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Il tulipano nero
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E-book293 pagine4 ore

Il tulipano nero

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Info su questo ebook

Il tulipano nero, racconto d'amore e di spionaggio industriale scritto da Alexandre Dumas nel 1850, è un lavoro originale rispetto ai precedenti successi. Narra la storia di Cornelius Van Bearle che, pur appartenendo a una ricca famiglia de L'Aia, non vuole arricchirsi ancora di più, ma investe grosse somme di denaro nella sua mania per i tulipani alla ricerca di forme e colori sempre nuovi fino a riuscire a creare l'impossibile tulipano nero, per il quale la città di Haarlem offre il ricchissimo premio di centomila fiorini. Cornelius sta quasi per riuscirci ma un vicino invidioso, Boxtel, organizza un piano per rubargli i preziosi bulbi: lo accusa di aver complottato con il Gran Pensionario de Witt, sconfitto e trucidato nel frattempo dagli orangisti. Mentre Cornelius incarcerato è in attesa di essere giustiziato, conosce la bella figlia del carceriere, Rosa, che s'innamora di lui; la giovane lo salverà e riuscirà a far fiorire i bulbi del meraviglioso tulipano nero.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2013
ISBN9788874172702
Il tulipano nero
Autore

Alexandre Dumas

Frequently imitated but rarely surpassed, Dumas is one of the best known French writers and a master of ripping yarns full of fearless heroes, poisonous ladies and swashbuckling adventurers. his other novels include The Three Musketeers and The Man in the Iron Mask, which have sold millions of copies and been made into countless TV and film adaptions.

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    Anteprima del libro

    Il tulipano nero - Alexandre Dumas

    Conclusione

    Informazioni

    In copertina: Ambrosius Bosschaert (1573–1621), Still-Life of Flowers

    © 2019 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1930 di Federico Fusco. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.

    I

    Un popolo riconoscente

    Il 20 agosto 1672 la città dell’Aia, capitale delle Sette Province Unite (solitamente tanto vivace, bianca e linda che la si crederebbe sempre in festa, col suo ombroso parco e i grandi alberi dalle cime inclinate sulle vecchie case gotiche e le larghe specchiere dei canali in cui si riflettono i campanili dalle cuspidi quasi orientali), vedeva le sue strade gonfiarsi di un fiotto di cittadini frettolosi, ansiosi , inquieti che, con il coltello alla cintola, il fucile in spalla o il bastone fra le mani, correvano tutti in direzione della Buytenhoff, la piazza esterna alla formidabile prigione, di cui ancora oggi si possono vedere le finestre guarnite d’inferriate. In quel tetro edifìcio languiva Cornelio de Witt, fratello del già Primo ministro-consigliere, perchè accusato di tentativo di assassinio del chirurgo Tyckelaer.

    Se la storia di quel tempo, e specialmente di quell’anno, a metà del quale comincia il nostro racconto, non fosse in modo indissolubile legata ai due nomi che abbiamo ricordato, le poche righe di spiegazione che daremo potrebbero sembrare anche superflue. Ma dobbiamo prevenire il nostro lettore, vecchio amico, a cui promettiamo sempre un piacere nella prima pagina, ed a cui bene o male manteniamo la parola nelle succes­sive pagine, che tale spiegazione è tanto indispensabile alla chiarezza della nostra scoria quanto all’intelligenza del grande avvenimento politico nel quale la stessa storia s’inquadra.

    Còrnelio de Witt, Ruat de pulten, cioè ispettore delle dighe del paese, ex borgomastro di Dordrecht, sua città natale e deputato agli Stati dell’Olanda, aveva 49 anni, allorquando il popolo olandese, stanco della repubblica quale l’intendeva Giovanni de Witt, il grande ministro, fu preso da violento amore per lo Statolderato, che un editto perpetuo imposto da Giovanni de Witt alle Provin­ce Unite aveva abolito per sempre.

    Siccome è raro che, nelle sue capricciose evoluzioni, lo spirito pubblico non veda un uomo dietro un principio, così il popolo dietro la repubblica vedeva le due severe figure dei fratelli de Witt, codesti Romani dell’Olanda, sdegnosi di adulare il gusto nazionale e amici inflessibili di una liberalità senza licenze e d’una prosperità senza su­perfluo, nel modo stesso che dietro lo Statolderato vedeva la fronte china, grave e riflessiva, del giovane Guglielmo d’Orange che i contemporanei battezzarono con lo stesso nome di Taciturno, col quale era già passato alla storia l’omonimo avo suo.

    I due de Witt non erano in rotta con Luigi XIV, del quale sentivamo crescere l’ascendente morale su tutta l’Europa e ne avevano pur sentito l’ascendente materiale sopra l’Olanda in seguito al successo della meravigliosa campagna del Reno, illustrata da quell’eroe da romanzo che si chiamava il conte di Guiche e che fu cantata da Boileau, campagna che in tre mesi aveva abbattuto la potenza delle Province Unite.

    Da tempo Luigi XIV era nemico degli Olandesi che lo insultavano o lo burlavano come meglio potevano, quasi sempre, per altro, per bocca dei Francesi (protestanti) ri­nviati in Olanda. L’orgoglio nazionale faceva di lui il Mitridate della repubblica. Contro i de Witt esisteva la raddoppiata animosità derivante da una vigorosa resist enza, soffocata da un potere lottante contro il gusto na­zionale e dalla stanchezza, naturale a tutti i popoli vinti, quando sperano che un altro capo possa salvarli dalla rovina o dalla vergogna.

    Quest’altro capo, pronto a farsi innanzi, pronto a misurarsi contro Luigi XIV, per quanto gigantesca pareva dovesse esserne la futura fortuna, era Guglielmo, principe d’Orange, figlio di Guglielmo II e nipote, per parte di Enrichetta Stuart, del re Carlo I d’Inghilterra, il taciturno giovane, di cui abbiamo già detto si vedeva apparire l'ombra dietro lo Statolderato.

    Nel 1672 questo giovane aveva 22 anni. Giovanni de Witt era stato suo precettore e lo aveva educato col fine di fare di quel principe di antica stirpe un buon cittadino.

    Per amore di patriottismo, che in lui superava l’amore per l’allievo, gli aveva, con l’editto perpetuo, tolta la speranza dello Statolderato. Ma Dio, ridendosi delle pretese degli uomini, che vogliono fare e disfare le potenze della terra senza consultare il re dei Cieli, aveva voluto, invece, che per l’indocilità degli Olandesi, aggravata dal terrore che Luigi XIV inspirava, fosse mutato l’indirizzo politico che aveva affermato il grande ministro e fosse anche abo­ lito l’editto perpetuo, ripristinandosi lo Statolderato per Guglielmo d’Orange, sul quale aveva i suoi disegni, ce­lati nelle misteriose profondità di quel che sarebbe poi stato il futuro.

    Il ministro si era inchinato innanzi al volere dei suoi concittadini; ma Cornelio de Witt fu più recalcitrante e malgrado le minacce di morte della plebe orangista, rifiutò sulle prime, di firmare l’atto con cui si ristabiliva la carica di Statolder. Per le preghiere della moglie piangente firmò, poi, aggiungendo, però, accanto al suo nome le due lettere V. C., cioè Vi coactus (costretto dalla forza).

    Fu un vero miracolo se in quel giorno sfuggì ai colpi dei suoi avversari.

    L’adesione di Giovanni de Witt era stata più rapida e più docile dalla volontà dei cittadini, ma non gli fu tuttavia, di alcun profitto.

    A pochi giorni di distanza, fu oggetto di un tentativo di assassinio. Trafitto da colpi di coltello, sopravvisse alle ferite. Non era questo quello che occorreva agli orangisti. La vita dei due fratelli era un perenne ostacolo ai loro pro­getti: essi cambiarono momentaneamente tattica salvo, ad un dato punto, di coronare la seconda con la prima tattica e cercarono di consumare con l’aiuto della calun­nia ciò che non avevano potuto eseguire col pugnale.

    È rarissimo che al momento opportuno si trovi sotto la mano di Dio un grande uomo per effettuare una grande azione ed ecco perché, quando per caso si verifica la prov­videnziale combinazione, la storia registra subito il nome dell’uomo eletto e lo raccomanda all’ammirazione della posterità.

    Quando invece è il diavolo che s’immischia negli affari umani per rovinare un’esistenza o rovesciare un impero, è molto raro che egli non abbia immediatamente a sua portata un miserabile qualsiasi, al quale basti soffiare una parola all’orecchio per deciderlo a mettersi subito alla bisogna.

    Il miserabile che in tale circostanza si trovò dispostis­simo a farsi l’agente dello spirito maligno, si chiamava, come crediamo di avere già detto, Tyckelaer ed era di professione chirurgo.

    Egli andò a dichiarare che Cornelio de Witt, spinto dalla disperazione, come del resto era provato dalla sua postilla, per l’abrogazione dell’editto perpetuo ed infiam­mato di odio contro Guglielmo d’Orange, aveva dato in­carico ad un assassino di liberare la repubblica dal nuovo statolder e che l’assassino sarebbe stato lui, Tyckelaer, se, lacerato dai rimorsi alla sola idea dell’azione affida­tagli, non avesse amato meglio rivelare il delitto che commetterlo.

    Ora si giudichi l’esplosione scoppiata fra gli orangisti alla notizia di tale complotto. Il procuratore fiscale fece arrestare Cornelio in casa sua il 16 agosto 1672; il Ruart de pullen, il nobile fratello di Giovanni de Witt, subiva in una sala della Buytenhoff la tortura preparatoria, de­stinata a strappargli, come ai più vili criminali, la confessione del preteso complotto contro Guglielmo.

    Ma Cornelio non solo era un grande spirito ma anche un gran cuore. Apparteneva alla famiglia di quei martiri che pervasi dalla fede politica, come gli antenati della fede religiosa, sorridono sotto i tormenti. Durante la tor­tura egli recitò con voce ferma e, scandendo i versi nella loro misura, la prima strofa dell’ode: « Iustum et tenacem, etc. » di Orazio, non confessò nulla e stancò non solo la forza ma anche il fanatismo dei suoi aguzzini. Nondimeno, i giudici assolsero Tyckelaer da ogni accusa ed emisero contro Cornelio una sentenza che lo privava di tutte le cariche e dignità, lo condannava alle spese di giustizia e lo bandiva, per sempre, dal territorio della repubblica.

    Già qualche cosa per la soddisfazione del popolo, agli interessi del quale Cornelio de Witt si era sempre votato, era una tale condanna, resa non soltanto contro un innocente ma anche contro un grande cittadino. Tuttavia, come vedremo, non era abbastanza.

    Gli Ateniesi, che lasciarono una assai bella reputazione d’ingratitudine, la cedevano sotto questo punto agli Olandesi. Questi si contentarono di bandire Aristide.

    Giovanni de Witt, ai primi sentori della messa in accusa del fratello, si era dimesso dalla carica di primo ministro. Anch’egli veniva degnamente ricompensato della sua devozione al paese! Nella vita privata si confortava delle noie e delle ferite, i soli vantaggi che in generale rimangono agli uomini onesti, colpevoli di avere lavorato per la loro patria, dimenticando sé stessi.

    Nel frattempo, Guglielmo d’Orange attendeva, non senza affrettare l’avvenimento con tutti i mezzi in suo potere, che il popolo, di cui era l'idolo, facesse dei corpi dei due fratelli gli scalini di cui aveva bisogno per mon­tare sul seggio di Statolder.

    11 29 agosto 1672, come abbiamo detto all’inizio dei capitolo, l’intera città correva alla Buytenhoff per assistere all’uscita dalla prigione di Cornelio de Witt, in partenza per l’esilio e vedere quali tracce la tortura avesse lasciate sul nobile corpo dell’uomo che conosceva Orazio tanto bene. Affrettiamoci ad aggiungere che tutta la moltitudine che si dirigeva alla Buytenhoff non vi andava soltanto con l’innocente intenzione di assistere ad uno spettacolo, ma che molti, fra essa, si proponevano un’azione o piut­tosto di supplire ad una funzione che ritenevano fosse stata mal compiuta. Vogliamo riferirci alla funzione del carnefice.

    Vi erano anche quelli, è vero, che accorrevano con in­tenzioni meno ostili. Per costoro si trattava soltanto di godere di uno spettacolo sempre attraente per la folla ed atto a solleticarne l’istintivo orgoglio, di vedere cioè nella polvere colui che per lungo tempo era stato al potere.

    Quel Cornelio de Witt, l’uomo senza paura, si diceva, non era tra i soldati, indebolito dalla tortura? Non lo si sarebbe visto pallido, sanguinante, vergognoso? Non era questo un bel trionfo per la borghesia, più invidiosa ancora del popolo ed al quale ogni buon borghese dell’Aia doveva prender parte?

    E poi, si dicevano anche gli agitatori orangisti, abil­mente mescolati tra la folla che si proponevano di maneg­giare come uno strumento, tagliente e contundente al tempo stesso, non si troverà, dalla Buytenhoff alla porta della città, una piccola occasione per gettare un po’ di fango, qualche pietra anche a quel Ruart de pulten, che non solo non ha dato lo Statolderato al principe d’Orange che vi coactus, ma ha voluto anche farlo assassinare?

    Senza contare, aggiungevano quei feroci nemici della Francia che, bene comportandosi all’Aia, « non si lascerebbe partire per l’esilio Cornelio de Witt, il quale, una volta all’estero, intrigherebbe con la Francia e vivrebbe con l’oro del marchese di Louvois insieme allo scellerato fratello Giovanni ».

    Con simili disposizioni, si comprende bene, gli spetta­tori corrono più che non marcino. Ecco perché gli abitanti dell’Aia correvano velocemente verso la Buytenhoff.

    Fra coloro che più si affrettavano, correva, con la rabbia nel cuore e senza progetti nello spirito, l’onesto Tyckelaer, portato in giro dagli orangisti come un eroe di probità, di onore nazionale e di carità cristiana.

    Il bravo scellerato raccontava, abbellendoli con tutti i fiori del suo spirito e con tutte le risorse della sua immaginazione, i tentativi che Cornelio de Witt aveva fatto sulla sua virtù, le somme che gli aveva promesso e l’infernale macchinazione preordinata per appianare a lui, Tycklaer, tutte le difficoltà dell’assassinio. E ciascuna frase del suo discorso, avidamente raccolta dalla plebaglia, sollevava grida di entusiastico amore per il principe Guglielmo e urla di cieca rabbia contro i fratelli de Witt.

    La plebe non faceva che maledire gl’iniqui giudici la cui utenza lasciava fuggire sano e salvo un così abominevole criminale quale era quello scellerato di Cornelio.

    Alcuni istigatori ripetevano a bassa voce:

    - Egli partirà ! Ci sfuggirà !

    Altri rispondevano:

    - Una nave lo attende a Sceveningen, una nave francese. Tyckelaer l’ha vista.

    - Bravo Tyckelaer! Onesto Tyckelaer! — gridava la folla, in coro.

    - Senza contare — diceva una voce — che durante la fuga di Cornelio, si salverà anche Giovanni che non è meno traditore del fratello.

    - E i furfanti andranno a mangiare in Francia il no­stro denaro, il denaro dei nostri vascelli, dei nostri arsenali, dei nostri cantieri, venduti a Luigi XIV.

    - Impediamo che partano — gridava la voce di un patriota più spinto degli altri.

    - Al carcere, al carcere! — ripeteva il coro.

    E tra queste grida, più celermente correvano i borghesi, si armavano di moschetti, luccicavano le spade e gli occhi fiammeggiavano.

    Però nessuna violenza era ancora stata commessa ed i soldati di cavalleria che erano a guardia della Buytenhoff restavano freddi, impassibili, silenziosi, più minacciosi con la loro flemma che non lo fosse tutta quella folla borghese con le sue grida, la sua agitazione e le sue minacce; im­mobili sotto gli sguardi del capo, il comandante della cavalleria dell’Aia, che teneva la spada sguainata ma bas­sa, con la punta all’altezza della staffa.

    Quella truppa, unico baluardo a difesa del carcere, col suo atteggiamento, conteneva non solamente le masse popolari, disordinate e rumorose, ma anche il distacca­mento della guardia borghese che, piazzata di fronte al fabbricato, per mantenere l’ordine in ausilio alla truppa, dava l’esempio delle grida sediziose, urlando:

    — Viva Orange! Abbasso i traditori.

    La presenza del capitano Tilly e dei suoi cavalieri era, certamente, un freno salutare per tutti quei soldati bor­ghesi; ma in breve costoro si esaltarono con le loro stesse grida e siccome non comprendevano che si potesse essere coraggiosi senza urlare, imputarono a timidezza il silenzio dei cavalieri e fecero un passo avanti verso il carcere, trascinando dietro tutta la turba popolare.

    Il conte di Tilly si avanzò allora da solo incontro a loro e sollevando la spada ed aggrottando le ciglia, domandò:

    — Ehi, signori della guardia borghese, perché mar­ciate e che desiderate?

    I borghesi agitando i moschetti ripeterono il grido:

    — Viva Orange! Morte ai traditori!

    — Viva Orange, sia — disse Tilly - benché io prefe­risca i visi allegri a quelli truci. Morte ai traditori se voi lo volete, finché non lo vorrete che a parole. Gridate finché vi piace. Morte ai traditori! Ma quanto ad ammaz­zarli effettivamente, sono qui per impedirlo e lo impedirò!

    Poi voltandosi verso i suoi soldati, gridò:

    — Soldati, in alto le armi!

    I soldati obbedirono al comando con una calma precisione che fece immediatamente retrocedere borghesi e popolo, non senza una confusione che fece sorridere l’ufficiale.

    - Là, là — disse con quel tono beffardo che è proprio della spada — rasserenatevi, borghesi: i miei soldati non accenderanno nemmeno una miccia, ma dal canto vostro non farete nemmeno un passo verso il carcere.

    - Sapete, signor ufficiale, che abbiamo i moschetti! - esclamò il comandante dei borghesi, divenuto furioso.

    • Perbacco, lo vedo bene, che voi avete i moschetti - disse Tilly — me li fate fin troppo brillare davanti agli occhi: notate però, dal canto vostro, che noi abbiamo le pistole, che le pistole colpiscono mirabilmente a cinquanta passi e che voi non siete che a venticinque.

    - Morte ai traditori! — gridò la compagnia dei borghesi esasperata.

    - Bah, voi dite sempre le stesse cose! — borbottò l’ufficiale. — Ciò stanca!

    E riprese il suo posto in testa alla truppa, mentre il tumulto andava aumentando sulla Buytenhoff.

    Giovanni de Witt, intanto, era arrivato in carrozza e, con un servitore, attraversava tranquillamente l’avancorte che procede il carcere.

    Si fece riconoscere dal guardiano, che del resto già lo conosceva bene, dicendogli:

    - Buongiorno, Grifus; vengo a cercare mio fratello Cornelio, per accompagnarlo fuori città, essendo egli, come sai, stato condannato al bando.

    Il portinaio, specie d'orso allevato per chiudere e aprire le porte delle prigioni, lo salutò e lo lasciò entrare nell’edificio, le cui porte si richiusero dietro di lui.

    A dieci passi, incontrò una bella giovinetta, dai 17 ai 18 anni, nel costume della Frigia, che gli fece un grande inchino: passandole la mano sotto il mento, egli le disse:

    - Buon giorno, buona e bella Rosa; come sta mio fratello ?

    - Oh, signor Giovanni — rispose la ragazza — non è il male fatto, che io temo per lui: quello fatto è passato.

    — Che temi dunque, bella figliuola?

    — Temo il male che gli si vuole fare, signor Giovanni!

    — Ah, sì! — disse de Witt. — Questo popolo, non è vero?

    — Lo sentite?

    — Effettivamente è molto agitato: ma quando ci ve­drà, poiché non gli abbiamo fatto che del bene, forse si calmerà.

    — Disgraziatamente non è questa una ragione — mor­morò la fanciulla, allontanandosi per obbedire ad un se­gno imperativo che le aveva fatto il padre.

    — No, figlia mia, no; è proprio vero quello che dici.

    Poi, continuando il cammino:

    — Ecco — mormorò — una ragazza che, probabil­mente, non sa leggere e che quindi nulla ha letto, e che pure ha ben riassunto la storia del mondo in una sola frase.

    E sempre calmissimo, ma più melanconico che all’en­trare, l’ex primo ministro proseguì verso la stanza del fratello.

    II

    I due fratelli

    Come la bella Rosa aveva detto coi suoi dubbi pieni di presentimento, mentre Giovanni de Witt saliva la scala che portava alla prigione del fratello Cornelio, i borghesi facevano del loro meglio per allontanare la truppa di Tilly che li ostacolava.

    Vedendo ciò, il popolo che apprezzava le buone intenzioni della sua milizia, gridava a perdifiato: «Viva i borghesi! ».

    Quanto a Tilly, altrettanto prudente quanto risoluto, egli parlava con la compagnia borghese mentre il suo squadrone aveva le pistole pronte, spiegando come meglio poteva che la consegna datagli dal Parlamento gli chiedeva di custodire con tre compagnie la piazza del carcere e le adiacenze.

    - Perché tale ordine? Perché custodire il carcere? - gridavano gli orangisti.

    - Ah! - rispondeva Tilly — Voi mi domandate più di quello che io possa dire. Mi si è detto: «Fate la guardia» ed io la faccio. Voi che siete quasi militari, signori, dovete ben sapere che una consegna non è da discutere.

    - Ma vi è stato dato quest’ordine perché i traditori possano uscire dalla città!

    - Può ben essere così, poiché i traditori sono stati condannati all 'esilio — rispondeva Tilly.

    — Chi ha dato l’ordine?

    — I rappresentanti degli Stati, perbacco!

    — Gli Stati tradiscono!

    — Quanto a questo, non ne so nulla.

    — E anche voi tradite.

    — Io?

    — Sì, voi.

    — Ah, così ! Intendiamoci, signori borghesi: chi tra­direi io? Gli Stati? Non posso tradirli, perché sono al loro soldo ed eseguo puntualmente la loro consegna.

    Al che, siccome il conte aveva perfettamente ragione e non si poteva discuterne le risposte, i clamori e le mi­nacce raddoppiarono; clamori e minacce spaventosi, alle quali il conte rispondeva con tutta l’urbanità possibile.

    — Di grazia, signori borghesi, disarmate i vostri mo­schetti; ne potrebbe partire a caso un colpo e se questo ferisce uno dei miei cavalieri, noi getteremmo per terra duecento uomini vostri, il che rincrescerebbe molto a noi, ma anche di più a voi, atteso che ciò non è nelle vo­stre intenzioni né nelle mie.

    — Se faceste ciò — gridarono i borghesi — faremmo a nostra volta fuoco su di voi.

    — Sì, ma quando sparando su di noi, ci aveste am­mazzati tutti dal primo all’ultimo, quelli che avremmo uccisi noi, non sarebbero morti meno!

    — Cedeteci dunque la piazza e farete atto di buon cittadino.

    — Anzitutto, io non sono un cittadino — disse Tilly - sono un ufficiale, il che è molto diverso; inoltre, non solo olandese ma francese, ciò che è anche più diverso. Non conosco che gli Stati che mi pagano: portatemi da parte loro l’ordine di cedere la piazza ed io subito farò mezzo giro, visto che qui mi annoio enormemente.

    — Sì, sì! — gridarono cento voci, moltiplicate subito da cinquecento altre. — Andiamo al Municipio! Andiamo a trovare i deputati! Andiamo, andiamo!

    — Sì — mormorò Tilly guardando i più furiosi allon­tanarsi — andate a chiedere al Municipio una viltà e ve­drete se ve l’accorderanno; andate, amici, andate.

    Il degno ufficiale contava sull’onore dei magistrati, che dal canto loro contavano sull’onore del soldato, su di lui.

    — Dite, capitano — fece all’orecchio del conte il suo primo tenente — credete che i deputati rifiutino a questi energumeni quello che chiedono? Dovrebbero, però, man­dare a noi qualche rinforzo; ciò che non sarebbe male, credo.

    Intanto Giovanni

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