uno sguardo d’indignata meraviglia; e quanto al resto disse ripetutamente che nulla sapeva. Deluso e irritato a quei calmi dinieghi, Pache appoggiò la schiena alla spalliera della sedia e disse al funzionario municipale sedutogli accanto:

    — Leggi a costei la deposizione del piccolo Capeto: forse servirà a rinfrescarle la memoria.

    Due o tre volte, mentre la monotona voce di Daujou leggeva l’aperta accusa del fratello non soltanto contro i due generosi commissari ma anche contro la propria madre, la quale secondo lui aveva cercato, con blandizie e lusinghe, di indurli a tradire il loro dovere, la principessa si volse a guardare sbalordita il disgraziato ragazzo, che a quelle occhiate rispondeva con un sorrisetto canzonatorio. Finita la lettura, poi, Pache insistè:

    — Ed ora, Maria Teresa Capeto, non hai proprio altro da dire?

    Di nuovo ella volse sul fratello uno sguardo grave, carico di rimproveri; ma questo parve avere per effetto unicamente d’irritare il piccolo re.

    — Lo sai bene che è vero, tutto questo! — esclamò egli, in tono petulante. — Verissimo, sacrebleu!

    Forse la principessa fu più urtata da quell’imprecazione da caserma che dalla sfacciata menzogna; comunque, si volse al sindaco a rispondere, con una voce dura quanto lo sguardo con cui lo fissava intrepida e superba:

    — Vi ripeto che nulla so di queste cose.

    — Ma come è possibile, se le sa anche tuo fratello?

    — Forse egli ha una memoria migliore della mia.

    — Davvero! E non hai proprio altro da aggiungere, ma fille? — insistè Pache, con minacciosa ironia.

    Ma Chaumette gli si avvicinò per dirgli:

    — Andiamo avanti, Pache, andiamo avanti. Dammi le deposizioni.

    E Pache gliele diede; fece anzi di più, gli cedette addirittura il suo posto.

    — Ascolta, Maria Teresa Capeto. C’è qualche cosa di molto più serio, di molto più deplorevole, di molto più orribile, addirittura, su cui vogliamo interrogarti — cominciò Chaumette, accomodandosi bene sulla sedia e nettando gli occhiali col fazzoletto. A vederlo così, trascurato nel vestito, una sudicia cravatta negligentemente annodata al collo, una simulata espressione di ingenuità sul viso contadinesco, quel sanguinario segugio della Comune aveva l’aspetto di un maestro di scuola da villaggio. Rimessisi infine gli occhiali sul naso, egli si schiarì rumorosamente la gola e cominciò a leggere la deposizione testè fatta dal piccolo re.

    Non erano più di dodici o tredici righe, quelle; ma è da credere che mai dodici o tredici righe scritte da chicchessia potessero aver contenuto un cumulo d’infamie quale si trovava nella deposizione con cui un ragazzetto di otto anni faceva le più vituperose accuse contro la propria madre. Poi Chaumette posò l’atroce documento sulla tavola e, appoggiando su questa i gomiti, si protese verso la principessa.

    — Ora hai udito, eh? E non vorrai farci credere che anche di questo non sapessi nulla. Sarebbe impossibile, infatti, poichè nelle vostre stanze, quassù, stavate sempre tutti insieme. Riconosci dunque che qui è detta la verità?

    — La verità! — ripetè la principessa, sbalordita. — Ma non ho capito nulla di ciò che avete letto!

    — No, eh? — sogghignò Chaumette.

    Ma era evidente, dall’espressione sbalordita di quei candidi occhi, che ella non fingeva. Ed allora intervenne Hébert a dire:

    — Chaumette, e parla chiaro, dunque! Perchè diavolo attenuare le cose? Di’ tutto francamente. Viviamo in tempi in cui certe ipocrisie non s’usano più.

    — Nom d’un chien! — replicò il procuratore-sindaco con angustiata indignazione. — Non basta dunque che debba insudiciarmi la bocca ad alludere a simili turpitudini? Dovrei anche abbassarmi sino a mettere da parte ogni pudore? Ad ogni modo, se costei vuol fare l’innocentina, dovrò purtroppo vincere la mia ripugnanza a dire proprio le cose come stanno. Ascolta, dunque, Maria Teresa Capeto…

    Ma anche quando Chaumette ebbe riferite « le cose proprio come stavano » la pura, innocente fanciulla rimase per qualche momento perplessa, evidentemente non comprendendo. Infine, all’improvviso, tutto l’orrore, tutta la brutalità di ciò che le era stato detto parve rivelarsi a lei come in un lampo. S’imporporò in viso, gli occhi le si riempirono di lacrime, le tremarono le labbra; e Chaumette potè vedere infine, non senza soddisfazione, che quell’infame insulto aveva penetrata la corazza di sdegnosa insensibilità della misera principessa.

    — Dunque, non rispondi? — insistè.

    Con quelle parole fece sorgere in lei un’ira veramente regale. Ella si avanzò verso la tavola, e stette un momento a guardarlo con occhi fiammeggianti, da cui erano scomparse le lacrime. David diede una gomitata all’allievo.

    — Presto, Fiorenzo! Disegna la ragazza!… Sarà uria cosa bellissima… Così, di scorcio, come ora la vedi. Presto!

    La Salle prese a disegnare, ma lentamente e come a malincuore, poichè era più agevole ubbidire a David anzichè spiegargli che non aveva a che fare nè con un animale nè con una macchina, che potesse in un momento così tragico occuparsi soltanto di cogliere a volo il soggetto di un bel disegno. Frattanto si udiva la voce vibrante della principessa esclamare:

    — Rispondere, dite? E osate aspettarvi che io risponda? Quale risposta può darsi a menzogne così infernali, a calunnie così abiette, così vergognose, così orribili?

    — D’accordo, d’accordo, la petite — rispose Chaumette; — cose infernali, cose orribili e vergognose, senza dubbio. Ma menzogne? Calunnie? Se tali sono, non ce le siamo inventate noi. Le frasi che ti ho lette son di tuo fratello; e si tratta di infamie tali che non potrebbe certo pensarvi un ragazzo di otto anni, se non fossero realmente avvenute.

    — Mio fratello! — ripetè Maria Teresa, come se nell’indignazione del momento avesse dimenticata quella circostanza. E si volse al piccolo re, che stava ad osservarla furtivo, cupo in viso, come un cane che tema la frusta del padrone, evidentemente conscio della propria colpa senza tuttavia comprenderne la vera portata. — Ma è un’infamia! Queste menzogne non possono esser tue!

    — È tutto vero, invece — rispose il ragazzo, dondolandosi sul divano; e Simon lo incoraggiò battendogli sulla spalla. — Lo sai anche tu, che è tutto vero.

    — Petit malheureux! Tu non sai neppure che cosa dici!

    — Ma sì che lo so, sacré tonnerre! So che cosa dico, e so anche che è tutto vero. Lo sai anche tu.

    — Ma non è possibile! Oh, non è possibile che egli affermi questo!

    La principessa ora s’era voltata di nuovo verso i suoi tormentatori, e guardava, smarrita e supplichevole, ora l’uno ora l’altro, come a cercare chi potesse sostenerla o almeno comprenderla. Ma tutti erano freddi o beffardi, tutti, meno due, David e La Salle, che non la guardavano: il maestro intento a scrivere ciò che ella diceva, l’allievo fingendo di disegnare. Imbarazzato, Chaumette parve chiedere con gli occhi aiuto e consiglio ad Hébert; il quale sporse il labbro inferiore, stringendosi nelle spalle, e osservò:

    — Costei è ostinata, come vedi. Inutile perdere tempo con lei.

    — Benissimo. — E Chaumette si fece dare da Daujou il foglio sul quale quello aveva a sua volta trascritto l’interrogatorio; poi, accennando a Maria Teresa di avanzarsi, intinse la penna nel calamaio e gliela porse, soggiungendo: — Firma qua.

    La principessa stette un momento a guardarlo, dubbiosa, quasi sospettasse un’insidia; poi lesse il documento, ed accertatasi così che conteneva soltanto le domande fattele e le sue risposte, firmò in silenzio. Daujou s’alzò per riaccompagnarla; e nello stesso momento, mentre ella faceva per avviarsi verso l’uscio, il piccolo re si lasciò scivolare giù dal divano e le si avvicinò timidamente. Voleva molto bene alla sorella, Luigi Carlo; e nei tre mesi che n’era stato separato ne aveva sentita molto la mancanza, quasi quanto la mancanza della madre, e comunque più di quella della zia Babet — la principessa Elisabetta. Era solo, povero ragazzo. ed assetato d’affetto. Simon e la moglie erano ruvidamente amorevoli con lui, è vero, e per di più l’abitudine l’aveva reso insensibile a quella ruvidità, così come l’aveva avvezzato ai modi sguaiati dei suoi custodi, che se lo gettavano dall’uno all’altro, gli soffiavano in viso il fetido fumo delle loro pipe, e lo chiamavano « Carlo »; anzi, egli aveva cominciato a godersela, la compagnia di quegli uomini così rozzi, facendo l’ometto anche lui, bevendo liquori raddolciti con zucchero, imparando il gergo del popolaccio così ricco d’imprecazioni e di scurrilità, e le oscene canzoni rivoluzionarie che essi si dilettavano ad insegnargli. Pel ragazzo che sino a poco tempo prima aveva vissuto vincolato da una rigida etichetta c’era qualche cosa di gradevole, in quella forma di emancipazione. Ma nulla poteva sostituire nell’animo suo il calore d’affetto della madre, della sorella e della zia, alle quali era stato brutalmente tolto tre mesi prima. Questo egli aveva gradatamente sentito al rivedere Maria Teresa; e la confusa coscienza di averla offesa con qualche cosa di cui non poteva rendersi conto aumentava il suo senso di solitudine e lo spingeva a farsi perdonare con un atteggiamento carezzevole.

    Maria Teresa non s’accorse di lui se non quando sentì le piccole dita che cercavano d’intrecciarsi timidamente alle sue. Si volse trasalendo, e vide il viso del ragazzo alzato supplichevolmente verso di lei, con un sorrisetto che pareva chiedere perdono. Immediatamente ella ritrasse a sè la mano e indietreggiò, gridando aspramente:

    — Non mi toccare! Non ardire di toccarmi, non mi rivolgere la parola! Oh, le petit monstre! Mai ti perdonerò ciò che hai fatto, sappilo! Mai!

    Il ragazzo stette per un momento a testa bassa, umiliato; poi fu scosso da un gran singhiozzo, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Ma Simon, che gli si era avvicinato, gli prese un braccio, dicendo con la sua voce rozza, che si sforzava di raddolcire:

    — Vieni, Carlo, vieni a sederti accanto a me. Adesso andranno a prendere la zia Babet, sai?

    Il piccolo re stette ancora un momento a seguire con gli occhi la sorella, che, a passi rigidi, la testa alta, usciva senza neppure dargli un ultimo sguardo; e singhiozzò:

    — È irritata contro di me, cittadino Simon! Perchè, perchè è irritata? Che ho fatto?

    Simon gli battè quasi affettuosamente una mano sulla spalla.

    — Non le badare, Carlo. Sacrée petite aristocrate, va!

    II.

    Giovanni de Batz

    In quella stessa sera Giovanni de Batz, barone d’Armantrieu, se ne stava in una comoda, quasi lussuosa stanza in rue Ménars, dietro il palazzo Choiseul, intento a scrivere. Lavorava alla luce della candela, le cortine tirate davanti alle finestre. Nel caminetto un bel fuoco tramandava un acre odore di resina, per via dei piccoli frutti di pino frammischiati alla legna.

    Quell’uomo quasi leggendario, il più attivo agente segreto realista che fosse allora in Europa, era di un’audacia che nessuno dei suoi compagni aveva mai eguagliata. Sembrava quasi disdegnare anche le più elementari precauzioni. Raramente, infatti, si prendeva il disturbo di celare la sua identità, si mostrava liberamente dovunque dovesse andare, e procedeva con sbalorditiva indifferenza su un terreno indicibilmente irto di pericoli. Quando altri della sua specie, sentendosi chiudere intorno la rete, facevano sforzi frenetici quanto inutili per liberarsene, egli si limitava a tagliarne le maglie con forbici d’oro, per così dire. Nessuno infatti conosceva quanto lui l’arte di corrompere, e nessuno si serviva della corruzione su così vasta scala. Infatti, a parte l’oro di cui era ampiamente provvisto, de Batz aveva un’inesauribile riserva di assegnati — la carta-moneta della Repubblica: inesauribile perchè proveniva da un torchio privato, da lui tenuto segretamente a Charenton. Quei biglietti falsi, poi, non soltanto servivano a dargli mezzi praticamente illimitati, ma contribuivano a conseguire lo scopo dei realisti, che era quello di deprezzare sempre più la carta-moneta repubblicana: la quale, infatti, in quei giorni già deprezzata era in modo straordinario.

    De Batz aveva agenti dappertutto. Di qualsiasi cosa avvenisse al Comitato di Salute Pubblica egli era immediatamente informato dal segretario del Comitato stesso, Sénar, da lui pagato; e, forse eccezion fatta del Tribunale rivoluzionario, non c’era organismo governativo in cui qualche funzionario non fosse stato da lui corrotto. Aveva tentato di salvare re Luigi XVI, e in seguito la regina e i figli, rinchiusi nella Torre del Tempio; e non vi era riuscito unicamente per volontà del destino, diciamo, dato che ad intralciarlo erano sorti improvvisamente ostacoli imprevedibili. Ma la prova maggiore dell’occulto potere che gli derivava dalle sue risorse era data dal fatto che egli continuava ad essere libero, anzi praticamente non era neppure ricercato, sebbene si sapesse essere stato lui l’autore di quei delitti contro lo Stato e di altri consimili.

    Era un uomo di media statura, de Batz, asciutto, di bell’aspetto, imperioso nei modi, con occhi vivacissimi. Nel mettersi a lavorare, quella sera, s’era tolta la marsina e il panciotto, rimanendo così in camicia merlettata e brache di raso nero, coi lucidi capelli pure neri stretti a codino con tanta accuratezza quanta avrebbe potuto averne il più azzimato gentiluomo prima del sanculottismo.

    Scriveva rapidamente, dando a volte un’occhiata alla pendola posta sulla mensola del caminetto, come se aspettasse qualcuno; e a scrivere continuò sino a che il suo vecchio servo Tissot — l’officioso, secondo la nuova denominazione repubblicana — introdusse nella stanza il cittadino La Salle.

    De Batz si volse a mezzo sulla sedia verso il visitatore; ed osservò:

    — Siete in ritardo, mi sembra.

    Egli, infatti, tranne che in pubblico, disdegnava di fare uso del prescritto tu dei repubblicani. Senza rispondere subito, il giovane pittore si sbottonò il soprabito verde-bottiglia, si tolse il cappello conico, e scrollò la testa per far ritornare a posto le ciocche dei capelli neri, che egli portava lunghi, alla foggia detta « a orecchie di cane». Infine disse:

    — È stata una faccenda un po’ lunga; anzi, non son potuto neppure rimanere sino alla fine, perchè

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