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Il cielo di pietra
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E-book282 pagine4 ore

Il cielo di pietra

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Info su questo ebook

A Roma il paesaggio è mutato per sempre.

Sulla città svetta l’immenso tamburo della più grande cupola della cristianità, un monumentale “cielo di pietra”, opera di Michelangelo e della sua profonda devozione religiosa.

Ma in basso, per le vie della città, abusi e violenze non sembrano destinati a placarsi. Il cardinal Morone, accusato ingiustamente di eresia, è stato rinchiuso nelle prigioni di Castel Sant’Angelo e i due viziosi nipoti di papa Paolo IV, Carlo e Giovanni Carafa, continuano a sfogare le loro pulsioni in un crescendo di depravazione e crudeltà. Perfino la bellissima amante di Giovanni, Martuzza, sopraffatta dallo sdegno decide di scappare a Venezia, dove l’attende Tiziano, pronto a trasformarla nella sua musa.

Anche nella città lagunare il clima è teso, spie turche si aggirano nell’ombra delle calli e nell’aria aleggia sinistro lo spettro di una guerra imminente. Il pretesto non tarda ad arrivare e cristianità e Islam si scontrano nelle acque di Lepanto in una battaglia navale senza precedenti.

IlCielo di pietra porta a compimento la serie Il secolo dei Giganti, che racconta il Cinquecento italiano a partire dalla vita dei suoi protagonisti: regnanti grandiosi e orribili, donne determinate e potenti, artisti come Leonardo, Raffaello, Tiziano e Michelangelo, l’unico ad aver attraversato per intero il secolo d’oro dell’arte, testimone di intrighi, abiezioni, ma anche di assoluto splendore, talento divino e della multiforme natura umana.

Antonio Forcellino, il più grande restauratore italiano, ha dipinto un affresco narrativo straordinario, unendo la passione per l’arte, l’acribia dello storico e l’inventiva del grande romanziere.

LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2023
ISBN9788830592445
Il cielo di pietra
Autore

Antonio Forcellino

Tra i maggiori studiosi europei di arte rinascimentale, ha realizzato restauri di opere di grande valore, come il Mosè di Michelangelo e l’Arco di Traiano. La sua attenzione si rivolge da sempre a tutta la ricchezza del fare arte, ai contesti storici, alle tecniche e ai materiali, alle radici psicologiche e biografiche dei grandi capolavori. È stato eletto membro del Comitato per le celebrazioni dei 500 anni della morte di Leonardo da Vinci, promosso dal Ministero per i beni e le attività culturali.

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    Anteprima del libro

    Il cielo di pietra - Antonio Forcellino

    Avvertenza

    Questo romanzo, pura opera di fantasia, nasce dalle potenti suggestioni accumulate in quarant’anni di lavoro di restauro condotto sulle opere d’arte del nostro Rinascimento. In qualche caso mi sono concesso piccole licenze cronologiche e geografiche per rendere la narrazione più suggestiva e avvincente, senza mai però alterare la veridicità storica dei fatti.

    PROLOGO

    Venezia, agosto 1565

    La notte era calda, troppo calda per un vecchio che aveva passato la sessantina ed era stremato dalla fatica della giornata passata in studio a impastare colori. Agosto a Venezia poteva essere insopportabile, soprattutto quando non arrivavano i venti dalle montagne a rinfrescare l’aria in quel labirinto di pietra bollente.

    Decise di alzarsi e di camminare per le strade mai vuote della sua città dove, specialmente adesso d’estate, le feste iniziavano molto dopo il tramonto e finivano molto dopo l’alba. Di notte, a ogni ora, si incontravano donne e uomini ancora ebbri, accaldati ed esausti, stremati dal caldo e dai loro piaceri. Così era Venezia: una città che non si rassegnava mai alla sobrietà e alla misura, neppure quando, come in quell’anno, le minacce di guerra che spiravano dall’impero della Sublime Porta la investivano in pieno e arrivavano fino alla laguna attraversando tutto l’immenso Dominio da Mar che aveva fatto la fortuna di Venezia negli ultimi otto secoli.

    Il caldo lo spinse verso il grande recinto dell’Arsenale, accanto al muro che univa il bacino meridionale della città al Canal Grande. Lungo quel muro, sapeva per esperienza, soffiava sempre un gradevole alito di vento anche quando in tutta la città non si muoveva una foglia. Camminava sul ciglio della fondamenta godendosi il refolo fresco del vento senza incontrare anima viva. La notte era entrata ormai in quell’ora magica che precede l’alba, l’ora in cui tutto si ferma e si sospende e perfino gli amanti più ardenti affondano esausti nei letti di fiori. L’unico segno di vita era il leggero sciabordio delle gondole sull’acqua, mosse dalle incessanti correnti marine. Legate ai pali da canapi di ogni misura, le strane imbarcazioni sembravano docili e bizzarri animali domestici tenuti alla catena.

    Sprofondato in questi pensieri, il vecchio pittore era arrivato alla grande porta dell’Arsenale verso il Canal Grande, dove i leoni di pietra, portati da tutte le isole del Mediterraneo, erano posti davanti all’ingresso del recinto come trionfi di antiche battaglie, spoglie sottratte ai nemici lontani e allo stesso tempo devoto omaggio al patrono della città, il dolce e misericordioso san Marco.

    Proprio lì, davanti alla porta dell’Arsenale sbarrata dall’enorme saracinesca di legno sospesa sull’acqua che gli era tanto familiare, sentì un tramestio, prima lieve, poi sempre più rumoroso e concitato, giungere dall’interno dell’Arsenale, e mentre cercava di immaginare cosa stesse accadendo si rese conto per la prima volta nella sua vita che non era mai stato dentro, come quasi tutti i cittadini veneziani.

    Era quello un luogo quasi misterioso, proibito a tutti, perché in quel cantiere si covava e allevava la vera potenza di Venezia. Le navi che vi si costruivano erano le migliori del mondo e avevano assicurato a Venezia la supremazia sul Mediterraneo, appena insidiato per qualche decennio, o forse qualche secolo, da genovesi e amalfitani, che però adesso si erano ritirati in buon ordine lasciando a Venezia il dominio di quasi tutto il mare, perlomeno di quello non ancora conquistato dai turchi.

    Il tramestio si fece sempre più vicino e gli sembrò di udire qualche urla provenire al di là del grande muro. Poi un tonfo nell’acqua come se qualcosa o qualcuno fosse stato lanciato nel canale dagli spalti e infine il suono secco di uno schioppetto che ruppe quasi dolorosamente il perfetto silenzio della notte.

    La luce intanto cominciava a filtrare dalla lunga striscia di sabbia che separava la laguna dal mare aperto a est verso la Schiavonia. Un debole chiarore dorato scivolava lento ma inesorabile sull’acqua, insidiando quello delle lanterne che punteggiavano la laguna appese alle poppe delle barche dei mercanti e dei pescatori che iniziavano a muoversi verso il mare aperto. In quella luce che sarebbe stata insufficiente a chiunque per distinguere gli oggetti, Tiziano, che invece era in grado di cogliere anche il fremito di un sopracciglio nei suoi modelli di posa, scorse nel canale un uomo che si muoveva sotto il pelo dell’acqua talmente veloce che in breve lo perse di vista.

    La sagoma scura emerse sull’argine sinistro del piccolo canale che dal Bacino grande di San Marco portava alla saracinesca. L’uomo si aggrappò alla riva di pietra, si tirò su agilmente e sparì senza rumore nella calle del Curato. Dagli spalti si affacciò una guardia che tentò borbottando di scrutare nella penombra dell’alba le due rive del canale, ma ormai le onde provocate dal tuffo si erano placate, e la superficie intatta dell’acqua convinse la guardia che si era trattato di una svista, forse un uccello notturno si era avventurato fino al grande recinto dell’Arsenale dalle vicine paludi del trevigiano.

    Tiziano era rimasto immobile tra i leoni di pietra, e aspettò che la guardia si fosse ritirata per avvicinarsi all’acqua dove galleggiavano alcuni fogli di carta ormai ben visibili.

    La luce del primo sole, libero sull’orizzonte e giallo come un’arancia spagnola a settembre, ritagliava dall’ombra sempre più netti i contorni delle pietre di Venezia e dei tronchi di segnalazione delle secche che spuntavano come enormi dita disperate dal suo mare calmo.

    Allungò il bastone per prendere uno dei fogli e lo avvicinò agli occhi. Vide, o gli sembrò di vedere, segni di una scrittura che aveva i tratti inconfondibili di quella ottomana. C’erano anche alcuni disegni di barche, di chiglie e di remi. Erano gli scheletri delle gloriose galee della Repubblica di Venezia, gelosamente custoditi dall’inviolabile recinto di mattoni rossi fino al giorno in cui, attraverso la grande saracinesca, prendevano il largo dirette all’altro capo del mondo.

    Ma mentre li guardava, si accorse che la scrittura e i disegni svanivano e lasciavano il foglio pulito: l’inchiostro doveva essere speciale, un inchiostro che a contatto con l’acqua scompariva. Guardò verso l’alto dove prima si era affacciata la guardia. Si chiese se fosse il caso di chiamare l’uomo per consegnargli quel foglio, ma esso non mostrava nessun segno, e forse lo avrebbero preso per un visionario.

    Si guardò intorno senza sapere cosa fare: improvvisamente era sparito il caldo della notte e con la luce gli pareva che arrivasse anche un vento freddo, troppo freddo per spirare dalle montagne del suo Cadore. Era piuttosto un vento secco che giungeva da molto lontano, il vento della guerra che Istanbul e il suo sultano stavano per dichiarare a Venezia.

    PAPA PAOLO IV

    (23 maggio 1555 – 18 agosto 1559)

    Napoli, 2 giugno 1557

    Al protonotario Pietro Carnesecchi in Firenze

    Pietro, amico carissimo,

    è arrivata anche qui a Napoli la notizia dell’arresto del reverendissimo cardinale Morone, vergognosamente incarcerato in Castel Sant’Angelo come un comune delinquente. Il papa non ha portato nessuna giustificazione per questo arresto e tutta l’Italia, ma direi tutta l’Europa, si è sdegnata.

    Paolo IV Carafa vuole infatti annientare i possibili candidati alla sua successione con una ignobile accusa di eresia, ma quel che è terribile è che tutto sembra possibile oggi in Italia, grazie al potere pressoché illimitato dell’Inquisizione. Dopo Morone, questa belva assetata di sangue di papa Carafa si scaglierà contro il santissimo cardinale Reginaldo Polo che per fortuna è partito per l’Inghilterra per aiutare sua cugina la regina Maria a ristabilire la fede cattolica in quel regno, e dopo ancora comincerà a scagliarsi poi contro tutti noi che, come loro amici devoti, veniamo sprezzantemente chiamati dalle spie «spirituali», quasi fossimo una setta eretica.

    La nostra unica colpa è quella di aver osato sperare in una riforma della Chiesa e per questo oggi siamo combattuti senza pietà dall’Inquisizione, mentre Roma non conosce più legge ed è in mano agli scellerati nipoti del pontefice: il cardinale Carlo Carafa e suo fratello Giovanni, due campioni di ogni perversione che fanno impallidire perfino la memoria di Pier Luigi Farnese, e che si sono uniti a quello scellerato del cardinale Innocenzo Dal Monte il cui unico merito è stato quello di rallegrare il letto di papa Giulio III, che Dio lo abbia in gloria. I loro crimini stanno scandalizzando il mondo e fanno la gioia dei turchi che cominciano di nuovo a pensare alla conquista dell’Italia.

    Per fortuna qui a Napoli arrivano notizie anche da Istanbul e pare che Solimano il Magnifico abbia il suo bel daffare con la lotta per la successione dei suoi due figli, Bayezid II e Selim II, che si combattono tra di loro peggio dei nostri principi cristiani. Ognuno tenta di ammazzare l’altro per rimanere unico erede e la legge ottomana glielo permette. Tra l’altro sua moglie Roxane prima di morire era riuscita a fare assassinare il figlio di primo letto, che era un grande guerriero amato da tutto l’esercito. Staremo a vedere anche qui come andrà a finire la lotta per la successione, ma avremo perso l’occasione per muovere guerra ai turchi e vincerla.

    Io, a ogni modo, vi ho scritto in cifra perché non sono sicura che la nostra corrispondenza non sia intercettata dalle spie dell’Inquisizione, ormai pure Napoli ne è piena. Molti dei nostri amici dicono che in questo frangente non possiamo che raccomandarci a Cristo e pregare, io però non ne sono convinta. Bisogna fare qualcosa contro questa belva di Carafa che ha perfino dichiarato guerra alla Spagna. Ma questa forse sarà la sua rovina. I francesi lo illudono ma non potranno aiutarlo, lo so per certo. Volesse Dio. Torno alle mie orazioni qui nel convento di San Francesco delle Monache e aspetto vostre notizie.

    Vi prego di mandare le lettere con la massima prudenza,

    Vostra Giulia Gonzaga, contessa di Fondi

    L’INTERROGATORIO

    La scala che portava alle celle del castello era alloggiata sulla ripida rampa romana che separava le mura del mausoleo tondo costruito dall’imperatore Adriano.

    Il papa si teneva alla balaustra della portantina per non precipitare in avanti, mentre quattro guardie facevano luce con le fiaccole. Arrivati in fondo si fecero strada verso le celle più cupe della prigione, quelle in cui la luce filtrava solo da una finestra in alto aperta sul cortile interno del castello.

    Il cardinale Morone era seduto su una branda che occupava metà dell’angusto locale; su un tavolo erano poggiati la gavetta di ferro riempita due volte al giorno di cibo immangiabile e un orinale di rame che nessuno svuotava da tre giorni. Quando sentì la porta spalancarsi non distolse lo sguardo dalle mani intrecciate davanti a sé. La barba divenuta incolta e il corpo provato dal digiuno gli davano l’aspetto di un vecchio satiro ribelle che niente e nessuno avrebbe piegato.

    «Eccoti qui, Morone, non credevi che l’avrei fatto vero? Tu e i tuoi amici vi sentivate intoccabili, e adesso? Dove sono i tuoi protettori? L’imperatore è morto, quello nuovo custodisce gelosamente i suoi territori e Filippo non vuole saperne di te. Chi ti verrà a salvare? Polo? Attraverserà la Manica con gli eserciti della sua regina? O magari Vittoria, quell’anima dannata risorgerà dall’inferno per aprirti le porte della prigione?»

    Morone non rispose, si limitò a guardarlo in faccia con il viso appena attraversato da una smorfia che poteva leggersi sia come un segno di sottolineata indifferenza sia di contenuto disprezzo. Paolo IV Carafa strinse nelle mani ridotte ormai ad artigli la sfilacciata barba grigia che gli pendeva sotto l’enorme naso ripiegato dal tempo fin quasi al labbro superiore. Il suo ghigno era segno di un furore bruciante alimentato dal fanatismo più profondo: «Arrogante come sempre, indomito, ma ora sei nelle mie mani, potrei addirittura farti appendere alla corda».

    «Non sarei certo il primo a cui estorci una falsa confessione con la tortura.» Morone lo fissò dritto nei piccoli occhi neri cercandoli con i suoi azzurri e limpidi in fondo alle orbite scure e livide sovrastate da una folta peluria grigia cresciuta in maniera abnorme lungo la fronte. Aspettò di vederli scintillare dalla rabbia prima di continuare con tono calmo, come se niente e nessuno, tantomeno quel simulacro di diavolo vestito da papa, avesse potuto spaventarlo. «Ma nessuno ti crederà mai. Puoi anche uccidermi subito. Avrai solo compiuto un altro delitto inutile.» Aveva parlato senza muovere il viso, puntando lo sguardo verso il buio che inghiottiva la cella alle spalle del papa.

    Paolo IV si aggrappò al braccio di uno dei portatori per mettersi in piedi. Fece due passi in direzione della branda. Subito due guardie gli si affiancarono per prevenire un possibile gesto sconsiderato del prigioniero. «Continui a sfidarmi, non è vero? Ma non ti servirà a niente, non ho bisogno neppure di appenderti alla corda, non devo sprecare le tenaglie con te. Ho raccolto decine e decine di confessioni che ti confermano eretico.»

    «Immagino siano confessioni spontanee.»

    «Oh, immagini bene, non sai quanti si sono presentati con la voglia di raccontare, e che memoria hanno gli uomini! Ogni dettaglio, anche il più insignificante riaffiora alla mente quando può servire a compiacere qualcuno di cui potresti avere bisogno.» Ora il volto del papa era quasi ridente, gli piaceva la metafora del potere che aveva appena vomitato su Morone, era lui l’uomo che più di ogni altro al mondo poteva essere compiaciuto da ricchi e poveri. E per questo era l’uomo al quale tutti erano disposti a confessare anche ciò che non sapevano. «Avresti mai immaginato che il vecchio abate di San Pietro in Vincoli si fosse ricordato di quando tu e la tua amica Vittoria avete schernito i Vincoli di san Pietro proprio davanti all’altare con le sacre reliquie mentre il vostro amico Michelangelo stava collocando le ultime statue nella tomba di papa Giulio? E che il guardiacaccia di Bagnoregio fosse venuto a cavallo fin qui a Roma per raccontare di quando vi riunivate a Viterbo con Polo, il tuo depravato cardinale angelico, per scrivere il libretto diabolico del Beneficio di Cristo

    Morone manteneva fisso lo sguardo e immobile il viso con un’indifferenza che, sapeva bene, sarebbe apparsa beffarda al papa, come se quelle accuse non fossero dirette a lui.

    Il tono accusatorio del pontefice divenne allora incalzante e prossimo all’esasperazione: «O vuoi che ti racconti dei monaci che sono venuti a Roma per giurare che a Modena hai sostenuto che la messa era un rito inutile, che il culto dei santi è pura superstizione, e che le reliquie andrebbero bruciate?».

    Morone non riuscì a trattenere un sorriso. «Questa sarebbe la mia eresia? Criticare la vendita di ossa di scimmia e di pelle rinsecchita di orso per le strade di Roma è eresia? Invitare i fedeli a concentrarsi sul sacrificio di Cristo sulla croce è eresia? Mi chiedo a quale fede sei stato educato, Carafa. Mi avevano avvertito che a Napoli sopravvivono ancora culti di magiche divinità pagane che si conservano sotto forma di teschi, di vestiti miracolosi e perfino di animali prodigiosi, e ora capisco da dove viene la tua fede.»

    Il papa aprì la bocca annaspando senza quasi riuscire a parlare. «Osi ancora contraddirmi? La tua vanità è sconsiderata. Potrei addirittura farti gettare dalle mura del castello stanotte stessa.»

    «E cosa otterresti?» ribatté l’altro. «Non sarebbe certo il primo delitto per te che hai sulla coscienza legioni di innocenti. Ma alle tue ridicole prove non crederà nessuno. La tua memoria sarà dannata. Ho diritto a un processo regolare, devi formalizzarmi delle accuse precise, portare prove, neppure tu sei al di sopra dei canoni della Chiesa. Ricordati che io sono un cardinale.»

    «Io sono il papa» gridò Carafa, come se volesse far sentire la sua voce fino al Tevere che lambiva la poderosa mole di Adriano.

    «Anche Alessandro Borgia era un papa ed è finito tra i calci del popolo di Roma nella bara. E Clemente VII è scampato alla morte per poco. Il Regno dei Cieli bisogna meritarselo e non sempre lo Spirito Santo trova la strada giusta per arrivare al successore di Pietro.»

    «Ecco, l’avete sentito!» urlò fuori di sé Paolo IV indicando alle guardie l’uomo impassibile che era seduto sulla branda. «L’avete sentito che ha bestemmiato, ha messo in dubbio lo Spirito Santo!»

    «Ho solo detto che a volte può essere male interpretato dagli uomini, come hanno stabilito del resto diversi concili universali nello scorso millennio. Carafa, piantala con questa commedia. Non hai un pubblico degno di te e io non ti ascolto né ti parlerò più. Voglio sapere di cosa sono accusato. Sono un cardinale e ho diritto a un processo regolare anche davanti all’Inquisizione.»

    Nella cella quasi buia risuonava il respiro del papa più simile a un rantolo. A tentoni, stringendo le guardie immobili accanto a lui, trovò la via per sedersi di nuovo sulla sua portantina. «Ho fatto liberare la cella a fianco, tra un poco verrà a farti compagnia il tuo monsignor Polo, ho chiesto la sua estradizione alla regina Maria Tudor, vedremo se oserà rifiutarmela. Accenderemo un bel fuoco proprio qui davanti al castello, ti meriti una piazza di tutto rispetto. Vedrai quanta gente verrà a vederti.» E fece cenno alle guardie di alzare la portantina per uscire.

    «Se prima i diavoli non verranno a prenderti per bruciarti all’inferno.»

    Era stato un soffio alitato nella cella, ma una delle guardie istintivamente si segnò la fronte. Aveva sentito evocare il diavolo e qualcosa gli aveva detto che era molto vicino, forse era disteso sulla branda, ma forse lo stavano sollevando sulle spalle quei quattro svizzeri in uniforme da parata.

    IL MODELLO DELLA CUPOLA

    La notizia dell’arresto di Morone non aveva colto di sorpresa Michelangelo.

    Era rimasto forse l’unico uomo a Roma a essere testimone di scelleratezze compiute già sessant’anni prima dai papi e dai suoi ministri. Certamente l’unico ad averli visti da vicino nelle loro stanze. Aveva assistito ai delitti dei Borgia, alle guerre dei della Rovere, ai fallimenti dei Medici e alla scaltrezza dei Farnese. Poi non si era stupito della dissolutezza dei Dal Monte e ora la follia dei Carafa non poteva sorprenderlo. Qualcosa gli suggeriva che sarebbe passata anche questa piena, e la sua fine, del resto non troppo lontana, non sarebbe stata causata da quell’infame di Paolo IV.

    Si sentiva approdato a un mondo e a una condizione preclusa a quasi tutti gli altri uomini che aveva conosciuto e che conosceva. E non perché a trent’anni era già considerato divino, perché i re di tutto il mondo, incluso il sultano del più potente impero sulla Terra lo imploravano per avere qualcosa di mano sua. Non perché la gente al suo passaggio per le strade di Roma – quel popolo irriverente pronto a prendersi gioco dei peggiori assassini come degli uomini più virtuosi (non era stato Pasquino a scrivere che la sua amica adorata, la marchesa di Pescara, pisciava acqua santa la mattina?) – si scansava per fargli largo abbassando la testa come di fronte a un santo, l’unico santo rimasto nei paraggi del Vaticano.

    Ma perché era libero e consapevole del fatto che la propria vita coincideva esclusivamente con la propria arte e che quel suo talento poteva germogliare anche nel peggior letame per la gloria di Dio.

    Nel frattempo i lavori per la fabbrica di San Pietro andavano ancora a rilento e ora veniva la parte più difficile da realizzare: la grande cupola, e il tamburo che doveva sostenerla, che avrebbe dato luce all’interno del tempio. Anche se ci fossero stati soldi a sufficienza per mandare avanti con la massima lena i lavori (e così non era, perché la assurda guerra di Paolo IV contro gli spagnoli aveva prosciugato le casse della Chiesa e lui non poteva sostenere con i suoi risparmi quell’impresa), ci sarebbero voluti anni per portare a compimento l’opera. Anni che lui non aveva davanti a sé.

    Per questo doveva assicurarsi che il lavoro sarebbe stato portato a compimento secondo la sua volontà e il suo progetto. La cupola del nuovo San Pietro doveva essere grande, immensa, come il cielo, un cielo di pietra per coprire tutti i pellegrini di Roma e aiutarli a espiare i propri peccati con la grazia di Dio, e la luce che sotto quel cielo sarebbe filtrata.

    Si era sforzato di disegnare ogni dettaglio della costruzione, il taglio dei travertini che avrebbero formato le colonne e le cornici su cui doveva poggiare il grande peso della cupola, ma non era sufficiente. I suoi disegni potevano essere male interpretati. Ci voleva qualcosa di più preciso e di più

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