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L'ombra dell'inquisitore
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L'ombra dell'inquisitore
E-book634 pagine8 ore

L'ombra dell'inquisitore

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Info su questo ebook

«Avevo sessantadue anni quando Sua Santità mi nominò inquisitore. È un’età nella quale chi ha la sorte di raggiungerla tira le somme della propria vita. Si chiede cosa abbia fatto del tempo che ha avuto, se l’abbia usato da buon cristiano o l’abbia sciupato. A me invece venne affidato un compito che non ammetteva tentennamenti. Il papa mi chiese di agire. E da allora sono diventato un giudice di anime.»
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2017
ISBN9788863937183
L'ombra dell'inquisitore

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    Anteprima del libro

    L'ombra dell'inquisitore - Roberto Ciai

    ORME

    frontespizio

    Roberto Ciai - Marco Lazzeri

    1494 - L’ombra dell’inquisitore

    ISBN 978-88-6393-718-3

    © 2010 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    A Mario ed Elsa

    Prologo

    Alessandria d’Egitto, ii secolo a.C.

    La luce del sole si apriva nel cielo di agosto come la coda di un gigantesco pavone dorato, e spargeva sulle onde del Mare Verde migliaia e migliaia di lucciole che bruciavano e spostavano il loro bagliore all’unisono, pulsando eleganti sulle onde.

    Un calore terribile avvolgeva Alessandria, quel pomeriggio. Dal porto di Eunostos sino a ciò che restava del lago Mareotide a oriente della città vecchia, il riflesso era vivido e accecante. Lo sentivi entrare negli occhi anche attraverso le palpebre chiuse, raggio feroce di un antico dio infuriato.

    Incendiato dal soffio di quella fornace, il porto sembrava stranamente quieto, quasi addormentato. Nella darsena erano alla fonda numerose navi da carico egizie e una trireme greca, lo scafo dipinto con l’enorme occhio bianco fisso verso l’orizzonte. La nave beccheggiava pigra, tendendo a tratti la gomena dell’ancora con lo stesso scricchiolìo di cicala che si ascoltava giorno dopo giorno in ogni porto del mondo. Le vele erano arrotolate con cura e legate strette attorno all’albero. Un solo marinaio, il capo rasato e i fianchi fasciati di lino bianco, si muoveva in coperta con le poche energie risparmiategli dal caldo torrido. Altre piccole imbarcazioni la circondavano oscillando con lentezza, sfacciate remore che cingevano l’enorme squalo. Sollevavano qualche spruzzo, che si nebulizzava nell’aria e sembrava evaporare per il calore ancor prima che le gocce ricadessero nell’acqua. Sulla darsena, alcuni scribi riparati da larghi parasole prendevano nota delle merci, che riempivano ceste intrecciate di ogni dimensione.

    Gabbiani, bianchi come denti, immobili in cima ai pali d’attracco. Risacca che scopriva nastri verdi di alghe sui moli di pietra chiara. Odore salmastro. Le vele schioccavano al ritmo delle folate di vento. Dovunque, la silenziosa sinfonia del mare.

    L’Eptastadion, la via più grande, tagliava in due la darsena e si tuffava in acqua, segnandone per un lungo tratto la superficie, sino all’isola di Pharos. Qui, circondata da scogli aguzzi e guardata dalle enormi statue del re Tolomeo Filadelfo e della regina Arsinoe, la torre luminosa si innalzava per oltre duecentocinquanta cubiti. Il faro era un colosso di marmo e pietra dal candore abbagliante, che si diceva fosse visibile fin quasi dall’isola di Rodi, anche in caso di tempesta. A parte gli addetti al braciere, che vivevano per interi mesi all’interno dell’edificio, pochi altri uomini avevano avuto il privilegio e la forza di arrivare in cima, laddove ardeva il Grande fuoco. Raccontavano di essersi affacciati nel mezzo del cielo, la prospettiva di un dio: tutto minuscolo al di là di ogni comprensione. Navi come insetti neri e sottili capelli di strade, edifici quali il Mouseion e la leggendaria Biblioteca che avevano definitivamente sostituito l’Accademia e il Liceo di Atene nella cultura del tempo. Osservati da quell’altezza erano piccoli granelli di sale.

    Nella Biblioteca erano custoditi circa settecentomila volumi in rotoli di papiro, tutte le opere dell’uomo da Talete in poi, raccolte in anni e anni di paziente lavoro. Poco distante sorgeva il Soma, che conteneva il corpo tumulato di Alessandro il Grande.

    Dalla porta del Sole alla porta della Luna la città era percorsa dalla via di Canopo, anche in quel pomeriggio caldissimo affollata di gente che si muoveva senza sosta, vestita di un semplice gonnellino o di un pallion chiaro sulla pelle abbronzata. Schiavi reggevano piccole portantine di legno di papiro coperte da teli bianchi, dai quali sporgevano braccia scintillanti di monili. Muli carichi di merci battevano lentamente la polvere della strada, venditori di acqua ne offrivano mestoli che immergevano sensualmente in secchi di rame dalle superfici luccicanti. Grida, ordini, preghiere. Muggiti. Tintinnii di sonagli. E sopra ogni cosa, il sole. I raggi accecanti accendevano folgori sui muri candidi delle case snelle e lussuose del Brucheion e su quelle basse e goffe del quartiere ebraico.

    Qui le abitazioni erano bianchi blocchi quadrangolari con piccole finestre profonde, chiuse da tendali di cotone azzurro sostenuti da sottili bastoncini lunghi meno di un cubito.

    Affacciato a una di esse, immerso nella tenue atmosfera della luce ambrata che filtrava dal tessuto, un uomo anziano lasciava vagare gli occhi sul panorama e sulle meraviglie di quella città unica nel mondo conosciuto, nata secondo i princìpi geometrici della Città ideale di Aristotele. Sembrava godersi la snella calma della solitudine e aspettare con pazienza che il sole scendesse nei mari occidentali e nelle terre riarse di Cirene.

    L’uomo aspirava il gusto speziato delle foglie da lui stesso sapientemente seccate e sminuzzate, e al contempo si godeva il sapore di salsedine che saliva dal mare. Il fumo della pipa di canna si disperdeva lentamente nell’aria immobile, e diveniva all’improvviso invisibile una volta varcato il tratto che separava l’ombra dalla luce del pomeriggio, lasciando in eredità un odore piacevole.

    Il suo profilo aquilino e scavato era invecchiato da una lunga barba bianca venata di grigio. Indossava una tunica leggera dalle maniche ampie, scollata sulle spalle ossute e segnate dalla lunga esposizione al sole.

    L’attenzione rivolta allo spettacolo offerto da quella vista incantevole non gli impedì di sentire i passi che si avvicinavano dietro di lui, leggeri quel tanto che bastava a renderli quasi impercettibili. Aspirò un’altra volta, poi gli occhi affondarono in un sorriso pieno di gioia.

    «Zio Jethro! Zio Jethro!»

    Il vecchio si voltò verso la bambina e le accarezzò i capelli ricci e scuri, quasi fossero legna bruciata nel fuoco. La pelle era bruna, e gli occhi neri di giaietto. Assomigliava così tanto alla sorella che era tentato ogni volta di chiamarla Sara anziché Miriam.

    «Nipotina adorata, cosa vuoi dal tuo vecchio zio?» le chiese, gli occhi antichi ingioiellati dall’affetto.

    «Zio Jethro, sono arrivati. La mamma li sta facendo entrare.»

    Jethro la sollevò e lasciò che lo abbracciasse stretto attorno alla nuca. Le mormorò calde parole di tenerezza, col viso immerso nei suoi capelli profumati. Come si fa a non amare l’esistenza che riserva perle così inestimabili, e a non ringraziare il Signore perché ce le dona giorno dopo giorno? La vita è una collana di queste perle al collo di ciascuno di noi, pensava il vecchio.

    La bambina gli tirò la barba e tese il braccio, indicando con la manina. L’uomo tornò a rivolgersi verso la costa, fuori della finestra aperta, seguendo con lo sguardo il piccolo dito e socchiudendo gli occhi per il riverbero del sole sulla pelle lucida del mare. Da lontano si vedeva una vela, apparentemente immobile, come un coriandolo fermo nell’aria. Ma niente è davvero immobile, nella vita.

    «Bene» mormorò, col sorriso che moriva «comportiamoci da buoni padroni di casa, in nome dell’Altissimo.»

    Antefatto

    Granada, ottobre 1492

    Aprì gli occhi.

    Si spostò con lentezza vischiosa dall’incoscienza alla veglia, scalando passo dopo passo un piano inclinato di sofferenza. Acuminate falci di dolore si intrecciarono a brevi attimi di sollievo inaspettato. L’aria era immobile, quasi liquida, e respirare somigliava al galleggiare di notte in un lago, per lo sforzo disperato di tenere la bocca fuori dall’acqua.

    Tenebra su tenebra. Oscurità accatastata su altra oscurità. Poi i colori di ricordi lontani si sovrapposero al nero, e crearono immagini distorte, angosciose e disperate. La memoria tornò a segmenti ossessivi, simile a qualcosa che si osserva correre dietro una grata senza poterne distinguere bene i contorni.

    Da un angolo della mente riecheggiava la lettura dei verbali, declamati dal notaro ad alta voce durante il processo.

    Die quarto mensis Junii lo si prelevò, accusato di svolger mandato di israelita non pentito. Ministri duxerunt eum ad locum tormentorum.

    Un groviglio di dolori diversi, tutti roventi e stretti da lacci indissolubili a ogni piccola parte del suo corpo. Così intensi da superare spesso i confini biochimici delle terminazioni nervose, laddove il corpo di un uomo non sente più sofferenza.

    Eodem die domini mandarunt eum elevari, e venne sollevato e appiccato colle braccia de retro al dorso.

    Le spalle slogate gli consentivano soltanto movimenti disarticolati. Non sentiva più le catene che lo avevano imprigionato agli anelli murali, ma è povera consolazione una libertà della quale non si possa in alcun modo godere.

    Sono ancora vivo, si ripeteva cento e cento volte, i pensieri che si torcevano come donne in travaglio. Sono ancora un uomo, nonostante tutto. Ho la dignità di un uomo e non la perderò per nessuna ragione al mondo, qualunque cosa accada. Non permetterò loro di umiliarmi anche mentalmente, dopo avere distrutto il mio corpo.

    Strapparono di nuovo con la corda ch’entrò nei polsi e disvelava viva la carne delle braccia del condannato. Tormentato quaranta ore di funicelli usque ad ossa e in tormento predicto infine a la carne viva che molta poi n’uscì pesta e infracidata.

    Abbandonato su un pagliericcio, avvertiva il fetore nauseante dei propri escrementi.

    Viginti testes confermarono che elli non tiene ne le stanze imagines Christi, o della Vergine o di alcuno dei Santi venerandi.

    Ogni respiro era un vetro rotto che sfregava sul petto. Ne sentiva le fiamme salire e scendere lungo la trachea.

    Ab eo non dicitur Gloria Patri, Filio, Spiritui Sancto ma soltanto Gloria Patri.

    In bocca il sapore ferroso del sangue.

    Mangia carne di venerdì e la Settimana Santa. Non si comunica e non dicit orationes sed movet oram. Osserva il riposo del sabato.

    Ne sputò in terra una boccata.

    A poco a poco l’oscurità sbiadì. Pian piano gli occhi si abituarono alla penombra e tornò lentamente a vedere intorno a sé. Non molto, in realtà, ma quanto bastava per completare un mosaico di terrore.

    Di sabato i camini della sua casa non sono visti fumare. Di sabato non lo si vede uscir di casa.

    In alto scorse una volta.

    Visus est linteum¹ mutare a l’imbrunire del venerdì.

    Intorno a sé mura e ferro.

    Atque pulsata prima hora noctis il condannato a li ministri ripeteva «ho sete» et minister ei dicebat «dapprima rivela nomina aliorum judaeorum». Et postea sottoposto ad machinas.

    A sinistra intravide gli ultimi gradini di una rampa di scale, fiocamente illuminati dalla fiamma di una torcia, nascosta dalla parete.

    Post hora sexaginta, cum minister aliud ab eo habere non potuit, lor signori dichiararono che si desse termine a la sessione e si decisero a che fosse levato finemente dal supplizio, così venne comandato si dessero medicamenti per fratture e slogature. Atque mandarunt ipsum reponi in locum suum, e fu portato in cella.

    Al di sopra, la debole penombra rivelava una piccola finestra a bocca di lupo protetta da una griglia di metallo. Il pavimento declinava verso un’apertura circolare posta esattamente al centro della stanza, dove venivano convogliati acqua e fluidi. Il vecchio ora distingueva, poggiato lungo la parete alla sua sinistra e fiocamente illuminato da due candele poste alle estremità, un tavolo coperto da un panno. Dietro di esso, alcuni monaci vestiti con sai neri sedevano rigidi, i volti invisibili, velati da cappucci bordati di tessuto bianco.

    A poco a poco riusciva a riconoscere, sempre più precisi, i contorni degli oggetti attorno a sé, e non c’era da esserne confortati.

    Et postea sottoposto ad machinas.

    Macchine.

    Meccanismi. Corde, pulegge, morse, carrucole, travi incrociate, ingranaggi.

    Inferno governato da sostanze elementari. Metallo e fuoco.

    Un chiarore pulsante circondava la bocca di un barile, nel quale erano poggiate le impugnature di attrezzi sconosciuti. Un grande serpente nero pendeva dal soffitto, legato alla parete con un gancio, le sue spire composte da anelli che si perdevano in alto, nell’oscurità: una catena.

    C’era anche qualcosa che somigliava a un sarcofago verticale aperto, dalla sagoma rozzamente umana. All’esterno, sulla sommità, un viso femminile di metallo guardava nel buio con occhi senza pupille. Dentro di esso si scorgevano lame acuminate sporgere dalle pareti come gli aculei di un istrice.

    «Quella è la Mater dolorosa» sentì dire.

    La voce sembrava uscire a filamenti dagli invisibili interstizi dei muri fatti di pietre grezze. Con strazio volse il capo, l’arteria gonfia a cavallo dei muscoli tesi sotto la mascella.

    «Il nome ha un senso, in realtà. Si viene chiusi all’interno e se ne esce partoriti nel dolore. Ma, con minore fantasia, è anche chiamata la Fanciulla di ferro. E non devo spiegarvene il motivo.»

    Era un monaco. Un domenicano. Anziano, sulla settantina. Viso parzialmente immerso nell’ombra del cappuccio. Naso dritto e sottile. Alto e magro, severo, con il portamento nobile di un falco. Il saio era nero con l’ampio scapolare bianco, senza fregi. Soltanto un crocifisso al centro del petto. Le lunghe mani erano glabre, le dita intrecciate sotto i risvolti delle maniche. Duro nell’aspetto e asciutto come il vento del deserto.

    Doveva essere nascosto nell’ombra da chissà quanto tempo, a osservarlo quasi fosse un animale chiuso in gabbia. Della bestia si studiano i movimenti e le reazioni. Si analizza il comportamento istintivo senza essere visti, perché l’osservatore osservato altera inesorabilmente il comportamento della preda.

    Avvicinò la torcia al viso, tanto che l’altro potè sentirne il calore vivido e confortante diffondersi sulle tempie, correre sino alla nuca lungo i tendini.

    «Rabbi, se solo percepiste il dolore che mi provoca farvi soffrire in questo modo, forse riuscireste a perdonarmi.»

    L’altro tossì tra le costole spezzate. Il volto cinereo. Le palpebre tremarono, prima di socchiudersi.

    «Il perdono è una prerogativa cristiana, ancor più che ebraica» mormorò ansimando.

    Il frate sorrise amaro.

    «È vero. Così dicono. Ma spero che possiate parlare al più presto, in modo che questi tormenti abbiano fine. Veder soffrire un uomo quale voi siete mi addolora.»

    «Non dirò alcun nome, signore. Potrete fare del mio povero corpo quel che vorrete. E ciò che andrò a rivelare sotto tortura verrà proferito causa furoris aut infirmitatis, per sola follia o incoscienza.»

    Il frate masticò un sospiro e si voltò verso un uomo corpulento, il viso celato da una maschera di metallo, in piedi dietro di lui.

    «Allora purtroppo dovremo proseguire» disse con rammarico sincero. «Mostrate ancora una volta le macchine.»

    Le fiammelle dipingevano sulle pareti ombre giganti. L’uomo annuì e si avvicinò. Indossava un grembiule di cuoio macchiato, lungo quasi fino a terra.

    «La forchetta...» recitò con voce piatta il carnefice, indicando un meccanismo che somigliava a un enorme insetto. Sfiorò con piacere quasi sensuale la cinghia di cuoio, legata a due acuminate forcelle di ferro contrapposte che andavano fissate sotto la gola, impedendo alla vittima di muovere la testa in qualsiasi direzione e, soprattutto, di addormentarsi nell’ordalia del sonno senza essere sgozzata.

    «... Il disco di Norimberga...» proseguì, toccando un piatto metallico.

    Nell’aria, le parole risuonavano forti e precise, secondo le prescrizioni procedurali. Un servente avvicinava la torcia a ogni meccanismo che veniva indicato, così da illuminarlo e renderlo perfettamente visibile.

    «... La culla di Giuda...» enunciò monocorde la voce, distorta dalla maschera. La luce rivelò i contorni di una piramide di bronzo, con la superficie segnata da lame e chiodi, costruita per essere inserita nell’ano e dilatata tramite un meccanismo di espansione. Qualcuno dei presenti non resse alla suggestione e infranse la regola del silenzio, lasciando sfuggire un gemito soffocato.

    «Tacete!» ordinò il notaro. Era un uomo basso, con un’incipiente calvizie, grasso come un’oca e con le stesse proporzioni tra testa e corpo.

    «... La cicogna di storpiatura...» riprese il carnefice, dopo qualche istante.

    Il frate rabbrividì, egli stesso emozionato e turbato. Era un inquisitore, deputato a condurre senza incertezze la lotta contro l’eterodossia, la verità differente. Lo scopo della sua vita era quello di ricondurre l’uomo sulla strada della Chiesa, eventualmente sacrificando il corpo, ma salvando lo spirito. Perché la carne che si contorce sul rogo si corrompe e muore nel fuoco, ma l’anima sale al cielo nelle ali grigie del fumo, spinta verso Dio dalle grida e dai lamenti.

    Sto diventando troppo vecchio, Signore.

    Il cuore fermo della gioventù oggi era corrotto dal verme della compassione. L’indulgenza scavava gallerie di commiserazione nella sua mente. Mai prima di allora era stato così prossimo a rinunciare al suo compito. Quel povero vecchio giudeo era soltanto un uomo distrutto, il viso gonfio, le dita contorte. Si sforzò di non guardarle, allontanando la pietà. Comprendeva, con un misto di angoscia e sollievo, che le emozioni stavano avendo il sopravvento sulla freddezza impostagli dal suo ruolo. Quelle emozioni che erano la pietra sepolcrale per il compito di un inquisitore.

    «... Il cavalletto...»

    Non era stata versata una goccia di sangue. Ecclesia abhorret a sanguine. Questo significava che la tortura andava arrestata citra sanguinem, prima che ne fuoriuscisse anche una sola stilla. Qualora si fosse pervenuti al sanguinamento, la sessione avrebbe dovuto essere interrotta per dare sollievo al suppliziato e per sostituire il carnefice di rango ecclesiastico con uno appartenente al braccio secolare.

    Ogni seduta era necessariamente preceduta dalla minuziosa descrizione degli attrezzi di tormento, perché la vittima sapesse a cosa sarebbe andata incontro in caso di reticenza.

    La tortura aveva sempre goduto di un rispettabile lignaggio nella storia della Chiesa. Girolamo e Pietro Lombardo l’avevano considerata un nobile artificio per la ricerca della verità. Tommaso d’Aquino aveva addirittura scritto che uno dei piaceri degli eletti in Paradiso doveva essere guardare dall’alto i tormenti inflitti ai dannati.

    «... La sedia inquisitoria...»

    Il frate si voltò.

    «Sufficit!» ordinò bruscamente.

    Il boia tacque, colpito da una frustata in pieno viso. Un comando dell’inquisitore faceva tremare anche il carnefice. La Santa inquisizione era uno spettro temuto da chiunque, anche dagli stessi religiosi.

    Il frate piegò un ginocchio e avvicinò il capo all’ebreo.

    «Rabbi, ditemi i nomi, ve ne prego. Altrimenti sarò costretto a portare qui uno dopo l’altro tutti i membri che sospetto essere della vostra comunità e a infliggere loro gli stessi tormenti che voi avete sofferto. Rivelatemi chi sono gli ebrei impenitenti. Ho bisogno di conoscere i nomi di chi ha falsamente abiurato la vostra heretica pervicacia e ha finto la conversione al Cristo, per poi persistere nel proprio peccato. Voglio sapere chi è colui che prosegue nelle liturgie dei padri, chi si riunisce nelle cantine per leggere i libri vietati. Ho saputo dell’esistenza di gruppi di persone che si ostinano, qui a Granada, a celebrare gli antichi riti, a rispettare le prescrizioni proibite, a circoncidere in segreto gli infanti. Vi prego ancora una volta. Non costringetemi a fare ciò che non vorrei.»

    L’ebreo respirò rumorosamente tra i denti spezzati.

    «Abbiate il coraggio di guardarmi, frate. Oh, no, non negli occhi. Nell’anima» bisbigliò. «Ecco, ora sapete che non vi dirò nulla. Non potrei presentarmi di fronte a Dio con questo peso sulla coscienza. Voi siete un uomo di cultura e dignità. Sforzatevi di capirmi.»

    «Posso capirvi, vecchio. Non crediate che questo saio nero nasconda un’anima dello stesso colore» disse affranto. «È un comportamento che vi fa onore, ma vi condanna. Non posso assecondarvi.»

    «Perdonatemi, signore» intervenne il notaro con deferenza, lasciando il suo banco sul quale erano poggiati numerosi rotoli di pergamena e un enorme libro rilegato in cuoio, con impresso il simbolo della Suprema, l’Inquisizione di Castiglia. «Se parlate a bassa voce non riesco a comprendere cosa viene detto. Sapete bene che il mio compito è quello di trascrivere ogni parola pronunciata in questa cella, e ho bisogno di ascoltare tutto.»

    Teneva una penna nella mano sinistra, sospesa con grazia. Aspettava una risposta che non arrivò. Il frate non lo degnò di uno sguardo.

    «Rabbi, vi prego» insisté.

    L’ebreo scosse lentamente il capo.

    L’inquisitore sospirò, gli occhi lucidi.

    Perché? Perché ancora questo? Non finirà mai, mio Dio? Eppure, se questa è la tua volontà, così sia.

    «Farò condurre tutti in questa cella» gli sussurrò «i vostri parenti, gli amici, le donne. Trascinerò qui i vecchi, gli storpi, tutti i bambini, anche i neonati. Coloro che vengono allattati succhieranno i capezzoli delle madri straziate. Tutti quelli che conoscete, rabbi. Dal primo all’ultimo. Finché ogni spazio tra queste mura sarà colmo di braccia, di gambe, di mani, di occhi disperati. E ciascuno di loro soffrirà, ciascuno piangerà. Moriranno. Volete davvero questo?»

    Il giudeo strinse le labbra. Tutti quelli che amava. Il vecchio Beniamino. E Miriam, sua figlia tredicenne. Abraham... E Josia. E Jacob.

    No. Non il piccolo Jacob.

    E decine di altri.

    "No." «Aspettate» mormorò aggrappandosi alla stoffa del saio. «Lasciatemi morire senza vergogna e vi darò comunque qualcosa in cambio.»

    «In cambio? E cosa potete offrirmi che valga altrettanto, vecchio?»

    «Qualcosa che può interessarvi molto più della vita di pochi giudei. Una cosa perduta.»

    Il frate scosse il capo, soffiando aria dalle narici.

    Una cosa perduta.

    Era un tentativo disperato, e lo sapeva. Il terrore e lo scoramento portano l’uomo a supplicare e implorare vanamente.

    «¡Fuera! Ahora mismo. ¡Todos!» urlò, guardando davanti a sé.

    Il notaro lo fissò stupito.

    «Signore, permettetemi di dissentire» protestò con voce penetrante, cercando il coraggio necessario a contrastare apertamente la decisione. Il sudore gli lucidava il viso e la fronte spaziosa. Le parole uscirono dalla bocca con lo stridore della paura. «Io non posso uscire di qui. Io devo assistere a ogni udienza o sessione di supplizio per redigere i verbali. Ed è prescritta la presenza di testimoni, che quei verbali dovranno sottoscrivere. Quel che ordinate è assolutamente contro le regole.»

    «Lo so.» La voce del frate aveva la consistenza del ferro. «Le regole le ho scritte io. Sono miei tutti i ventotto articoli del Codice, sappiatelo. Ma ho anche il potere di gestire il procedimento nel modo più consono alla salvezza dell’anima di quest’uomo, e al bene della Chiesa. E per questa finalità superiore posso ragionevolmente modificare i precetti procedurali.»

    «Ma almeno la redazione dei verbali d’interrogatorio deve essere eseguita» insisté il notaro mostrando i palmi aperti. «Chi annoterà le circostanze e le parole che verranno pronunciate, se uscirò di qui? Il processo perderà valore legale. Sarà tutto quanto tamquam non esset, assolutamente non valido.»

    «Il processo non perderà alcun valore. Sarò io stesso a completare i verbali in seguito, subito dopo il termine della sessione.»

    «Voi? Ma è irregolare, signore. Spetta a un membro della mia corporazione e a nessun altro.»

    Il frate raddrizzò le spalle. Troppo facile.

    «State forse sostenendo che il mandato all’Inquisizione di Castiglia e Aragona, conferito dallo stesso pontefice, è subordinato al consenso della vostra corporazione? Che l’autorità della Chiesa è condizionata dal benestare di una gilda laica di mestieri? Se così fosse, avreste appena bestemmiato. E dunque» concluse con un leggero sorriso, che non riuscì a trattenere «dovrei farvi immediatamente arrestare.»

    Il notaro impallidì. Qualcosa si spezzò come un piccolo ramo. Era la sua voce.

    «No, signore. Non intendevo. Vado. Vado immediatamente» una chiazza di urina si allargò tra le gambe e gli incollò la veste alle cosce. Balbettò qualche altra parola incomprensibile e si allontanò.

    Il frate si voltò: «Ora uscite. Tutti» ripeté.

    I monaci si guardarono, confusi. Non era mai accaduto. Incredibile. Fili invisibili di occhiate interdette si incrociarono sopra le fiamme dei ceri. Nessuno osò parlare. Se avessero potuto, avrebbero addirittura evitato di respirare. Lasciarono il lungo tavolo in silenzio e uscirono uno dopo l’altro con attenzione palpabile a evitare anche il semplice rumore dei passi.

    L’inquisitore si chinò sull’ebreo. Erano rimasti soli nella cella vuota.

    «Ora parlate.»

    Il vecchio spalancò gli occhi, che davanti al fuoco brillarono di luce cupa quasi fossero due frammenti di cristallo nero.

    «Giurate. Giuratemi che la mia gente non correrà pericolo.»

    «Questo andrà valutato a seconda di ciò che avrete da dirmi. Se davvero sarà qualcosa di importante per la Chiesa, li aiuterò. Posso darvi la mia parola che giudicherò con equità. Iddio mi è testimone.»

    L’ebreo chiuse gli occhi. L’oscurità, d’un tratto, sembrò un lago tiepido pronto a lasciarlo galleggiare con serenità. Il Signore, sia lode al Suo nome, gli consentiva di non sprecare la morte.

    Primo giorno

    Sangue a Lucca

    La penna sembrava un piccolo serpente scuro appena strisciato fuori dal bordo di cuoio del registro catastale dei terreni.

    La stanza era scarna, come si addiceva a un funzionario delle gabelle della Repubblica di Lucca. Le consunte tavole di legno del pavimento scricchiolavano al minimo passo, le pareti una volta bianche erano ora color cenere, annerite dal fumo maleodorante delle candele di sego. Accanto al crocefisso, un unico quadro ricoperto da una patina di sporco antico che aveva quasi del tutto nascosto l’immagine di un santo, inginocchiato con le braccia aperte e i palmi delle mani rivolti verso Dio. Tutti i santi pregano sempre nella stessa posizione, come soldati disciplinati di un esercito bizzarro.

    Devo lavorare, continuare a lavorare.

    Ermete si rivolse al santo con lo sguardo distratto, rannuvolato da una vernice di tristezza.

    Due giorni fa lo aveva fermato per strada un’anziana donna.

    «Messere Dei Mazzei, messere, ascoltatemi, vi prego. Siamo in rovina, dovete aiutarci. La terra. Mio genero morto.»

    Le mani tenevano il velo fermo sul capo. Mani dure, torte. Di contadina.

    «Mi riconoscete? Mio marito, Dio l’accolga con sé, è stato alle dipendenze del vostro babbo per tanti anni. Quando i figlioli sono cresciuti, con i miseri risparmi di una vita ha deciso di acquistare della terra entro le Sei miglia, al confine della Vicaria di Moriano. Pochi iugeri, ma sufficienti per i nostri bisogni e per allevare qualche maiale.»

    Si interrompeva, si guardava intorno, abbassava la voce. Un’ombra le era passata sul viso come se il sole avesse improvvisamente cambiato di posto nel cielo.

    «Poi sono cominciate le disgrazie. Mio figlio grande se n’è andato per le febbri, il figlio piccolo è morto nell’ultimo scontro coi fiorentini. Poco dopo il mi’ marito se l’è portato via il cielo dopo una vita di triboli e dolori. Così siamo rimaste solo tre donne, le mie figliole e io. La più grande si è sposata quattro mesi fa con un giovane dabbene, volenteroso, che si è preso cura del terreno. Giorno e notte, giorno e notte sul campo, senza conoscere domeniche. Con noi dietro ad aiutarlo, a falciare il fieno, a seminare, ad accudire gli animali. Sono quattro giorni che è morto pure lui, dicono per un incidente. Disgrazia su disgrazia.­»

    Una leggenda racconta che le lacrime siano la minaccia di Dio, volta a ricordare agli uomini il pericolo di venir annientati con un nuovo diluvio universale. La goccia aveva brillato alla luce del sole sul volto segnato dalle rughe. Dal grembiule aveva preso un fazzoletto sporco e si era asciugata gli occhi.

    «Ma io non ci credo, signore. L’hanno trovato vicino al ruscello con la testa rotta. Dicono che ha messo il piede in una buca, è scivolato sul pendio e lì in fondo ha battuto il capo su un sasso nell’acqua.» Si era agitata per gonfiare il senso delle sue parole. «Ma in quell’angolo del campo non ci andava mai nessuno. Non ce n’era motivo, le bestie le teniamo in una capanna da tutt’altra parte, le coltivazioni finiscono parecchio prima del pendio. Per irrigare non utilizziamo mica l’acqua del ruscello, abbiamo scavato un piccolo canale.­» Il tono della voce si era abbassato, diventando un sussurro. «Sapete chi l’ha trovato il mi’ povero genero? I braccianti del signore Torregiani, il terreno al di là del ruscello è suo. E sapete ieri sera cosa è successo? Noi piangevamo e ci disperavamo, e intanto è venuto lullì², col suo bel mantello rosso e il suo bel cappello con la piuma e ci ha raccontato che ci voleva aiutare. Vendetemi il terreno, ha detto, vendetemi il terreno, però voi potete continuare ad abitarci fino a quando non vi sistemerete altrove, vostra figlia piccola può venire a servizio da noi. Vi farò un buon prezzo, ci ha detto. Capite? L’ha fatto ammazzare per prenderci la terra. Ora chi aiuterà delle povere donne?»

    Il fazzoletto di nuovo nel grembiule. Aveva guardato Ermete con speranza, il pane secco dei semplici.

    L’uomo le aveva poggiato una mano sul braccio.

    «Donna, non sono io che vi posso aiutare. Andate dal bargello. Io mi occupo di tasse, non sono una guardia. Vorrei esservi utile, ma non è in mio potere. Ora vi prego, lasciatemi andare.»­

    Ermete poi si era voltato e si era allontanato senza salutare. Poteva sembrare alterigia, ma era impotenza. L’otre di rabbia che questa gli versava dentro si faceva acido nella sua gola. Le spalle erano cariche dello sguardo deluso della donna.

    Ora cominciava a fare meno freddo nella stanza disadorna.

    Il primo sole primaverile di quella mattina di maggio dell’anno domini 1494 entrava di sbieco dalla finestra e illuminava il vecchio tavolo appesantito da registri, mappe catastali, fogli di carta colmi di cifre, appunti disordinati. I petali scuri delle macchie d’inchiostro.

    Ermete Dei Mazzei era il più giovane dei sei consiglieri dell’uffizio delle Entrate della Repubblica di Lucca. La sua famiglia apparteneva al nucleo di piccoli latifondisti del contado, possedeva terre coltivate e allevamenti, ma lui aveva sempre saputo che le proprietà, dopo il padre, sarebbero state ereditate dal fratello maggiore.

    Ermete aveva studiato dai frati, e con buona istruzione e un buon nome potevi fare carriera nella città. Era stato soldato della Repubblica e aveva combattuto sulle montagne delle Vicarie contro briganti, contrabbandieri e soldati fiorentini, quando questi si erano affacciati al confine. Scaramucce, in realtà. Ma sangue se n’era versato in abbondanza. Molta erba rossa era cresciuta sotto i cadaveri.

    Non aveva mai permesso al padre di pagare il dazio per evitargli la divisa, come aveva invece fatto volentieri per il fratello maggiore.

    Sì. Sono un uomo terribile. Ma vorrei essere soltanto un uomo. Anzi, non vorrei essere niente.

    Quella povera donna. Vittima della violenza come infiniti altri povericristi in quelle terre dure, in quegli anni malagevoli. Storie di brutalità e ferocia, senza speranza.

    Possibile che solo gli indigenti e i deboli debbano sempre pagare?

    Ogni ducato del ricco veniva coniato graffiando le ossa di povera gente.

    Voglio vedere bene questi registri catastali, voglio controllare gli acquisti di terreni. Ecco. Non sembra che si sia mai interessato né all’acquisto né alla compravendita di fondi. La sua famiglia si occupa di commercio, non di terre.

    Però.

    Da circa un anno compra, prima venti iugeri, poi quaranta e poi ancora trentacinque.

    Novantacinque iugeri.

    Dove sono queste terre? E cosa ne fa un mercante?

    Ermete era concentrato sulle carte e non si accorse che una guardia aveva aperto di scatto la porta senza bussare.

    «Messer Dei Mazzei, venite con me, presto! Richiedono la vostra presenza il Capitano di Città e gli Anziani. Hanno trovato il corpo di uno di loro. Fate presto! Devo condurvi all’Anfiteatro.»

    Il tempo di fermare la lettura, alzare la testa verso la parete di fronte e ruotarla verso l’uscio. Il messaggio era stato riferito e terminato.

    «Che hai detto?»­

    «Venite con me, presto, hanno ammazzato uno importante.»­

    «Vai a dirlo al tuo capitano. Cosa vuoi da me?»­

    «È il capitano che mi manda da voi. È insieme agli Anziani.»

    «Gli Anziani? Che dici? Gli Anziani sono sempre occupati a litigare tra loro.»­

    L’uomo lo guardò implorante: «Messere, lasciate che esegua l’ordine del mio superiore. Altrimenti mi farete passare un brutto momento».

    Ermete sospirò.

    È una giornata calda.

    Il mantello poteva restare appeso a far compagnia all’immagine del santo triste.

    I due scesero le scale di marmo, uscirono dal Palazzo di Città e si recarono a passo svelto verso via Fillungo. Andarono a piedi, perché nel tempo di un rosario Lucca si attraversa tutta da porta a porta, e loro avevano ancor meno strada da percorrere.

    La città era cinta per intero da un torace possente di mura che la difendeva dalle minacce dei nemici della Repubblica. Le vie principali ripetevano, allungandolo, lo stesso antico tracciato della croce formata dal cardo e dal decumano dell’antico castrum romano. Via Fillungo era il cardo.

    L’attività lungo la strada era rumorosa e ingombrante per chi l’attraversava. Barrocci carichi di merci e alimenti condotti lentamente da muli. Giovenche e cavalli da tiro procedevano incolonnati a breve distanza uno dall’altro quasi fosse giorno di mercato. Via Fillungo era dritta per un lungo tratto ma stretta, e quando incrociavano un carro proveniente dal senso opposto rallentavano per non urtarsi tra loro e per scansare i passanti.

    I banchi occupavano ampi rettangoli di strada, gettando ombra sulle lastre di pietra grigia levigata, segnata dall’incedere delle ruote e lordata dagli escrementi degli animali.

    Frastuono di zoccoli, di metallo. Voci che si alzavano, si fondevano, riverberavano sulle pareti esterne degli eleganti palazzi, un po’ annegate e un po’ accresciute dal baccano dei filatoi, delle macine, dei martelli, dei laboratori che si affacciavano sulla strada al piano terreno.

    Ermete smarrì il filo dei suoi pensieri: il baccano e il movimento lo disorientavano.

    Non era così in battaglia.

    Poi il laccio del dolore si strinse soffocante sulla sua gola.

    Non era così quando c’era lei.

    Allorché terminava il tracciato romano, la via piegava bruscamente, segno evidente di tempi più disordinati. Arrivarono a uno spiazzo da dove si intravedeva il campanile della chiesa di San Frediano, voltarono a destra e imboccarono una strada tortuosa. Rapidamente il frastuono diminuì, diventando un sottofondo opaco. Avvertivano soltanto ora il rimbombo dei loro passi sul selciato.

    Poco distante, a sinistra, assorbito col passare dei secoli dalle mura della città, sorgeva un tempo l’imponente anfiteatro romano, capace di contenere diecimila spettatori. Ne restava qualche tratto di muro esterno, e in quel muro il carcere cittadino. I rivestimenti di marmo, le statue, i gradoni di pietra erano stati depredati e utilizzati come materiale da costruzione per nuovi palazzi. Nello spazio che una volta aveva ospitato il terriccio bruno dell’arena si alzavano povere case abitate da agricoltori che solo qualche anno prima erano diventati cittadini, ma avevano mantenuto minuscoli orti.

    La guardia guidò Ermete proprio verso quelle case. Una piccola folla ben vestita parlava animatamente. Qualcuno li vide sopraggiungere, avvertì gli altri e tutti si voltarono verso di lui.

    Un manipolo di armati teneva lontani i curiosi. Superato lo sbarramento delle guardie Ermete si fermò confuso. I più importanti rappresentanti della Repubblica di Lucca erano lì. Il gonfaloniere di Giustizia in carica, il capo del Consiglio dei Nove, che lui conosceva bene. Almeno altri tre Anziani, che si muovevano a proprio agio nei loro sfarzosi vestiti.

    Il gonfaloniere si avvicinò a Ermete.

    «Eccovi finalmente! Guardatevi attorno, fatevi raccontare quello che è successo e poi raggiungetemi a Palazzo.»

    Detto ciò si allontanò, attraversò velocemente il gruppo di maggiorenti, salì sulla carrozza che Ermete non aveva ancora notato e partì, seguito dalla scorta e dagli altri Anziani.

    Si avvicinò il bargello di Città. Lo guardò, sembrava contrariato.

    «Signore» chiese Ermete «avete molti uomini ai vostri ordini che si occupano di omicidi. Cosa volete da me?»

    «Fosse per me, proprio nulla. Io eseguo gli ordini. Fate quello che vi è stato chiesto e io farò altrettanto­.»

    «Chi è il morto?­»

    «Uno degli Anziani in carica del terziere di San Paolino. Il suo nome è, o meglio era, Giacomo Scolario.»­

    «Non mi è nuovo. È comunque forestiero, il cognome non è di queste parti.»

    Il bargello ebbe un gesto d’insofferenza.

    «So solo che era un mercante ricco e rispettato, sposato alla figlia del vecchio Balbani» disse con una smorfia. «Ma ora, consigliere, bando alle chiacchiere, ho molto da fare­. Vi lascio il caso.»

    Detto questo si voltò di scatto, appoggiò la tozza mano sull’elsa della spada che pendeva al fianco e si diresse verso i suoi uomini. Abbaiò qualche ordine, poi si rivolse ai pochi curiosi rimasti.

    «Buoni a nulla, perditempo, tornate alle vostre cose. Questo non è il circo, non è roba di saltimbanchi. Via, via!»

    Gente comune si accalcava, spinta dalla curiosità. Donne con lunghi grembiuli, contadini con sacchi di grano poggiati accanto ai piedi, quattro monaci incappucciati, artigiani e manovali che facevano capolino dagli usci delle botteghe. Qualcuno osservava alla finestra tra gli scuri accostati, il viso nella penombra. All’udire quell’ordine, nonostante il desiderio di sapere, tutti si dileguarono alla svelta.

    Ermete guardò la facciata della casa. Gli ispirava malinconia.

    Aveva l’aspetto di un teschio. Le finestre erano orbite vuote senza vetri né persiane, i coppi del tetto sconnessi. Si intravedeva una rada trama di travi annerite. Un livido di umidità sfigurava l’intonaco.

    Il portone era la gola scura di quel teschio. Le due imposte di legno grezzo e marcito si sforzavano di restare accostate.

    Ermete salì un gradino di pietra e spinse l’anta della porta, che invece di ruotare rovinò sul pavimento di mattoni rossi sollevando una nuvola di polvere bianca.

    Il corpo si intravedeva, steso su un fianco. Il torace e la testa erano pietosamente coperti da un sottile mantello di seta nera. Tutto intorno arabeschi di sangue. Ermete scostò il mantello e osservò il volto di un uomo di circa quarant’anni che sembrava volersi riposare dopo una giornata di fatiche. Ma i vestiti che indossava raccontavano un’altra storia. Scarpe basse di vitello con fibbie di metallo, calzamaglia rossa coperta all’altezza del ginocchio da pantaloni marroni. Un bel farsetto di seta bordato di raso color oro e bottoni d’osso lavorati e intarsiati, l’abbigliamento ricercato di un ministro della Repubblica.

    Un uomo che la mattina del suo ultimo giorno di vita si era allontanato dal Palazzo senza il mantello giallo d’ordinanza, ma con indosso uno nero usato per camuffarsi. In un’ora o due sarebbe stato dentro una cassa inchiodata. In un mese non sarebbe stato più nulla.

    Per legge gli Anziani in carica non potevano lasciare il Palazzo. Doveva essere perciò uscito presto, prima dell’alba, al buio. Aveva eluso o corrotto le sentinelle ed era andato incontro al suo destino.

    Le scarpe erano pulite. Non aveva attraversato le mura, non aveva percorso campi, e quindi le sentinelle alle porte non avevano certamente visto nulla. Alle mani risplendevano due anelli preziosi, uno con un sigillo, l’altro con un grosso rubino. Chi l’aveva colpito non l’aveva derubato.

    Gli assassini erano stati perlomeno due. O forse tre: due lo avevano afferrato per le spalle e il terzo l’aveva ucciso.

    Ermete osservò il mantello e il dorso dell’uomo. Sulla schiena le ferite erano contornate dai bordi sfilacciati dei tagli nel farsetto. Quattro tagli netti vicini tra loro, lordati di sangue rappreso, causati da una lama. Pugnale di sicario abile e veloce.

    Il farsetto era sbottonato. Le tasche vuote, qualcuno probabilmente vi aveva già frugato. La pozza di sangue sotto il cadavere era ancora in parte non coagulata e seguiva il profilo del corpo. Scolario forse era già morto quando era stato adagiato sul pavimento, perché non sembrava che nell’esalare l’ultimo respiro avesse tentato di muoversi.

    Un leggero ma persistente senso di nausea avvisò Ermete che l’esame doveva finire rapidamente. Non c’erano altre ferite o abrasioni e l’aderente calzamaglia era integra.

    Riprese il mantello nero e, come un sudario di lusso, lo poggiò delicatamente sul cadavere lasciando che ne prendesse la forma.

    Povero diavolo.

    Avviandosi verso l’uscita notò sul pavimento gocce di sangue calpestate. Accelerò il passo.

    Il bargello era sulla via con le mani ai fianchi e le gambe divaricate.

    «Che cosa dici?»

    Il tono della voce era talmente incolore da non lasciar trasparire alcuna emozione.

    «Dico che è morto.»­

    Ora il rosso dei capelli sembrava rovesciarsi sul viso duro del bargello come vino da una brocca. Le mani si chiusero a pugno e poi un dito tozzo e unto minacciò Ermete, dritto a un palmo dai suoi occhi neri.

    «Imbrattafogli dei miei coglioni, te lo dico io che è successo! Proprio qui dietro c’è un bordello. Il ricco signore è andato a scaricare la verga, di nascosto alla sua sposa che sa che lui è chiuso nel Palazzo. Ha bevuto molto, ha fottuto la puttana sbagliata o ha disturbato il porco sbagliato e poi l’ha pagata cara. Si è svuotato davanti di seme e dietro di sangue!­»

    Ermete si voltò per andarsene.

    «Aspetta un attimo, stronzo. Sai cos’è questo?» gli chiese mantenendo l’indice dritto di fronte al suo viso.

    Ermete lo guardò con attenzione, indifferente all’insulto. Attorno al dito era attorcigliato quello che sembrava un minuscolo, sottilissimo filo nero.

    «È un capello» proseguì il bargello senza aspettare la risposta. «Era sul cadavere. È il capello di qualche puttana. Cerca nei bordelli della città e poi torna al tuo mestiere della malora, a fare i conti.»

    «Conoscete bene l’indirizzo dei bordelli, e vedo che il caso l’avete già risolto da voi. Me ne posso andare, allora. Mi aspettano.»

    Ermete lo lasciò in piedi, fermo a masticare rabbia. Grosso idiota. Si allontanò pensoso con le mani in tasca, senza tornare sul Fillungo, ma scegliendo vie secondarie che ora, al momento del pranzo, erano meno affollate.

    All’aria aperta, il senso di nausea si dissolse con sollievo, e anzi si trasformò in appetito, o meglio, in sete. Intravide l’insegna di una taverna e sentì odore di cibo. Entrò e sedette a un tavolo, ne erano rimasti liberi solo due o tre. Nella taverna c’erano bottegai con vestiti in ordine, operai rumorosi, contadini che si lamentavano per aver venduto la loro merce a poco prezzo. Guardare la vita dopo aver visto la morte lo inquietava. Troppo spesso avevano lo stesso aspetto, ai suoi occhi.

    Ordinò all’oste una minestra di farro, un po’ di coniglio in umido con olive e un boccale di vino.

    Alla tua salute, Giacomo Scolario. Non solo il bargello conosceva il bordello, lo conosco anch ‘io. Il vino e il bordello, due stazioni della mia via crucis. Ma né l’uno né l’altro conducono alla resurrezione dello spirito. Entrambi portano all’inferno personale. Dove sei, caro amico Ortensio? Avrei bisogno di te e del tuo Dio, che preghi e ascolti tanto. Avrei bisogno di Lui. Ma Dio non c’è mai.

    La mente seguiva traiettorie indifferenti a quelle dello sguardo, perso nel piatto di minestra fumante. Nel boccale, la superficie rossa palpitava a ogni passo che scuoteva il pavimento, come un piccolo cuore liquido che si contraeva con ritmi tutti suoi.

    Quando Ermete si alzò, il coniglio era ancora lì, ma il boccale era vuoto.

    Era ancora presto per tornare al Palazzo, ad ascoltare la moneta falsa delle parole che per lui avrebbero suonato e rimbombato fasulle sugli arazzi della sala delle udienze. Sarebbe stato preferibile rimandare l’incontro e aspettare la luce attenuata del pomeriggio, che nelle stanze era rischiarata dai candelabri d’argento del gonfaloniere.

    Uscì dalla taverna. Il vino aveva da tempo iniziato a versare pioggia sui falò dei suoi pensieri, lasciando

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