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Il Canto di Imbra: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo
Il Canto di Imbra: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo
Il Canto di Imbra: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo
E-book239 pagine3 ore

Il Canto di Imbra: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

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Info su questo ebook

"E si fece spazio una terra desolata, ed appariva man mano che emergeva, e aggrediva il mare, e squarciava il mare, espellendo tutta l’acqua che quel luogo poteva contenere, e tutta l’acqua che quel luogo poteva contenere si trasformava in onde imponenti, e le onde imponenti correvano via maestose, aggredendo chiunque si trovasse lungo quel cammino di acqua e di sale." Storie antiche e moderne, storie di uomini e donne, accomunate da uno stesso denominatore: il Mar Mediterraneo che dà e toglie indifferentemente, senza darne spiegazioni a nessuno.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2021
ISBN9788833469126
Il Canto di Imbra: Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

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    Il Canto di Imbra - Francesco Di Chiappari

    canto-imbra_fronte.jpg

    Il canto di Imbra. Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

    Prima parte

    di Francesco Di Chiappari

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    ISBN 978-88-3346-912-6

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Narrativa – Intrecci

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    IL CANTO DI IMBRA

    Utopia di un viaggio nel Mediterraneo

    Francesco Di Chiappari

    Prima parte

    AliRibelli

    Indice

    Capitolo I

    Il saraceno dagli occhi di gatto

    Capitolo II

    Il tempo che rende liberi

    Capitolo III

    Le nuvole

    Capitolo IV

    Il volto del mare

    Capitolo V

    Gli occhi puntati di Dio

    Epilogo

    … Tra questa immensità

    s’annega il pensier mio:

    E il naufragar m’è dolce

    in questo mare.

    L’infinito, Giacomo Leopardi

    A Crescenzo, Antonio, Daniele, e Gaetano,

    che mi hanno regalato gli occhi per guardare il mare.

    Il Canto di Imbra

    è un’opera di narrativa, anche se molti riferimenti affondano nel mito e nella storia.

    Questo mare è mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Yugoslavia.

    Fernand Braudel

    Capitolo I

    Il saraceno dagli occhi di gatto

    Il mare che unisce, il mare che divide, il mare che tiene salda la terra al cielo secondo una scala di coerenza che è la natura stessa.

    Un mezzo busto scolpito di sghembo, un volto modellato su un blocco di roccia rivolto al sole che tramonta.

    In viaggio, 28 giugno 2017.

    Chi ha la fortuna di navigare lungo le coste frastagliate dell’Anatolia (dal greco ἀνατολή – sorgere del sole) e si avventura in un percorso che da Imbros porta a Chio, a Samo, e ancor più giù verso le isole sparse dell’Egeo, non può non rimanere affascinato dalla bellezza dei paesaggi, dalla moltitudine delle insenature sulla costa, dal fascino antico dei paesi che si riversano sul mare e che di mare vivono. Case basse, case di pescatori, case arroccate a ridosso dei dirupi, e che si arrampicano le une alle altre attorno a stradine che percorrono la montagna alle spalle che sembra proteggerle da attacchi improvvisi e dalle intemperie. Viste dal mare quelle montagne non sembrano così alte, così scoscese ed invalicabili; forse nell’antichità potevano apparire ostacoli insormontabili a chi era abituato a vivere in pianura. I greci – ad esempio – le trovarono ardite ed impervie, quegli stessi greci che non furono mai capaci di costruire «buone strade» come i romani; strade sufficientemente larghe da consentire a due carri trainati da buoi di incrociarsi reciprocamente senza troppe difficoltà. Ebbene, percorrendo quelle stradine, lastricate con pietre di porfido lavorate a mano dagli scalpellini, noto un susseguirsi di portoni dipinti coi colori pastello, e le finestrelle – piene di fiori di lavanda – accendono la fantasia di chiunque sappia guardarsi attorno ad ammirare. Il battere del maglio sui fasci di strame, i cui fili vengono adoperati per tessere cordami e manufatti di uso comune, mi ricorda un tempo che viaggia lento, al pari di una locomotiva a vapore che non ha fretta di arrivare.

    A Smirne un ristoro seminascosto sul profilo della costa affacciata sul mare cattura la nostra attenzione. Diamo fondo nella baia antistante e col battellino a remi lo raggiungiamo in tutta fretta. Sembra insignificante con i suoi quattro tavoli destinati agli ospiti, ma Christos Nikostratos pescatore, chef e all’occorrenza cameriere – ci accoglie con modi semplici e garbati, proponendoci degli ottimi piatti a base di pesce che lui stesso garantisce per qualità e prezzo. La vegetazione che si nota tutt’intorno è tipica dei paesi mediterranei; il pino marittimo la fa da padrone, anche se non mancano querce, lecci e soprattutto cedri. Mi imbatto con lo sguardo su alcune rovine che emergono dalla montagna. È lo stesso Christos che si offre di accompagnarci lungo il versante impervio del monte di Schitri. Conosce il sentiero meglio di chiunque altro qui attorno perché lui è di qui, è nato in questi luoghi; suo nonno e suo padre erano pescatori ed egli stesso lo è stato per diversi anni prima di incontrare Imbra Sastrys, la sua voce e il suo bel canto. Con lei tutto è cambiato e la vecchia abitazione di famiglia abbandonata e piena di ragnatele si è trasformata in qualcosa di speciale: Il canto di Imbra, un piccolo ristorante in simbiosi col mare, gestito sul mare e che si inebria di mare. Sulle orme battute da Christos mi avventuro nella gariga che circonda il sentiero, e tra aromi di salvia e rosmarino che si mescolano agli odori del timo, del ginepro e del mirto selvatico, ripenso al tempo passato, al tempo remoto degli antenati, quando altri calzari hanno battuto il selciato della montagna per guardare oltre; scrutare i colori del mare fin verso la linea dell’orizzonte, quella linea oltre la quale l’infinito sarebbe precipitato negli abissi del vuoto cosmico più assoluto. Altri cieli impalpabili avvolgevano la terra a quel tempo, ed erano cieli trasparenti, d’azzurro vestiti, che ammantavano le distese infinite del mare riflettendo su di esse lo spirito divino espresso dalla potenza smisurata degli dei. Vento, acqua e cielo, e nel bel mezzo di questi elementi primordiali, piccoli uomini arditi con le loro imbarcazioni di legno che si allontanavano dalla costa in direzione d’occidente. Uomini d’avventura, direi; uomini curiosi ed aperti di spirito, pronti a sfidare sé stessi per sfidare gli altri; cogliere dalla loro inquietudine la forza per intraprendere un cammino che non poteva procedere se non ci fosse stato il mare.

    Varcare il mare, dunque, i confini del mare, quando i venti della terra soffiano sul mare, ne modellano le onde, spingono i legni attraverso quella distesa d’acqua infinita che li avrebbe – forse – portati al nulla.

    Mar Mediterraneo, fonte di ricchezza e di cultura, hai assistito agli albori della vita degli uomini, hai consegnato il tuo nome alla storia permettendo alle grandi civiltà d’oriente di trasferire il proprio sapere sul resto delle tue sponde. Sponde lontane per allora, oltre l’orizzonte dei venti noti, sponde bagnate dallo stesso mare, sponde sconosciute e forse incontaminate. Oro, argento e sale, e poi vino, spezie e guerrieri, ed ancora donne, schiavi e molteplici inquietudini. Tutto si è trasportato su questo mare, tutto si è consumato, spento e poi inabissato sotto la spuma bianca di onde mai uguali a prima. E sono state bireme fenicie, e trireme greche, e galere romane, e mercantili cartaginesi, che la sabbia ed il fango dei fondali – ricoprendole fino ai ponti – hanno preservato da una rapida e triste agonia. Ogni tanto, in verità, qualcuna riappare dai complessi e profondi nascondigli del mare e ci stupisce. Sono come fantasmi nella notte, ombre vaganti di ciò che sono state prima, e malgrado i legni marciti e putrefatti (appena percettibili agli occhi delle telecamere, o di qualche sub in vena di esplorazioni), conservano ancora il fascino antico delle loro forme, e dal ventre consunto per i troppi anni passati là sotto ci restituiscono il loro carico di oggetti preziosi. Tesori di incomparabile bellezza il più delle volte, e statue, e bronzi, e sarcofagi di mirabile fattura, che ripuliti e restaurati da mani esperte e nobili del sapere, vengono conservati nei musei di tutto il mondo quale testimonianza di un epoca ormai scomparsa. Da Cipro a Rodi, da Creta a Cetera, da Malta a Cartagine, e poi a Roma, ed hanno attraversato il mar d’oriente quelle navi, e poi d’occidente, attraccato sulle coste sabbiose dello Ionio, circumnavigato l’assolata Trinacria, prima che una tempesta improvvisa, un uragano o la mano indispettita di Poseidone, le abbia punite castigandole in fondo agli abissi marini.

    Mare primordiale.

    Mare d’acqua e di sale, hai eroso le antiche sponde e le hai modellate; hai schiaffeggiato le rocce scoscese e le hai abbracciate, e quando esausto per le fatiche ti sei finalmente lasciato andare, hai accarezzato porti ed insenature, spiagge e promontori, regalando a quegli uomini arditi la facoltà di tracciare sulla tua pelle liscia e spumosa rotte impervie e sconosciute da percorrere sotto lo sguardo attonito delle stelle fisse e delle comete.

    Il richiamo di Christos mi riporta alla realtà. Un muretto in blocchi di pietra sistemati a secco contorna una piccola radura alle mie spalle. Forse un tempio, un ara, un luogo di culto, ma quando mi spingo al di là del sentiero per guardarmi attorno rimango stupito. È il tempio di Anat la «vergine guerriera», che da circa tremila anni domina il mare che le si apre di fronte. Un mezzo busto messo di sghembo è tutto ciò che rimane di lei. Un volto scolpito nella pietra, aggredito dalle piogge, consumato dal vento, modellato su una roccia rivolto al sole che tramonta. Un varco tra le mura mi consente di entrare nel tempio attraverso alcuni gradini ad incastro perfetto. C’è silenzio quassù, un silenzio maestoso, innaturale, il silenzio della bellezza eterna; una bellezza che va preservata contro le brutture e gli scempi subiti dalle vestigia antiche in epoca moderna. Un’epoca che ha perso completamente il senno di sé, confusa com’è tra gli odi nascosti, i rancori perenni, le liturgie delle ragioni e dei torti, senza che a nessuno sia mai venuto in mente di dire finalmente basta.

    La vergine guerriera, 1200 a. C.

    La spianata di Ilio sembrava essere caduta nel vuoto asfittico del primo anno di guerra. Da una parte le rive sabbiose dell’Ellesponto con gli accampamenti achei intorno alle navi spiaggiate; dall’altra, più arretrata rispetto al profilo della costa, Troia con le sue mura, le vestigia, e la gloria di una città ricca e potente. Nessuno conserva il ricordo di come fossero state edificate quelle mura; non di certo per capacità umane, poco avvezze ai lavori d’incastro e precisione. E se escludiamo l’intraprendenza degli uomini coniugata alla loro pochezza di spirito, l’origine non può che essere divina. Sembra, infatti, che le avesse volute il grande padre Zeus il quale, mosso dalle preghiere di Dardano prediletto figlio suo e di Egea, aveva chiesto a Poseidone signore del mare, e ad Apollo signore della luce, di innalzarle solide e robuste quelle mura, per impedire alle menti malvagie di nutrire il desiderio di abbatterle quelle mura. Ed erano una barriera imponente; un fronte invalicabile alle tattiche di guerra, ed è così che si sono presentate agli occhi di Agamennone, che dopo i primi assalti frontali e una serie di scaramucce inconcludenti sotto le Porte Scee, pensò bene di tenersene alla larga, ma – al tempo stesso – di elaborare una strategia capace di richiamare il nemico nel bel mezzo della spianata di Ilio, luogo ideale per uno scontro epico tra carri e cavalli, fanti ed eroi, uomini e déi che, patteggiando per l’uno o per l’altro degli eserciti in campo, avrebbero sortito nella battaglia dando manforte ai propri adepti nel momento del bisogno.

    Per raccogliere nuove idee, ma soprattutto per accreditarsi quale unico ed indiscusso capo degli Achei, Agamennone volle dibatterne la questione in seno al consiglio dei capi riuniti sotto la «tenda delle adunate» issata nei pressi della sua residenza campale.

    Qui, tra stuoie dai colori accesi, tappeti e morbidi guanciali di lana caprina s’erano adunati: Ulisse, figlio di Laerte e re di Itaca; Idomeneo, re di Creta e nipote di Minosse; Diomede, figlio di Tideo e re della Tracia; Nestore, re di Pilo e parente di Giasone; Menelao, re di Sparta e fratello di Agamennone; Menesteo, re di Atene; Achille, figlio di Peleo; Aiace Telamonio, cugino di Achille e amico suo d’infanzia e d’avventura. Idomeneo fu più lesto di tutti ad intrufolarsi nella discussione, ed afferrato il bastone che gli conferiva l’autorità di primo oratore in campo, così prese a dire: «Onnipossenti condottieri e fulgidi eroi di Grecia, mi rivolgo a voi che avete combattuto ovunque nel mondo conosciuto. I tentativi fin ora fatti per richiamare il nemico fuori dalle mura – e rivolse lo sguardo al prode Agamennone che nervosamente si accarezzava la barba riccioluta – non hanno sortito effetto alcuno in seno alla battaglia. Ho potuto constatare, da fonti che ritengo attendibili, che i troiani, per l’abbondanza delle provviste accumulate nei loro granai, sono in grado di sopportare un assedio di parecchi mesi restando rinchiusi in città. Sarebbe imprudente, quindi, e lo dico a voi che questa guerra l’avete abbracciata e voluta, persistere nella tattica della guerriglia. Ettore ed i suoi generali difficilmente si lasceranno coinvolgere in azioni spurie, scomposte ed isolate.»

    Un brusio si levò da più parti. Aveva toccato un punto dolente, Idomeneo, forse il punto cruciale della discussione e lo aveva fatto così, senza usare mezze misure.

    Il grande Diomede, seduto su una stuoia porporina accanto all’arguto Ulisse, fece spallucce, e mostrando il sorriso sarcastico tipico dell’amico suo Itacese: «Mi dolgono le ossa del bacino e del costato», disse non appena ci fu silenzio e il brusio tese a scemare.

    «Mio padre Tideo, eroe conclamato e grande amatore di donne, non faceva che affermare che quando un uomo è spezzato dalla battaglia, ed il suo corpo è dilaniato da lance, dardi e frecce nemiche, sente l’acuirsi dei dolori in concomitanza della brutta stagione. Ebbene, io stanotte ho sofferto di dolori lancinanti e non ho chiuso occhio fino all’alba. Secondo me l’inverno è alle porte e sarà piovoso e abbastanza freddo. Sappiatevi regolare per il futuro.» E poggiò la mano sulla spalla di Ulisse che guardandolo di sottecchi gli sorrise con le labbra distese i gli occhi socchiusi.

    «Gli uomini d’arme – irruppe Menelao con l’impeto di chi aveva voglia di menar le mani – tenuti troppo lontano dai combattimenti dimenticano l’arte della guerra! Vedo i nostri soldati perdere il senso della battaglia, la misura del nemico, il valore della vittoria. Impigriti all’ombra delle navi non fanno che oziare e francamente ne sono dispiaciuto oltre che preoccupato.» Ancora brusio, il brusio nervoso delle grandi questioni.

    «Debbo dissentire da te o Menelao!», gli si contrappose Aiace prendendo le distanze da quella tesi a suo dire inconcludente. «I mirmidoni – e sfiorò con gli occhi il prode Achille a soli due passi da lui – si addestrano tutti i giorni ai margini della spianata e sono pronti alla battaglia ad ogni cenno di richiamo.

    Il problema non è dei soldati, semmai è dei capi che non li governano abbastanza. Ci sarebbe molto da fare nel nostri accampamenti: accudire le bestie, riparare i carri, approvvigionare le scorte, mettere a punto le fortificazioni, calafatare le navi, tenere in efficienza le armi. Ditemi, allora! Come fanno gli uomini a rimanere nell’ozio con tutta la caterva dei lavori che restano da fare?» Ed imponente nella mole, come nel tono della voce, guardò gli altri capi a cercarne l’approvazione. Sembrava che la disputa stesse scivolando tra le pieghe scomposte dei personalismi e dell’inconcludenza quando Ulisse si decise ad intervenire. Qualcosa gli frullava nella mente e da bravo stratega voleva che gli altri ne condividessero la tesi.

    «Troia – cominciò a fare con i doppi sensi che caratterizzavano spesso le sue elucubrazioni – ha un grande ascendente sui popoli dell’entroterra e su quelli che vivono lungo l’Egeo. In genere si tratta di contadini, pescatori, allevatori e prodi combattenti, che la riforniscono di volta in volta di ciò di cui ha bisogno: di alimenti, di materie prime, di schiavi, di soldati e carri da battaglia. Priamo, che da parecchio tempo ha stabilito con loro rapporti di amicizia, li ricompensa offrendo tutta la protezione di cui hanno bisogno.

    Ebbene, possiamo indebolire l’esuberanza di Ilio facendole attorno terra bruciata.»

    E con l’aria sorniona del gatto che gioca col topo prese ad esporre i dettagli di quel ragionamento non senza aver guardato il prode Achille, insofferente verso Agamennone per le vicende di Ifigenia in Aulide e del rapimento di Briseide.

    Achille partì qualche settimana dopo spinto da un vento fresco di levante. Aveva con sé otto navi, diversi trabàccoli da carico ed un centinaio di uomini ben addestrati all’uso delle armi. Non ci impiegò molto l’astuto Ulisse a trascinarlo nell’impresa; conosceva Achille meglio di chiunque altro, e ne conosceva i punti deboli, i pregi e i difetti, e sapeva come pizzicare le sue corde intime senza irritarlo troppo. L’esuberanza, ad esempio; la voglia smodata di dimostrare il suo valore; il destino dell’eroe invincibile votato al perenne ricordo. «E poi – gli confessò versandosi nel boccale del vino rosso dell’Argolide – vuoi mettere l’affronto che faresti ad Agamennone e alla sua boriosa presunzione di capo dei capi?»

    All’inizio di quell’inverno, con i venti freddi e turbinosi che dall’altopiano della Mysia si tuffavano sulle acque ancora tiepide dell’Egeo, alcune voci, per quanto contraddittorie, incominciarono a turbare la serenità di Priamo. Si diceva che un combattente invincibile, a capo di un drappello di soldati e di qualche centinaio di guerrieri tra i peltasti greci, stava facendo incursioni lungo le coste dell’Asia Minore per bloccare i rifornimenti che Troia riceveva dai popoli che governavano quelle terre.

    Un alleato storico di Priamo, Adrimyn, del regno dei Pirgi, comunicò – attraverso un messaggero che viaggiò di nascosto durante la notte – di non riuscire ad inviare a Troia i rinforzi promessi a primavera perché da qualche mese le sue terre erano in perenne stato di allerta. E lo erano anche quelle dei Larii, degli Eubei e dei Synni, fino alla costa meridionale di Lesbos, la cui città principale, Mytilene, era stata saccheggiata e distrutta e la popolazione tratta in schiavitù. I campi coltivati, i pascoli, i

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