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Guerra e pace IV
Guerra e pace IV
Guerra e pace IV
E-book467 pagine6 ore

Guerra e pace IV

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Info su questo ebook

Guerra e pace, certamente il capolavoro di Tolstoj, è stato definito più volte la più grande opera della letteratura russa e una delle più grandi opera della letteratura del XIX secolo. In questo romanzo, le storie e i destini individuali dei personaggi principali si intrecciano in modo perfetto con gli avvenimenti storici e militari di quel periodo – così come dimostrano anche i vari adattamenti cinematografici girati nel corso degli anni.In questa gloriosa narrazione si fondono tra loro diversi elementi, tra cui l'epopea del popolo russo, il rapporto tra individuo e collettività e i grandi temi storici e filosofici dell'Ottocento.Questo è il quarto e ultimo volume.-
LinguaItaliano
Data di uscita22 ago 2020
ISBN9788726568998
Guerra e pace IV
Autore

Leo Tolstoy

Leo Tolstoy (1828-1910) is the author of War and Peace, Anna Karenina, The Death of Ivan Ilyich, Family Happiness, and other classics of Russian literature.

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    Anteprima del libro

    Guerra e pace IV - Leo Tolstoy

    Guerra e pace IV

    Federigo Verdinois

    Война и мир

    The characters and use of language in the work do not express the views of the publisher. The work is published as a historical document that describes its contemporary human perception.

    Copyright © 1869, 2020 Lev Tolstoj and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726568998

    1. e-book edition, 2020

    Format: EPUB 3.0

    All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    SAGA Egmont www.saga-books.com – a part of Egmont, www.egmont.com

    Parte prima

    I

    A Pietroburgo intanto, nelle alte sfere, ferveva più che mai la lotta intricata dei partiti di Rumianzow, dei Francesi, dell’imperatrice madre, del principe ereditario e di altri, accompagnata, come suole, dal ronzio dei calabroni di Corte. Ma la vita della grande città si svolgeva come prima, tranquilla, sfoggiata, superficiale, non di altro sollecita che delle apparenze, epperò non si potea da essa argomentare il pericolo che sovrastava alla nazione. Gli stessi ricevimenti, gli stessi balli, lo stesso teatro francese, gli stessi interessi, le stesse rivalità, gli stessi intrighi. Solo nei circoli elettissimi si accennava in punta di labbra alle difficoltà della situazione. Si susurrava del contegno diverso e nemico delle due imperatrici. L’imperatrice madre, gelosa delle istituzioni pie e di educazione, di cui era patrona, prendeva misure per farle trasferire tutte a Kasan, e già il grosso della roba n’era stato spedito. Invece l’imperatrice Elisabetta, richiesta di ordini, erasi degnata rispondere, col patriottismo che le era proprio, che degli istituti governativi non potea disporre, visto che la cosa dipendeva dall’imperatore; quanto a sè personalmente, essa sarebbe stata l’ultima a lasciar Pietroburgo.

    La sera del 26 agosto, data della battaglia di Borodinò, c’era ricevimento da Anna Scherer; e di esso dovea formare precipua attrattiva la lettura della epistola scritta dal metropolita all’imperatore nell’inviargli una immagine del miracoloso san Sergio. Questa lettera era stimata un modello di patriottismo religioso. L’avrebbe letta il principe Basilio, leggitore emerito (anche dall’imperatrice leggeva qualche volta). L’arte della lettura consisteva nell’alternare le inflessioni lagrimose a quelle del più tenero mormorio, indipendentemente dal significato delle parole, sicchè la tenerezza e la desolazione capitavano a casaccio. Come tutte le serate della Scherer, questa qui aveva il suo significato politico. Vi si attendevano varie personalità, cui bisognava infondere più calorosi sensi patriottici e far sentire la vergogna di prediligere il teatro francese. I convenuti erano già in buon numero, ma la padrona di casa non vedeva ancora in salotto quelli che le occorrevano, epperò, rimandando la lettura, manteneva la conversazione sulle generali.

    La novità del giorno era la malattia della contessa Besuhow. La contessa, da circa una settimana, non s’era fatta vedere in quelle riunioni di cui era ornamento. Dicevasi che non ricevesse e che, in vece dei luminari della scienza medica che ordinariamente la curavano, s’era messa nelle mani di un certo dottore italiano, inventore di un trattamento affatto nuovo e straordinario.

    Tutti sapevano benissimo che la malattia dell’incantevole contessa derivava dalla difficoltà di sposare due mariti ad un tempo, e che il metodo di cura dell’italiano consisteva appunto nella rimozione di cotesta difficoltà; ma in presenza della Scherer nessuno osava pensarvi, anzi pareva a dirittura che nessuno ne sapesse niente.

    — Dicono che stia assai male la povera contessa. Il dottore ha fatto intendere che si potrebbe trattare di un’angina.

    — Di un’angina? Oh, è una malattia terribile!

    — Si vuole che i rivali si siano riconciliati, grazie all’angina…

    La parola angina veniva ripetuta con gran piacere.

    — Il vecchio conte, dicono, fa pietà. Quando seppe dal dottore che il caso era grave, si mise a piangere come un bambino.

    — Oh, sarebbe una gran perdita! Una donna così cara, così seducente!

    — Parlate della povera contessa? – s’intromise la padrona di casa avvicinandosi. – Ho mandato a prender notizie. Pare che stia un po’ meglio. Oh, senza dubbio, la più cara donna di questo mondo! Apparteniamo a due campi diversi, ma ciò non toglie che io ne apprezzi i meriti. È tanto, tanto infelice!

    Figurandosi che con queste parole la Scherer avesse sollevato un lembo del mistero che avvolgeva la malattia della contessa, un giovanotto imprudente si permise esprimere la sua maraviglia che, invece dei dottori più famosi, fosse stato invitato un ciarlatano, capace di somministrare all’inferma chi sa quali perniciose miscele.

    — Le vostre informazioni saranno forse migliori delle mie, – gli diè sulla voce Anna Scherer. – Ma io so da ottima fonte che il dottore in questione è un clinico di prim’ordine. È medico ordinario della regina di Spagna.

    Messo così a posto il malaccorto, ella si volse a Bilibin, il quale, in un altro gruppo, arricciando la fronte e già pronto a spianarla per lanciare un mot, discorreva degli austriaci.

    — Io lo trovo stupendo! – diceva a proposito del dispaccio diplomatico col quale era stato accompagnato l’invio a Vienna delle bandiere austriache, prese da Wittgenstein, l’eroediPetropoli, come lo si chiamava a Pietroburgo.

    — Come dice? come dice? – domandò la Sherer, provocando un silenzio per udire il mot, che ella già conosceva.

    E Bilibin ripetè le parole testuali del dispaccio, da lui stesso redatto:

    «L’imperatore manda le bandiere austriache, bandiere amiche smarritesi per via.»

    — Stupendo! impareggiabile! – approvò il principe Basilio.

    — Probabilmente sulla via di Varsavia, – venne su inaspettato il principe Ippolito. Tutti lo guardarono, non avendo capito che cosa volesse dire. Egli stesso non lo sapeva. Se non che, nella sua carriera diplomatica, più volte avea notato che delle parole così gettate a caso riuscivano molto argute, epperò avea pronunciato le prime venutegli sulla lingua. «Può darsi» avea pensato «che n’esca qualche cosa di buono; e se no, se le acconcino a modo loro.»

    Nel mentre dell’increscioso silenzio, fece la sua apparizione quel tale personaggio poco patriottico, che la Scherer si proponeva di convertire; epperò ella, dopo aver fatto al principe Ippolito uno scherzoso cenno di minaccia, invitò il principe Basilio verso la tavola sulla quale due candele furono collocate, e porgendogli il manoscritto lo pregò di leggere.

    Tutti tacquero intorno.

    «Augusto sovrano ed imperatore!» declamò grave e severo il principe Basilio, e volse all’uditorio un’occhiata, quasi domandando se qualcuno avesse da dir nulla in contrario. Ma nessuno fiatò. «Mosca, sede vetusta del trono. Nuova Gerusalemme, accoglie il suo Cristo (calcò la voce sul suo), come la madre accoglie fra le braccia i suoi devoti figliuoli; e attraverso le tenebre che incombono, presaga della fulgida gloria del Tuo regno, intuona rapida: Osanna, osanna a colui che incede!»

    Queste ultime parole furono pronunciate in tono lagrimoso.

    Bilibin si guardava attentamente le unghie, e parecchi degli ascoltatori erano visibilmente mortificati, come se volessero chiedere: checolpaèlanostra? Anna Scherer, come la vecchia che biascica il confiteor prima della comunione, bisbigliò per suo conto: «Venga pure il temerario Golia….»

    Il principe Basilio continuò:

    «Venga pure dalla Francia remota il temerario Golia a portare il terror di morte sulle frontiere della patria: l’umile fede, fionda del Davide russo, abbatterà di colpo la sua sanguinaria superbia. Questa immagine del taumaturgo san Sergio, antico paladino e scudo del bene della patria nostra, alla Maestà Vostra si offre. Molto mi addolora che le forze cadenti non mi consentano bearmi nella presenza benefica dell’augusto Monarca. Fervide preci levo intanto al cielo, perchè l’Onnipotente moltiplichi ed innalzi la stirpe dei giusti e faccia colmi i nobili voti della Maestà Vostra Imperiale.»

    — Che forza! che stile! – si udì da varie parti in lode dell’autore e del lettore. Eccitati dall’epistola, i convenuti discorsero ancora a lungo della situazione politica, e fecero varie induzioni sull’esito della battaglia che pareva imminente.

    — Vedrete, – disse Anna Scherer, – che domani, compleanno dell’imperatore, riceveremo notizie. Io ho un buon presentimento.

    II

    Il presentimento della Scherer si avverò. Il giorno appresso, mentre nella cappella di Corte si cantava il Te Deum per la nascita dell’imperatore, il principe Volconski fu chiamato e ricevette un piego da parte di Kutusow. Era un rapporto scritto dopo la battaglia di Tatarinovo. Vi era detto che i Russi non avean ceduto nemmeno un pollice di terreno, che le perdite francesi di gran lunga superavano le nostre, che ulteriori notizie sarebbero state raccolte e mandate. Si trattava dunque di una vittoria vera e propria. E immediatamente nella stessa cappella, furon levate grazie solenni a Dio per il Suo aiuto e pel conseguito trionfo.

    Tutta la città fu in festa. La vittoria pareva a tutti decisiva; qualcuno facea perfino supporre che Napoleone fosse prigioniero; altri parlava della prossima deposizione del despota e del nuovo sovrano da dare alla Francia.

    Lontani dall’azione e in mezzo alla vita fittizia della Corte, è assai difficile che gli avvenimenti abbiano la dovuta ripercussione. Senza pur volerlo, si è indotti ad aggrupparli intorno a qualche singola congiuntura. Così ora, la gioia dei cortigiani era motivata non solo dalla vittoria, ma anche dal fatto che la notizia era arrivata nel giorno natalizio del sovrano. Era una specie di sorpresa ben riuscita. Nel rapporto di Kutusow si accennava anche alle perdute russe, e fra queste si citavano i nomi di Tuckow, Bragation, Kutaisow. E anch’esso, questo lato fosco dell’evento, si aggruppava intorno ad un fatto solo: la morte di Kutaisow. Tutti lo conoscevano, l’imperatore lo amava, era giovine ed interessante. Non s’incontravano due persone, che non dicessero:

    — Che strana coincidenza! Proprio nel bel mezzo del TeDeum! E che perdita poi… Kutaisow! Ah, che peccato!

    — Che vi dicevo io a proposito di Kutusow? – sbraitava dappertutto il principe Basilio. – Le mie parole furono profetiche: è l’unico uomo da mettere a posto Napoleone.

    Ma il giorno appresso non s’ebbero notizie dal campo, e una certa trepidazione serpeggiò nel pubblico. I cortigiani non si davano pace dell’ignoranza in cui si lasciava l’imperatore.

    — Voi capite – dicevano – quanto deve soffrire Sua Maestà!

    Le lodi a Kutusow si mutarono in mormorio. Il principe Basilio non levava più al cielo il suo protégé, ma si chiudeva in un silenzio dispettoso, quando cadeva il discorso sul generalissimo. Oltre a ciò, la sera dello stesso giorno, come se tutto cospirasse ad accrescere l’agitazione penosa degli animi, si sparse un altra tristissima notizia. La contessa Elena Besuhow era morta improvvisamente, fulminata da quella tremenda malattia, che così dolce si offriva alla pronuncia. Nei circoli aristocratici ufficialmente si annunziava che la contessa avea soccombuto ad un violento accesso di angina; ma ciò non impediva che nella intimità si narrasse, con gran lusso di particolari, che il medico ordinario della regina di Spagna avea prescritto ad Elena un certo farmaco da prendere in piccole dosi per ottenerne un dato effetto; ma che Elena, tormentata dai sospetti del vecchio conte e dal silenzio del marito (di quello sciagurato di Piero), al quale avea scritto, si era decisa ad ingoiare una forte dose ed era morta prima che si potesse in qualche modo soccorrerla. Aggiungevasi che il principe Basilio e il vecchio conte volevano pigliarsela con l’italiano; ma questi avea mostrato tali lettere della povera morta, che immediatamente avean dovuto rilasciarlo.

    Le conversazioni si aggiravano dunque su tre dolorosi argomenti: l’inquietudine dell’imperatore, la perdita di Kutaisow e la morte di Elena.

    Tre giorni dopo il rapporto di Kutusow, si diffuse la notizia che Mosca era stata abbandonata ai Francesi. Era incredibile! spaventoso! Figurarsi l’imperatore! Kutusow evidentemente era un traditore; e il principe Basilio, ricevendo le visite di condoglianza per la morte della figlia, non mancò di osservare (il dolore, pover’uomo, lo rendeva smemorato), che non si poteva aspettar di meglio da un vecchio cieco e depravato.

    — Io stupisco, come si sia potuto affidare le sorti della Russia nelle mani di un uomo simile!

    Finchè la notizia non fu officiale, era lecito dubitarne; ma il giorno appresso arrivò il seguente rapporto di Rostopcin:

    «Un aiutante del principe Kutusow mi reca una lettera, nella quale mi si chiedono ufficiali di polizia per guidare l’esercito sulla via di Riasan. Il generalissimo è dolente, dice, di abbandonar Mosca. Maestà! il passo di Kutusow decide le sorti della capitale e dell’impero. Tutta la Russia fremerà di sdegno, sapendo nelle mani del nemico la città santa, palladio della patria grandezza, custodia delle ceneri dei vostri padri. Io seguo l’esercito. Tutto portai con me. Non mi rimane che piangere sui destini del mio paese.»

    Ricevuto questo rapporto, l’imperatore mandò a chiamare il principe Volconski e gli affidò di consegnare a Kutusow un rescritto così concepito:

    «Principe Michele Kutusow! Dal 29 Agosto non ebbi altri rapporti da voi. Fui intanto informato il primo settembre da Iaroslav, con lettera del governatore di Mosca, che voi decideste l’abbandono della capitale. Potete immaginare quale effetto produsse su me questa notizia, resa ancor più grave dal vostro silenzio. L’aiutante generale principe Volconski, latore della presente, è incaricato d’informarsi della situazione dell’esercito non che dei motivi che vi persuasero a un passo così doloroso.»

    III

    Nove giorni dopo l’abbandono di Mosca, ne giunse a Pietroburgo la notizia ufficiale portata da un messo di Kutusow. Era questo messo il francese Michaud, che di russo non sapeva una parola, ma che, quantunquestraniero,erarussocontuttoilcuoreecontuttal’anima, com’egli stesso amava ripetere.

    L’imperatore lo ricevette immediatamente al palazzo di Kammenni-Ostrow. Michaud, che prima della campagna non avea mai veduto Mosca, si sentì nondimeno profondamente commosso, quando si trovò al cospetto del nostro clementissimosovrano (come più tardi ebbe a scrivere) con la notizia dell’incendio della capitale, le cuifiammegliavevanoilluminatolavia.

    Benchè il motivo dell’afflizione di Michaud dovesse esser diverso da quello che provocava la desolazione dei Russi, Michaud era così stravolto in viso quando entrò nel gabinetto dell’imperatore, che questi subito gli domandò:

    — Che nuove, colonnello?… Tristi?

    — Assai tristi, Maestà… L’abbandono di Mosca.

    — Possibile che abbiamo ceduto, senza colpo ferire, la mia antica capitale?

    Michaud rispettosamente riferì quanto Kutusow gli avea commesso, cioè che una battaglia sotto le mura di Mosca era impossibile e che, in vista dell’unica soluzione – perdere l’esercito e Mosca o perdere soltanto Mosca, – il feldmaresciallo era stato costretto ad appigliarsi al secondo partito.

    L’imperatore ascoltò in silenzio, senza guardare al suo interlocutore.

    — È entrato in città il nemico?

    — Sì, Maestà; e Mosca, nel momento ch’io parlo, è un mucchio di ceneri. L’ho lasciata avvolta nelle fiamme.

    L’imperatore fu preso da un affanno angoscioso, i begli occhi azzurri gli si empirono di lagrime, gli tremava il labbro inferiore. Ma la forte commozione non durò che un momento.

    — Vedo, colonnello, – disse il sovrano, alzando la testa risoluto, quasi vergognando della propria debolezza, – vedo da quanto accade che la Provvidenza esige da noi grandi sacrifici… Io sono pronto a piegare il capo alla volontà suprema. Ma dite, Michaud, come lasciaste l’armata? Non notaste qualche indizio di scoraggiamento nel dover retrocedere senza tentar la sorte delle armi?

    Visto tornato in calma il suo clementissimosovrano, Michaud si rassicurò, ma alla domanda non seppe rispondere issofatto.

    — Mi permette Vostra Maestà di parlar franco, come è debito di un militare onorato? – domandò a sua volta per guadagnar tempo.

    — Lo esigo, colonnello. Tutta la verità voglio sapere.

    — Ebbene, Maestà, io ho lasciato l’armata, a cominciar dai capi fino all’ultimo tamburino, invasa dal più disperato terrore.

    — Che dite mai? I miei Russi perdersi d’animo per un rovescio? Mai! mai!

    — Maestà (e Michaud avea sulle labbra un sorriso impercettibile), essi temono che la Maestà Vostra, nella bontà dell’animo Suo si decida a conchiuder la pace. Ardono tutti dall’impazienza di misurarsi ancora una volta col nemico, dimostrando così col sacrificio della vita la loro devozione all’amato sovrano.

    — Ah! – sospirò l’imperatore battendogli sulla spalla, – voi mi rassicurate, colonnello.

    Seguì un breve silenzio.

    — Ebbene, – conchiuse l’imperatore raddrizzandosi con tutta la persona, tornate all’armata, colonnello, e dite ai nostri prodi, dite a tutti i miei buoni sudditi, dovunque passerete, che quando non mi avanzerà più un soldato, mi metterò io stesso alla testa dei miei nobili e dei miei contadini e proverò risoluto le ultime forze del mio impero. Ce n’è assai più che i nemici si pensino. Ma se fu prefisso dalla Divina Provvidenza, che la nostra dinastia debba scendere dal trono degli avi, allora, esauriti i mezzi estremi, io mi lascerò crescer la barba fin qua (e accennava con la mano a metà del petto) e andrò a nudrirmi di patate col più miserabile dei miei contadini, anzi che sottoscrivere l’onta della mia patria e del mio amato popolo, del quale so apprezzare i sacrifici!

    Pronunciate con voce commossa queste parole, l’imperatore si voltò in là come per nascondere le lagrime e andò fino al fondo del gabinetto. Dopo un poco, tornò a gran passi verso Michaud e con un gesto energico gli strinse il braccio al disotto del gomito. Era acceso in viso, gli splendevano gli occhi di risolutezza e di sdegno.

    — Colonnello Michaud, non dimenticate quanto qui vi dissi. Forse un giorno ci accadrà di rammentarlo con piacere… O Napoleone o Alessandro (e si toccava il petto). Non possiamo più oltre regnare insieme. L’ho conosciuto oramai, nè più gli verrà fatto d’ingannarmi.

    Corrugata la fronte, tacque.

    A quelle parole, a quella espressione di fermezza e di proposito, Michaud, quantunque straniero, ma russo contuttoilcuoreecontuttal’anima, si sentì tratto all’entusiasmo, e si studiò con le frasi più adatte di manifestare così i propri sentimenti come quelli del popolo russo, di cui si stimava autorizzato rappresentante e plenipotenziario.

    — Maestà! disse. – In questo momento solenne, Vostra Maestà sottoscrive la gloria della nazione e la salvezza d’Europa.

    L’imperatore con un cenno del capo lo accomiatò.

    IV

    Guardando alla Russia per metà preda dell’invasore, alla fuga degli abitanti di Mosca, all’assiduo sollevarsi delle milizie in difesa della patria, pare a noi lontani da quel tempo, che tutti i Russi, dal primo all’ultimo, non di altro fossero solleciti che di sacrificarsi, di salvar la patria, o di piangere sulla sua rovina. I racconti di quell’epoca, le descrizioni, non ci rappresentano che atti di abnegazione, di amor patrio, di eroismo, di lotta disperata. Fatto sta che questo non corrisponde al vero. Pare a noi così, perchè del passato vediamo esclusivamente l’interesse del momento storico, senza tener conto degli interessi singoli, individuali, umani, i quali tanta importanza hanno per sè da non far sentire tutta la gravità dell’interesse generale. La maggior parte degli uomini di quel tempo, non che occuparsi degli eventi che incalzavano, era assorbita dalle considerazioni personali del presente. Ed appunto costoro furono, inconsapevolmente, i più utili strumenti di azione.

    Quelli invece, che si sforzavano di valutare la situazione e vi partecipavano volenterosi col sacrificio e con l’eroismo, furono le ruote più disutili del movimento sociale. Tutto vedevano a rovescio, e checchè facessero, riusciva vano e qualche volta ridevole, come i reggimenti di Piero e di Mamonow che saccheggiavano i villaggi, le filacce spicciate dalle mani delle signore e che ai feriti non arrivavano mai, e simili. Perfino coloro, che atteggiandosi a saputi e volendo far pompa dei propri sentimenti, discorrevano dello stato delle cose, involontariamente davano alle parole loro un’impronta di affettazione, di menzogna, o di vana ed astiosa critica, imputando a questo ed a quello una situazione della quale nessuno era colpevole. Negli eventi storici è più saggio che mai il divieto di gustare il frutto dell’albero della scienza. Unica che dia frutti è l’operosità incosciente, e chi veramente nell’evento storico rappresenta una parte, non si accorge mai di rappresentarla. Per poco che apra gli occhi e tenti di capire la propria cooperazione, questa nel punto stesso diventa sterile.

    L’importanza di quanto allora compievasi in Russia sfuggiva anche, per ragione di prossimità, a molti fra i contemporanei. A Pietroburgo e nelle province lontane da Mosca, uomini e donne si scioglievano in lagrime sul fato della Russia e della capitale, parlavano di sacrifici, e via discorrendo; ma nell’esercito, che ripiegava, non si accennava quasi nè si pensava a Mosca; e guardando alla furia dell’incendio, nessuno giurava di trarne vendetta sui Francesi; pensavano invece al trimestre di paga, alla prossima tappa, alla bella vivandiera, e simili.

    Nicola Rostow, senza la più lontana idea di sacrificio, e sol perchè casualmente la guerra lo avea trovato in servizio, partecipava da vicino ed assiduamente alla difesa della patria; epperò nè si disperava nè faceva fosche previsioni. Se qualcuno gli avesse domandato quel che pensava della situazione, avrebbe risposto che questo non era affar suo, che Kutusow e gli altri capi se la sbrigavano fra loro, che aveva inteso parlare di reggimenti in formazione, il che facea supporre che la guerra avrebbe durato a lungo, e che finalmente, date le circostanze, non era improbabile che fra un paio d’anni lo promovessero a colonnello.

    Dato questo suo modo di vedere, non solo non si dolse di esser mandato a Voronesc per la rimonta e quindi escluso dall’ultima battaglia, ma ne provò una grandissima soddisfazione, che non si curò di celare e che i camerati capirono benissimo.

    Pochi giorni prima di Borodinò, Nicola ebbe i fondi e i documenti, e fattosi precedere da un ussaro, se n’andò per posta a Voronesc.

    Solo chi ha passato parecchi mesi di fila nell’atmosfera della vita del campo può capire la gioia di Nicola nel sottrarsi alla regione occupata dalle truppe, coi suoi bagagli, i carri di provianda, le ambulanze, le salmerie. Quando, senza soldati, senza furgoni, senza alcuna cosa che gli ricordasse la vita disagiata e sudicia del campo, egli vide le campagne, i contadini, le case coloniche, le mandre pascolanti, le poste coi custodi addormentati, fu invaso da tale contentezza, come se tutto questo vedesse per la prima volta. Gli piacque soprattutto d’imbattersi in donne giovani, piacenti, fiorenti di salute, senza il solito codazzo di ufficiali corteggiatori, ma tutte liete e lusingate che l’ufficiale viaggiatore facesse con loro la burletta.

    Arrivò di notte a destinazione, si fermò in una locanda, ordinò tutto quello di cui per un pezzo avea patito la privazione, e il giorno appresso, fattasi la barba e indossata la gran tenuta, si presentò alle autorità del posto.

    Il comandante delle milizie, uomo attempato, funzionario civile, pareva soddisfattissimo di fare il militare. Accolse Nicola con piglio rabbioso (da uomo di guerra, secondo lui), e lo interrogò severamente, come se ne avesse pieno diritto, approvando e condannando l’andamento generale delle cose. Nicola era di così buon umore, che se ne divertì un mondo.

    Andò poi dal governatore, che era un ometto vivace, amabile, e molto semplice. Questi gl’indicò le scuderie meglio fornite, gli raccomandò un certo sensale in città e un proprietario distante venti verste, che avea cavalli eccellenti, e gli promise ogni sorta di aiuto.

    — Voi siete figlio del conte Elia? Mia moglie era intima di vostra madre. Io ricevo tutti i giovedì… venite stasera, così, alla buona… Vi aspetto.

    Dalla casa del governatore, presa una vettura, Nicola se n’andò col suo maresciallo d’alloggio a trovare il proprietario indicatogli. Tutto, in queste prime ore passate a Voronesc, gli riusciva piacevole; e poichè era di buon umore, tutto, come suole, si agevolava e si conchiudeva in meno di niente.

    Il proprietario era un vecchio scapolo, già ufficiale di cavalleria, conoscitore di cavalli, cacciatore, possessore di un’acquavite pepata di cento anni, di un vecchio vino di Ungheria e di stupendi cavalli.

    In due parole, Nicola comprò per seimila rubli diciassette stalloni di prima qualità, per la rimonta. Poi, dopo aver desinato e alzato un po’ il gomito, abbracciò teneramente il proprietario, col quale si davano già del tu, e se ne tornò allegramente per la pessima strada, incitando ad ogni poco il vetturino perchè lo facesse arrivare in tempo alla serata del governatore.

    Lavatasi la testa con acqua fredda, mutati i vestiti e profumatosi, si presentò, benchè in ritardo, alla riunione, pronto a scusarsi con la solita frase: meglio tardi che mai.

    Non si trattava d’un ballo, nè c’era prevenzione che si dovesse ballare; ma tutti sapevano che Caterina Petrovna avrebbe sonato al cembalo valzer e scozzesi, epperò tutti aveano indossato l’abito di società.

    La vita di provincia nel 1812 era su per giù quella che sempre è stata, con questa sola differenza, che notavasi in città una maggiore animazione per dato e fatto dell’arrivo di molte ricche famiglie di Mosca. Notavasi pure, come in tutto ciò che allora avveniva in Russia, una certa speciale noncuranza o spensieratezza che si voglia dire, benchè alle solite frasi sul tempo e alla non meno solita maldicenza, fossero sottentrati i discorsi a proposito di Mosca, dell’esercito, di Napoleone.

    La società convenuta dal governatore era la più eletta di Voronesc.

    Molte signore, parecchie conoscenze di Nicola; ma degli uomini non un solo era in grado di rivaleggiare col conte Rostow, brillante ufficiale degli ussari, cavaliere di San Giorgio, semplice di modi e squisitamente educato. C’era un italiano – ufficiale dell’esercito francese – fatto prigioniero; e Nicola sentiva che la presenza di quel prigioniero facea meglio risaltare l’importanza dell’eroe russo. Era una specie di trofeo. E Nicola – parendogli che tutti sentissero allo stesso modo – gli fu largo di cortesie piene di dignità e di riserbo.

    Varcata appena la soglia della sala, con la sua smagliante divisa da ussaro, spargendo intorno un’onda di profumi, e dopo aver detto e sentito ripetere: megliotardichemai!, Nicola si vide circondato e fatto segno a tutti gli sguardi. Sentì in quel punto di esser sollevato alla posizione di beniamino del pubblico, posizione sempre gradita, ma ora, dopo la lunga privazione, a dirittura inebriante. Non solo alle stazioni di posta, nelle locande e in casa del proprietario bonaccione, s’era imbattuto in servotte, che della sua attenzione pareano felici; ma qui anche dal governatore, una quantità di giovani dame e di graziose signorine si struggevano di esser da lui notate. Il bel sesso civettava; il sesso forte e maturo andava ventilando il miglior modo di mettere un freno al bell’ussaro rompicollo, dandogli una compagna. Nel numero di questi zelatori rappresentava una parte importante la stessa moglie del governatore, la quale aveva accolto Nicola come stretto parente e gli dava del tu.

    Caterina Petrovna andò al cembalo e suonò veramente i suoi valzer e le sue scozzesi. Si aprirono le danze, e Nicola con la sua bravura affascinò a dirittura l’intera società. Ballava in verità con una disinvoltura insolita, alquanto libera, e che a lui stesso, in un salone di Mosca, sarebbe sembrata sconveniente; ma qui, in provincia, gli pareva indispensabile far colpo con qualche cosa di nuovo, di straordinario, che passasse come l’ultima moda della capitale.

    Tutta la sera, le più sollecite attenzioni rivolse ad una biondina pienotta, dagli occhi cilestri, moglie di un impiegato civile. Con la ingenua persuasione dei giovanotti in vena di divertirsi, che le mogli altrui sian create per loro uso e consumo, non si spiccò un sol momento dalla graziosa donnina, anzi con lei a braccetto si accostò al marito, come per fargli vedere e toccar con mano quale e quanto tenero accordo unisse i loro due giovani cuori. Il marito però non sembrava partecipare a quella letizia e s’ingegnava di fare il burbero, benchè non sempre vi riuscisse, vinto egli stesso dalla bonarietà ridanciana di Nicola. Se non che, verso il termine della serata, mentre il viso della moglie diventava più animato e rubicondo, quello del marito si faceva sempre più tetro, come se la coppia avesse posseduto una dose comune di vitalità, la quale crescendo in uno dei due doveva necessariamente scemare nell’altro.

    V

    Elegantemente adagiato in una poltrona, col sorriso sulle labbra, curvando il busto verso la biondina pienotta, Nicola le andava spifferando dei complimenti mitologici.

    Profumato, soddisfatto di sè e dei suoi calzoni di daino attillati, mutando ad ogni poco la posizione delle gambe ben fatte, susurrava all’amabile interlocutrice di voler qui, a Voronesc, rapire una certa dama.

    — Quale?

    — Incantevole, divina, un miracolo. Ha gli occhi azzurri come il cielo (e la guardava fiso), le labbra di corallo, delle spalle di neve, una Diana…

    Il marito si accostò alla moglie e le domandò rabbuiato di che discorressero.

    — Ah! siete voi, signor Niceta! – esclamò Rostow alzandosi con sollecita cortesia. E come se volesse che anche il signor Niceta prendesse parte alla celia, gli confidò in tutta segretezza di aver meditato il ratto d’una biondina.

    Il marito fece una smorfia, la moglie sorrise. La buona signora del governatore si avvicinò al gruppo e si volse a Nicola.

    — Anna Malvinzew desidera vederti, Nicola… Andiamo, su!

    — Vi seguo, zia… Ma chi è?

    — Ha sentito parlar di te da sua nipote, alla quale salvasti la vita… Hai indovinato?

    — Eh! ne ho salvate tante!

    — Sua nipote, la principessina Bolconski. Sta qui, a Voronesc, con la zia. Oh, oh! come ci siam fatti rossi!

    — Nemmen per sogno, vi pare?

    — O che forse?…

    — Basta, basta! Ah, cattivo arnese!

    La moglie del governatore lo condusse in presenza di una vecchia alta e corpulenta, in cuffia cilestre, che appunto avea finito di far la sua partita coi personaggi più importanti della città. Era la Malvinzew, zia materna della principessina Maria, ricchissima vedova stabilita a Voronesc. Stava in piedi e pagava il suo debito di giuoco, quando Nicola le fu presentato. Aggrottò le sopracciglia, lo squadrò e seguitò a pigliarsela con un generale che l’avea battuta alle carte.

    — Contentissima di conoscervi, mio caro, – disse stendendo una mano. – Venite a trovarmi, prego.

    Dette due parole a proposito della principessina Maria e rammentato il padre di lei (che non era, si vede, nelle grazie della Malvinzew), la vecchia severa s’informò del principe Andrea (anche questi non godeva le sue simpatie), e accomiatò Nicola, ripetendogli di farsi vedere.

    Nicola promise e tornò a farsi rosso. Il ricordo della principessina Maria gli destava dentro un senso d’impaccio, per non dir di paura.

    Salutata la vecchia signora, fece per tornare alle danze, ma la governatora, messagli una mano sulla manica, se lo trasse dietro in un salottino, dicendo di dovergli parlare a quattr’occhi.

    — Sai, amico mio, – incominciò con piglio serio e confidenziale; – questo qui è proprio il partito che ti ci vuole. Se consenti, combino io ogni cosa.

    — Che partito, zia?

    — La principessina… Vuoi? Tua madre son certa che mi ringrazierà. Una ragazza impareggiabile, sai! E non è poi tanto brutta…

    — Tutt’altro… Io, zia, da buon soldato, non brigo simpatie e non rifiuto niente, – disse Rostow senza troppo pesar le parole.

    — Sicchè, siamo intesi… Non si tratta mica d’uno scherzo.

    — Ma che scherzo!

    — Sì, sì… E poi senti, caro, tu, fra le altre cose, corteggi un po’ troppo quella biondina… Abbi almeno pietà del marito…

    — Ma no, vi pare, siamo amici! – esclamò di buona fede Nicola, non facendosi capace che di quel suo spasso non dovessero godere anche gli altri.

    «Ma che scioccheria m’è uscita di bocca!» pensò poi a cena. «La governatora vuol darmi moglie… sul serio. E Sofia?»

    E quando, nel prender congedo, si sentì ripetere:

    «Sicchè, siamo intesi!» prese un momento in disparte la buona signora, e le disse:

    — Ecco qua, zia…. Per confessarvi tutta la verità…

    — Che è? di che si tratta?… Vien qua, sediamo.

    Nicola fu subito preso da una voglia matta di versare nel seno di un’estranea tutti i più intimi segreti del cuore, che non avrebbe confidato nemmeno alla madre, alla sorella, ad un amico. Gli parve in seguito, quando gli sovvenne quell’accesso di franchezza, di avere obbedito ad un impulso casuale, di essere stato più sbadato che altro; eppure quell’accesso, insieme con altri incidenti, ebbe per lui e per tutta la famiglia enormi, incalcolabili conseguenze.

    — Ecco qua, zia. La mamma si strugge di farmi fare un ricco partito; ma a me, vedete, la sola idea di ammogliarmi per danaro, mi rivolta.

    — Ah, sicuro! capisco.

    — Ma la Bolconski, è tutt’un altro affare… Prima di tutto, vi dico francamente che mi piace molto, mi è simpatica, e poi anche, dopo essermi imbattuto in lei in condizioni così strane, più d’una volta ho pensato ai decreti del destino. Figuratevi, per dirvene una: la mamma ci ha sempre pensato, ma io non la conosceva nemmeno… Non so come, ma fatto sta che non ci s’era mai trovati insieme. E quando mia sorella Natalia era fidanzata col principe Andrea, non potevo certo pensare a quest’altra unione… Ebbene, mi toccò proprio di conoscerla, quando il matrimonio di Natalia andò all’aria… E poi, tutto… Già, ecco come stanno le cose… Io non ne ho

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