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Le dame galanti
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E-book208 pagine3 ore

Le dame galanti

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Le dame galanti, pubblicato per la prima volta nel 1665, è classico della letteratura libertina francese e raccoglie una serie di aneddoti e fatti biografici di donne di corte che l'autore conosceva o ammirava. Il libro è notevole per le descrizioni franche e spesso scandalose dei loro amori, oltre che per la prosa accattivante.

Pierre de Bourdeille, noto come Brantôme (c. 1540-1614), è stato uno scrittore e cortigiano francese. Nato in una famiglia nobile nel Périgord, in Francia, ha trascorso gran parte della sua vita alla corte del re Enrico III di Francia. Brantôme è principalmente conosciuto per le sue opere letterarie, in particolare le sue biografie delle donne di corte, che forniscono una fascinosa visione della vita e della personalità di alcune delle donne più potenti dell'epoca.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita29 apr 2023
ISBN9791222400983
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    Anteprima del libro

    Le dame galanti - Pierre Brantôme de Bourdeille

    PREFAZIONE

    Pietro de Bourdeille, signore e abate di Brantôme (1540-1614), ebbe una vita avventurosa e brillante. Fu buon soldato, viaggiatore instancabile, biografo piacevole, ma fu, soprattutto, uomo di corte nel più bello e nel più brutto senso della parola. Nel più bello, perchè dal suo passaggio per le varie corti europee dell’ultimo Cinquecento, gli venne una varia e profonda conoscenza degli uomini e delle cose; nel più brutto, perchè da questa conoscenza, egli non trasse alcun morale giovamento, ma solo la cinica e gaia abitudine di considerare tutto, uomini e donne, come facilmente corruttibili se non già corrotti. Bisogna, del resto, rendergli questa giustizia: Brantôme è l’uomo della sua società e del suo tempo, perfetto rappresentante d’una depravazione diventata ormai obbligo, costume, natura.

    Bravo soldato, abbiam detto, e questa lode gli fu data anche da buoni intenditori italiani: Brantôme s’ebbe infatti la stima e l’amicizia d’un ardito capitano nostro, Filippo Strozzi, discendente del generale Filippo e nipote di Piero. Nella spedizione contro Terceira, in cui lo Strozzi fu ucciso, Brantôme combattè accanto all’amico italiano, sulla galea dei cavalieri di Malta. Più tardi, durante le guerre di religione sotto Carlo IX, il bravo Perigordino combattè nelle file cattoliche, ma pare che, a un certo punto, pericolasse verso il protestantesimo. Niente paura! Un’anima leggera come quella di Brantôme non poteva correre alcun serio pericolo di questo genere. Dopo qualche dubbio, Brantôme ritornò allegramente all’antico.

    Viaggiatore facile e spedito, aveva viaggiato intanto in lungo e in largo per l’Europa e per l’Africa: era stato lungamente in Italia e poi in Iscozia, al seguito di Maria Stuarda, e in Inghilterra, dove aveva visto la corte d’Elisabetta, e nel Marocco e in Spagna e in Portogallo, ove l’avevan portato casi di guerra o intrighi diplomatici o naturale avida curiosità.

    Quando morì, lasciò ai posteri, ancora tutta manoscritta, ma già ben ordinata e pronta per la stampa, una vasta raccolta di memorie, di aneddoti, di note biografiche. Aveva preparata e ordinata questa materia negli ultimi venticinque anni, poi che una brutta caduta da cavallo, nel 1589, l’aveva costretto ad una vita pacifica, quasi sedentaria.

    Malgrado la previdente buona volontà dell’autore, che facilitava di molto il compito dei futuri editori, la prima pubblicazione delle memorie di Brantôme fu fatta soltanto un mezzo secolo dopo la morte del gaudente Perigordino. La prima edizione è, infatti, del 1665-1666 e non è completa.

    Delle edizioni successive rammenteremo quella in quindici volumi del 1740: un’altra curata da Luigi Gian Nicola Monmerqué in otto volumi (1821-1824): quella della Biblioteca elzeviriana, cominciata da P. Merimée ed L. Lacour nel 1858 e finita, col tredicesimo volume, soltanto nel 1883; infine quella curata dal Lalanne per la Società della Storia di Francia, in dodici volumi (1864-1896).

    Della vasta raccolta, la parte rimasta ancor viva e attraente è quella compresa sotto il titolo Le dame galanti, la più cinica, se si vuole, ma anche la più varia e la più pittoresca. È una specie di Pantheon innalzato alla memoria di tutte le dame europee dell’ultimo Cinquecento. Non è un tempio che faccia molto onore alla donna di quel secolo, ma bisogna prenderlo tal quale Brantôme ce l’ha lasciato anche perchè, a volerlo coprire, non ci sarebbero nè veli, nè frasche bastanti. Brantôme non è un narratore fine, non sa nè le grandi scaltrezze, nè la grande semplicità dell’arte: è un uomo che racconta storielle grasse con bonaria sciatteria, con un linguaggio fluente e famigliare, come se ciò che dice fosse la cosa più naturale, la cosa più candida di questa terra. In Brantôme c’è una specie di candore involontario che, a volte, ti fa quasi credere che a questo mondo, accanto al bello dell’orrido, ci sia posto anche per una castità dell’impudicizia.

    Certo è che la raccolta delle Dame galanti diffusasi ben presto in tutta Europa e che continua anch’oggi ad esser tradotta e letta ovunque, è opera personalissima in cui sopravvive un ingegno straordinariamente aggressivo e versatile. Si può non amarla, ma non si può ignorarla poichè in essa appaiono riflessi, con perfetta limpidità, una società esuberante ed un uomo originale.

    AL SIGNORE SIGNOR DUCA D’ALENÇON DI BRABANTE E CONTE DI FIANDRA FIGLIO E FRATELLO DEI NOSTRI RE

    Signore, poichè voi mi avete fatto spesso l’onore di discorrere meco alla Corte, con grande intimità, intorno a parecchie belle istorie, che vi son così famigliari e alla mano, che si direbbe vi nascano a vista d’occhio sulle labbra; tanto il vostro ingegno è grande, pronto e sottile, e la parola vostra ornata e felice, mi son dunque accinto a comporre quei discorsi, così come li abbiam fatti, adoprandomi del mio meglio, affinchè se alcuno è che vi piaccia, possiate così passare un po’ di tempo e ricordarvi di me, nelle vostre conversazioni, di cui mi avete onorato come gentiluomo di corte.

    Io vi dedico perciò, Signore, questo libro, supplicandovi che lo vogliate proteggere col nome e l’autorità vostra, fino a che io mi accinga ad opere serie. Voi ne sapete già una che ho quasi finito, dove fa il paragone di sei grandi principi e capitani in fama oggi nella nostra cristianità, i quali sono: il re Enrico III vostro fratello, Vostra Altezza, il re di Navarra vostro cognato, il Signore di Guisa, il Signore del Mayne e il Principe di Parma. Dei quali tutti, io descrivo il valore, le virtù, i meriti e le belle imprese, lasciandone la conclusione a quelli che meglio di me sapranno fare.

    Ad ogni modo, Signore, io prego Iddio che aumenti sempre in voi la grandezza, la prosperità e l’altezza, della quale io sono per sempre: Il vostro umilissimo e obbedientissimo e affezionatissimo servo

    Bourdeille.

    DISCORSO PRIMO

    Le donne che fanno l’amore e i loro mariti cornuti

    Poichè sono le donne, che hanno creato le corna e son esse che fanno cornuti gli uomini, io ho volùto introdurre il seguente discorso in questo libro, ancor che d’uomini insieme e di donne io sia per parlare. So bene di accingermi ad una grande impresa di cui non riuscirei a mostrare, se volessi, la fine; chè tutta la carta della Camera dei Conti di Parigi non basterebbe a contenere la metà delle storie: sì degli uomini che delle donne. Ma pure io ne scriverò finchè potrò e, quando non potrò più, getterò la mia penna al diavolo o a qualche buon amico, che penserà a raccoglierla: e intanto domando scusa se in questo discorso non osservo ordine nè misura, inquantochè sì grande disordinata e varia è la folla di siffatta gente, e di tali donne, ch’io non conosco sergente di battaglia bravo e gagliardo tanto che possa disporle in bell’ordinanza.

    Per lo che, seguendo la mia fantasia, vo’ dire secondo la mia fantasia, vo’ dire secondo il mio piacere in questo bel mese d’aprile, che ne rimena il tempo per la buona caccia ai cornuti, dico, ai novi uccelli di frasca, chè degli altri se ne fa e se ne vede in tutti i mesi e le stagioni dell’anno.

    Or di questo genere di cornuti v’ha molte e diverse specie; ma, la peggiore di tutte, e che le donne temono e debbono tuttavia temere, è costituita da quei pazzi pericolosi, bizzarri, malvagi, furbi, crudeli, sanguinari ed ombrosi mariti, che battono, tormentano, uccidono, gli uni con ragione vera, gli altri per errore, tanto arrabbiati li rende il più piccolo sospetto; ed è gran bene alle mogli coi loro amanti fuggire la loro compagnia.

    Tuttavia io ho conosciuto delle donne e degli amanti che non se ne davano assai pensiero, e, perchè essi eran cattivi quanto quelli, e perchè le donne avevano tanto coraggio di poterne aggiungere ai loro amanti ove ne avessero bisogno; atteso che quanto più pericolosa e scabrosa è un’impresa, con tanto maggior forza d’animo deve esser fatta. Ma ho conosciuto pure delle donne che non avevano affatto cuore a sì alte cose e non prendean diletto che di cose basse e vili: per cui si dice: «Vile di cuore come una puttana».

    Una donna discorrendo d’amore con un gentiluomo si ebbe detto da questo, che, s’egli avesse giaciuto con lei avrebbe avuto la forza di farne sei ogni notte, tanto lo scalderebbe la sua bellezza.

    «Voi vi vantate di molto» disse ella «Vo’ concedervi una notte».

    Egli non mancò di recarvisi; ma fu disavventura per lui chè appena entrato nel letto fu colto da convulsioni, brividi di freddo e contrazioni nervose, sì da non poterne fare neppur una. Al che la donna:

    — «Non volete più far niente? Via dal mio letto, ch’io non ve l’ho prestato come un letto d’albergo perchè vi stendeste a riposare. Via! Via!».

    E così lo fe’ sloggiare e si fè’ molte beffe di lui odiandolo di poi più che la peste.

    Molta più fortuna avrebbe avuto quel gentiluomo se fosse stato della forza del gran protonotario Baraldo, elemosiniere del re Francesco. Chè quand’egli giaceva con le dame della corte, arrivava per lo meno alla dozzina, e al mattino diceva per di più:

    — «Io vi domando perdono, Signora, se non ho potuto fare di meglio, poichè ieri ho preso la purga».

    Io l’ho visto di poi, quando aveva lasciato la sua divisa e lo chiamavano il Capitan Baraldo il guascone; e me n’ha raccontate di molte, per nome.

    Fattosi vecchio, e mancatogli quella virile tempra venerea, venne in povertà, ancor che avesse ben saputo sfruttare il suo tempo passato; ma egli avea tutto disperso e si diede a colare e a distillare essenze.

    — «Ma s’io potessi – solea dire – distillare essenza spermatica come alla mia bella età, farei assai meglio i miei affari e starei meglio».

    Ho conosciuto un marito che, tornando da un lungo viaggio, dopo molto tempo che non aveva giaciuto con la sua donna, veniva tutto allegro e risoluto a saziarsi e a prendersi godimento. Ma, come giunse di notte, intese ch’ella era a letto insieme al suo amico. Al che il brav’uomo mette mano alla spada e precipitandosi sulla porta ch’era aperta, corre deciso ad uccidere. Dopo aver cercato invano il galante, ch’era saltato per la finestra, viene a lei; ma per avventura ell’era quella volta così bene attillata e così ben messa nella sua acconciatura da notte, con la sua bella camicia bianca, e tutta adorna (pensate come s’era abbigliata per piacere al suo amico), ch’ei non l’aveva mai vista così disposta e piacente per lui. Ella allora si getta così in camicia per terra ai suoi ginocchi e gli domanda perdono con sì belle e dolci parole, com’ella ben le sapeva dire, che il marito la fece alzare e, vedendola bella e piena di grazie, si sentì piegare il cuore. E, lasciandosi cadere la spada, egli, che niente aveva fatto da tanto tempo, affamato come era le perdonò, la prese, la baciò e la ripose sul letto. Indi, svestendosi in fretta, chiuse la porta e si giacque accanto a lei. E la donna lo seppe sì ben contentare con tutti i suoi vezzi e le sue lascivie (pensate che non dimenticò niente), che all’indomani essi erano più amici di prima e non s’eran fatte mai tante carezze.

    Come Menelao, il povero cornuto, che minacciando da dieci o dodici anni sua moglie Elena di ucciderla se mai l’avesse riavuta in suo potere e glielo gridava da sotto le mura, quando poi Troia fu presa ed ella cadde in sua mano, fu tanto incantato dalla sua bellezza da perdonarle ogni cosa e l’amò e l’ebbe cara più che mai.

    Ho sentito parlare d’una grande dama, la quale diceva che non vi fu mai sabato senza sole, donna bella senza amore, e vecchio senza gelosia; il che procede dalla debolezza delle sue forze.

    Ed è per questo che un gran principe, ch’io conosco, diceva di voler essere come il leone, che per invecchiare non incanutisce; come la scimmia, che più la fa, più la vuol fare; come il cane, che più invecchia, più il suo cazzo si ingrossa, e come il cervo che quanto più è vecchio, tanto va meglio all’amore e le cerve corrono più a lui che ai cervi giovani.

    Ora, per dirla francamente, come ho sentito da un gran personaggio, qual ragione, o qual potere tanto grande ha un marito, che debba o possa uccidere la propria moglie; visto che nè da Dio e nè dalla legge nè dal Santo Evangelo ha altro diritto che di ripudiarla soltanto? Ivi infatti non si parla di morte, non di sangue, non di uccisioni, non di tormenti, non di carcere, nè di veleni, nè d’altre crudeltà. Ah! che Nostro Signor Gesù Cristo ci ha ben mostrato che v’eran dei grandi abusi in simili modi di fare e in queste uccisioni e ch’egli non l’approvava affatto, allor quando gli fu condotta quella povera donna accusata d’adulterio, affinchè la condannasse, ed egli disse scrivendo col dito nella polvere: «Chi di voi è il più netto e il più semplice, prenda la prima pietra e cominci a lapidarla!» E non vi fu uno che osasse farlo, sentendosi tutti toccati dal saggio e dolce rimprovero.

    Il nostro creatore ci insegna così a tutti di non essere tanto leggieri a condannare e a far morire le persone, conoscendo a questo riguardo la fragilità della nostra natura e gli abusi che parecchi commettono.

    Poichè uno fa morire la propria moglie, essendo più adultero di lei; un altro manda a morte spesso un’innocente, perchè, stanco di lei, ne vuol prendere una nuova: e quanti ve n’è di costoro!

    Sant’Agostino dice che l’uomo adultero è ugualmente degno di condanna che la donna.

    Recentemente il Re Enrico d’Inghilterra fece decapitare la sua donna Anna Bolena, per sposarne un’altra, poich’egli amava molto il sangue e di mutar donne. [1] Non sarebbe stato meglio ch’ei l’avesse ripudiata, seguendo la parola di Dio, piuttosto che farla morire così crudelmente? Ma questi signori hanno bisogno di carne fresca e vogliono tenere tavola a parte non per invitarvi alcuno, o aver nuove donne che loro portino dei beni dopo ch’essi han divorato quelli delle prime, o non se ne sono abbastanza saziati.

    Claudio, figlio di Druso Germanico, si contentò di ripudiare la moglie Plautia Herculanina, per essere stata una celebre puttana e, quel che è peggio, per aver inteso ch’ella attentava alla sua vita. E per quanto fosse crudele e queste ragioni fossero sufficienti per mandarla a morte, pure se ne stette al divorzio.

    E, per di più, quanto tempo sopportò le dissolutezze e le sudicerie di Valeria Messalina, sua seconda moglie, la quale non si contentava di darsi liberamente e sfacciatamente a questo o a quello, ma esercitava la professione di andare nei bordelli e farsi montare, come la più grande bagascia dell’urbe. Tanto che – come dice Giovenale – quand’era andata a letto con suo marito, appena questo s’addormentava, ella scivolava bellamente dal suo canto e via in un bordello a farselo dare senza posa, fino a che, stanca più che piena e satolla, se ne andava. E faceva ancor peggio: chè, per meglio godere ed avere intiera la coscienza d’essere una grandissima puttana e bagascia, si faceva pagare, e tassava i suoi colpi e le sue cavalcate, leticando come un gabelliere fino all’ultimo quattrino.

    Mi ricordo che un gran principe, ch’io ho conosciuto, volendo lodare una donna di cui egli aveva goduto, disse: «È una bellissima puttana, grande come mia madre». E sorpreso di ciò che s’era lasciato scappar di bocca, aggiunse che non voleva dire ch’ella fosse una grande puttana come sua madre ma ch’ella aveva la stessa statura. Talvolta si dicono cose a cui neppure si pensa, ma talvolta, anche senza pensarvi, si dice la verità.

    Ecco dunque che le donne di grande statura hanno una maggior maestà, non fosse per altro, che per la grazia che è nel loro portamento. In quanto che in tali cose essa è necessaria e piace non meno che nelle altre azioni e negli altri esercizi: così come il maneggio di un bello e gran palafreno del regno è cento volte più bello e attraente che non quello d’un piccolo ronzino; e dà maggior piacere al suo scudiero, che tuttavia bisogna che sia bravo e si tenga bene mostrando più forza ed agilità.

    Lo stesso è per le donne grandi ed alte, poichè con siffatte membra elle vanno di più forte andatura e spesso fanno perdere le staffe e l’arcione se non si è bravi cavallerizzi: come ho sentito raccontare di alcuni cavalieri che soleano montarle, ed esse si vantavano e si facevano beffa di loro quando riuscivano a scavalcarli e a farli cadere bocconi.

    Così in questa città ve n’era una, la quale, quando il suo amante giacque la prima volta con lei, gli disse francamente. «Abbracciatemi forte e legatevi a me con le braccia e le gambe come meglio potete e siate bravo; ch’io vado alto, e badate di non cadere. D’altro canto non mi risparmiate: sono abbastanza forte da sostenere i vostri colpi, pur violenti che siano; e se voi non mi risparmiate, io non vi risparmierò. A bel giuoco del ritorno».

    Ma la femmina lo vinse.

    Io ho conosciuto un buon tipografo veneziano a Parigi, che si chiamava messer Bernardo, parente di quel grande Aldo Manuzio di Venezia. Egli aveva bottega nella via di S. Giacomo e mi giurò parecchie volte che, in meno d’un anno, aveva venduto più di cinquanta copie dell’Aretino a molti uomini sposati e scapoli, e a signore di alto grado, di cui mi disse il nome, ch’io non dirò. Queste ultime erano venute di persona a prendere quei libri, e gli avevano

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