Nei secoli e per sempre
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Benvenuta nella città della dea, mia principessa. Io, Nourbese, primo sacerdote di Dendera, sono onorato di accoglierti e di consacrarti nel tempio di Hathor, perciò ti dono questo Ankh inciso nel miglior avorio della Nubia per te, mia sacerdotessa. Possa Hathor, a cui oggi sarai consacrata, guidarti fino alla fine dei tuoi giorni, poiché nel tuo nome sta il suo, . Tu sei rinata in lei e questo dono, questa croce, abbia a testimoniare che la dea è vita e lo sarà nei secoli dei secoli.”
La stessa croce ansata che Sandro porta al collo, donatagli dal militare francese che diceva di venire dal passato, per dargli una missione da svolgere in cui lui non riuscì. Incontrò quel soldato una notte di inizio aprile del 1848. Ora, Sandro, si trova inspiegabilmente nell’anno 2022, ha fatto un salto di 174 anni: lui, un uomo del diciannovesimo secolo, dovrà districarsi nei gineprai di linguaggio, usanze e tecnologie del ventunesimo secolo. Ma, chi l’ha spostato nel tempo? E per cosa? Chi è quell’arcana ragazza, bellissima, dagli occhi colore dell’ambra a seno nudo, parzialmente coperto da una strana collana, coloratissima? Perché gli appare mostrandogli la stessa croce ansata che lui ha al collo? Cosa gli vuol ricordare?
Quella croce della vita, o Ankh, è passata di mano in mano attraverso i tempi: dalla dodicesima dinastia egizia di 1900 anni prima di Cristo, alla campagna napoleonica d’Egitto del 1798, al 1848 nella prima guerra d’indipendenza Italiana, fino ai giorni nostri. Dalle mani di Sithathoriunet, principessa egizia e prima sacerdotessa, com’è giunta al capitano di cavalleria napoleonica Etienne Rosseau ed infine a Sandro, volontario bergamasco al seguito del regio esercito di Sardegna? Tutto ciò, si lega in un unico fine.
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Anteprima del libro
Nei secoli e per sempre - Guglielmo Antonello Esposito
GUGLIELMO ANTONELLO ESPOSITO
" NEI SECOLI E PER SEMPRE"
Atile edizioni
PREFAZIONE
Il romanzo dello scrittore Esposito Nei secoli e per sempre
è il risultato di un lavoro che unisce racconto di fantasia a eventi e fatti storici reali. Il protagonista, Sandro, viaggia nel tempo dal 1848 fino ai giorni nostri. Qui con l'aiuto di una giovane donna si spiegherà il perché di quel viaggio nel tempo
. Sandro scoprirà così che il tutto risale a circa 1900 anni prima di Cristo e ad un antico amuleto passato di mano in mano e giunto a lui. Un testo che unisce fantasia e aspetti storici che incuriosiscono il lettore. Lo scrittore è riuscito ad amalgamare bene i due tratti e a scrivere un romanzo che porta il lettore non solo a lasciarsi prendere dalla trama ma anche a farsi incuriosire dai tratti storici presenti in esso.
Enrica Mossetti
NEI SECOLI E PER SEMPRE
Egitto oasi di Hathor XII dinastia egizia
1820 anni prima di Cristo
L’interno della grande sala del tempio, era rischiarato da torce alloggiate negli appositi anelli fissati alle pareti. L’aria calda, d’inizio della stagione di Akhet nel Basso Egitto, era resa ancor più afosa, dal calore resinoso emanato dalle fiaccole. Sopra un grande scranno, sedeva la vecchia sacerdotessa avvolta in una coperta, insensibile al caldo soffocante di quell’ambiente. Le sue vecchie ossa avevano sempre freddo ed i suoi occhi, non sopportavano più il sole dell’Egitto.
Al contrario, ai suoi piedi, sudava profusamente lo scriba seduto a gambe incrociate, sulle quali vi poggiava una tavola di legno, con sopra ben teso un foglio di papiro. L’uomo era a torso nudo e con capo rasato: l’unico segno di vanità, erano gli occhi truccati come da usanza, dai quali il colore tendeva a sciogliersi, a causa del sudore, colando sulle guance. Lo scriba stava attendendo da lungo tempo, quando la sacerdotessa parve destarsi ed i suoi occhi ancora vivaci, colore dell’ambra, brillarono alla luce delle torce mentre la sua tenue voce, cominciò a dettare:
" Io Sithathoriunet, figlia di Re Senousret II° e, come tale, principessa dell’Alto e del Basso Egitto. Per quasi tutta la mia vita sono stata la prima sacerdotessa dell’oasi dell’occidente che ora è di Hathor. Il mio nome è una dedica alla dea Sit Hathor Yunet
il cui significato è
È mia pretesa che su questo papiro vengano scritte le mie ultime volontà: il mio tempo sta per finire ed è giunto il momento che io lasci l’oasi e vada a morire dove nacqui. È mia volontà, affinché dopo la mia morte, io venga preparata per la traslazione e, dopo settanta giorni da quest’ultima come da volere di mio padre, il mio corpo venga tumulato accanto a dove già giace il suo, così che io possa intraprendere il viaggio per l’aldilà, dove incontrerò Hathor e in lei vivrò assieme ai miei antenati. È mia pretesa, giacché io iniziai, che in quest’oasi continui il culto della dea, venerandola attraverso la statua che le ho dedicato: è mia volontà che, ogni giorno, venga esposta ai raggi del dio Ra, padre di tutti gli dei. Il mio Ankh e croce della vita, fu scolpito per me nel miglior avorio nubiano e mi fu consegnato a Dendera, città della dea, dal sommo sacerdote del tempio il giorno stesso che mi consacrò ad Hathor: è mia volontà che l’amuleto che mi ha accompagnata sin ora, venga ereditato dalla sacerdotessa più meritevole che mi sostituirà. Quest’ultima venga scelta in consiglio tra le sacerdotesse ed infine dal sommo sacerdote dell’oasi il cui arbitrio è indiscusso. Così sia, per le prossime generazioni e nei secoli dei secoli."
Luglio 1848 basso cremonese, sponda sinistra del fiume Adda
La battaglia di Custoza aveva sancito la sconfitta finale dell’esercito del Regno di Sardegna: i piemontesi si stavano ritirando incalzati dalle truppe austriache del feldmaresciallo Radetzky. La guerra iniziò a marzo, provocata dalla ribellione del popolo milanese a causa dei soprusi subiti dagli invasori. L’insurrezione sfociò nella guerriglia urbana delle
Fra questi c’era Alessandro, da tutti chiamato Sandro: con i suoi trentotto anni, non più giovane ma, nonostante ciò, aveva chiuso la sua fucina da maniscalco e si era arruolato, non certo per spirito patriottico ma per potersi vendicare e dare morte a coloro che gli avevano tolto tutto ciò per cui viveva. Non aveva mai imbracciato un’arma fino a che non fu costretto dagli eventi luttuosi provocatigli dai soldati stranieri: questi, in pochi mesi, avevano distrutto la sua esistenza. Lui, nato senza famiglia, ne aveva trovata una ed ora l’aveva persa. Per questo era lì.
Non avrebbe mai immaginato di trovarsi in quella situazione: fino a pochi mesi prima, la sua vita era stata felice e ordinaria, basata sul lavoro e la famiglia, vissuta in un paese di campagna, lontano dagli eventi metropolitani.
La storia di Sandro cominciò nell’anno 1810, l’anno della sua nascita, avvenuta in un luogo ignoto, in terra bergamasca. Allevato in un istituto per trovatelli all’interno di un ospedale, lì rimase fino al compimento del suo dodicesimo anno, il termine di età in cui i ragazzi dovevano lasciare il brefotrofio, non prima della consueta iscrizione all’anagrafe: la prassi esigeva che fossero registrati con il cognome Esposito
identificandoli in società, come Casa Pia degli Esposti
dell’Ospedale San Marco, il maggiore di Bergamo.
Alessandro Esposito iniziò la sua nuova vita, fuori dal brefotrofio, in un paese della stessa provincia, lavorando per chi lo adottò. Solitamente, questi trovatelli, venivano adottati come forza lavoro da artigiani o contadini che, in cambio della loro manodopera, offrivano sostentamento con vitto e alloggio. Raramente qualcuno trovava una vera famiglia che offrisse loro un’istruzione scolastica, più avanzata, oltre a quella ricevuta in istituto. Sotto questo aspetto, Sandro fu fortunato. Venne adottato da mastro Domenico Ravizza, proprietario di una fucina da maniscalco. Domenico era una persona molto ben vista in paese ed era scapolo. Con Sandro fu burbero e severo ma, fondamentalmente, buono. L’uomo gli insegnò il mestiere facilmente, aiutato dalla grande volontà di apprendere del ragazzo e dalla sua instancabile voglia di lavorare: per questa sua intraprendenza, non era raro che Sandro, durante i mesi della mietitura, assieme ad altri amici, aiutasse i contadini nei campi. Ciò lo rese apprezzato da tutti in paese, rendendo orgoglioso Domenico che, col passare del tempo, lo considerò alla stregua di un figlio. In questo contesto crebbe, come tutti i suoi coetanei, con i canoni della provincia bergamasca fatta di lavoro da lunedì a sabato, messa e catechismo la domenica mattina e divertimento, nell’oratorio maschile della parrocchia, la domenica pomeriggio giocando a
" Stà atènt perché, töcc i àgn, l’Ada la öl ól fécc!"
( Fai attenzione perché, tutti gli anni l’Adda pretende che le si paghi l’affitto!)
E non a torto Domenico diceva ciò: tutte le estati, il fiume si prendeva l’affitto, portandosi via la vita di qualche giovane, e sprovveduto, abitante dei paesi rivieraschi.
Ma a parte qualche marachella adolescenziale, divenne un bravo ed apprezzato maniscalco, per il vanto di mastro Domenico. Con il passaggio all’età adulta, dall’oratorio il divertimento passò all’osteria, il sabato sera, per giocarsi a carte o alla morra, il litro di vino poi condiviso con gli amici. Successivamente arrivò anche l’amore per quella ragazza dalla pelle bianchissima con occhi di un azzurro intenso e dagli insoliti capelli rossi come il fuoco… Lucia. Quando la incontrò, si innamorò a prima vista. Lei, quel giorno accompagnava il dottor Carminati, il nuovo medico del paese, era sua figlia e si presentò con il padre alla fucina, per una nuova ferratura al loro cavallo: anche per Lucia fu amore immediato.
Da quei tempi erano passati molti anni. Ora lì, sulla sponda cremonese dell’Adda, Sandro, sedeva con la schiena appoggiata ad un tronco d’albero e stava scrivendo, approfittando della strana calma: a parte il rumore del carreggio e dei passi dei soldati nel fango, che andavano al ponte di barche per l’attraversamento, non si era sentito un solo sparo da tempo. Faceva caldo lì vicino al fiume, l’afa di fine luglio, in quella zona acquitrinosa, era insopportabile. Le armi tacevano da ore: dopo molti giorni, sembrava che anche gli austriaci fossero stanchi della guerra, così ne approfittò per aggiornare il proprio diario.
Dopo tanto tempo, ho ritrovato la voglia di scrivere le mie memorie. A dire il vero non ricordavo nemmeno più di avere con me un diario perché ho passato mesi tremendi. Sono anche stato ferito, nulla di grave ma pur sempre una baionettata alla coscia…>.
Staccò gli occhi dal diario, pensando a quanto fosse stato fortunato quella volta, questa constatazione lo portò a ricordare i fatti di quel giorno: una delle prime operazioni a cui partecipava, assieme a cinquanta volontari capeggiati da un sottoufficiale piemontese, avevano ricevuto l’ordine di fermare o annientare un carriaggio di approvvigionamenti nemici; sorpresero i tirolesi, accerchiandoli, intimando loro di deporre le armi ed arrendersi. Alcuni lo fecero, qualcuno fuggì, altri opposero resistenza, provocando una sparatoria che si concluse, senza colpo ferire, con l’arresa del nemico. Sembrò che tutto fosse filato liscio e Sandro sentì l’adrenalina scemare: aveva ancora l’arma carica, non aveva avuto modo né motivo per sparare ma, l’agitazione del momento, gli provocò un imminente bisogno di urinare e mettendosi il moschetto a tracolla, si allontanò dal gruppo per poter espletare il proprio bisogno. Mentre tornava dagli altri, vide che si stavano occupando dei prigionieri e che avrebbe dovuto sbrigarsi per poterli aiutare. All’improvviso un rumore di frasche, mosse energicamente alla sua destra, lo allarmò e girandosi in quella direzione, vide sbucare improvvisamente da un cespuglio, un nemico: sembrava inferocito, in preda al delirio e lo stava attaccando a baionetta tesa. Ricordò in quel mentre, la sensazione dell’adrenalina che tornava a scorrergli velocemente nelle vene, tutti i sensi acuirsi e il tempo rallentare: tolse il moschetto da tracolla, armò velocemente il cane, puntò l’arma sul tirolese che si avvicinava digrignando i denti con occhi scintillanti d’odio, tirò il grilletto liberando il cane che scattò sfregando la pietra focaia, scaturendo scintille che incendiarono la polvere di carica; il suo moschetto fece fuoco mentre la nube di fumo fuoriuscita dallo scodellino, gli annebbiò la vista. Non vide il nemico ma sentì un dolore lancinante alla coscia destra, che gli tolse le forze facendolo cadere. Fu colpito dalla lama dell’austriaco, prima che quest’ultimo fosse centrato dalla palla del suo fucile, sparatagli a bruciapelo. Il corpo del nemico fu scaraventato all’indietro dall’impatto del proiettile e giaceva esanime in una pozza di sangue. Lui, fortunatamente, fu solo ferito e non gravemente: la lama non aveva tagliato nessuna arteria ma gli recise il muscolo fino all’osso.
Accantonò il ricordo, riprendendo a scrivere:
Là sul Mincio, vicino al lago e sui colli del mantovano, ci hanno pesantemente sconfitti ed obbligati ad una repentina ritirata, dopo averci incalzato senza tregua ma ora, stranamente, le armi tacciono e non v’è presenza del nemico. Adesso stiamo aspettando di attraversare L’Adda ma non sta giungendo alcun ordine a riguardo. Siamo bloccati qui, in attesa di direttive. In questo posto il caldo è tremendo. Gli indumenti di lana e l’equipaggiamento lo rendono ancor più insopportabile. Noi volontari, e qualche decina di soldati e artiglieri piemontesi, stanziamo sulla sponda cremonese per coprire l’attraversamento del resto dell’esercito regio. Siamo l’ultima linea difensiva verso Milano, per modo di dire: le armi sono in gran parte inservibili o funzionano male, come i nostri moschetti, resi inutili dall’incuria di questi mesi. Ora, a rendere peggiori gli elementi, oltre al morale ormai basso dei soldati, c’è la dissenteria che sta dilagando tra la truppa, io sono stato tra i primi ad ammalarmi ma ora sto meglio. Purtroppo per chi ancora sta male, l’ambiente paludoso dove siamo appostati, non fa che peggiorarne la situazione. Ma tutto ciò è stata una mia scelta, ho preso le armi per vendicarmi. Allora ignoravo quello che mi sarebbe capitato: credevo alla guerra come mezzo che mi avrebbe permesso di affrontare quei dragoni a cavallo, o quegli ungheresi ubriachi, che hanno rovinato la mia vita e poterli così eliminare, in nome dei miei cari scomparsi: era il minimo che potessi fare per Lucia e Domenico però, il più delle volte, ho visto solo volti di ragazzi impauriti, uomini come noi con l’unica differenza di indossare una casacca di diverso colore. Questi mesi di guerra, hanno espresso la più bassa delle situazioni umane: sporcizia, paura, terrore e viltà. A volte mi sono trovato davanti al nemico e attorno a me, ho visto gente piangere, alcuni vomitare ed altri farsela addosso. Già, questa è la cruda realtà. In quegli scontri per la sopravvivenza, tutti gli istinti più brutali di noi stessi si esprimono: non si ha più nulla da perdere e allora si urla selvaggiamente in faccia ai nemici, da una parte e dall’altra, come se gridare potesse esorcizzare la morte ma... poi, quest’ultima, per molti arriva. Fino ad ora me la sono cavata, ho subito solo una ferita ma ho visto molti commilitoni perire, ho visto uomini morire nel loro sangue e nei loro escrementi, ho visto occhi opacizzarsi nel sopraggiungere della morte… anche per mano mia. Non c’è onore nella guerra, in qualsiasi guerra, anche in quella che combatté il francese che mi donò la strana croce che ho sul petto. A volte penso che questo strano simbolo, allacciatomi al collo, mi porti fortuna e mi protegga ma... avrei voluto che proteggesse anche gli altri che non ce l’hanno fatta, alcuni erano semplici conoscenti... altri, come Paolo, amici lo eravamo diventati, fino a che lui se n’è andò al Creatore. Se n’è andato nel modo più stupido che questa guerra potesse offrire, colpito dalla palla di un moschetto amico sparata per errore. Aveva soli venticinque anni e una sposa a casa che lo aspettava. Gli ho tenuto la testa tra le braccia per dargli conforto, lo tenni così stretto finché i suoi occhi si sbarrarono nel fuggire della vita, occhi azzurri, gli stessi di Lucia…>.
Il pensiero dell’amata lo fece smettere di scrivere e, istintiva-mente, strinse l’amuleto che aveva al collo, quell’antica e strana croce sormontata da un ovale che gli era stata donata e di cui ne ignorava il significato ma al cui contatto, provava sollievo. Ciò lo immerse nei ricordi del tempo passato con lei, momenti felici fino a quel 3 gennaio maledetto.
Con la mente tornò al loro matrimonio: sentì il profumo dei fiori di tiglio che, in quel giorno sereno, permeavano l’aria come un piacevole contorno al seguito di quella giornata. Era inebriato da quel profumo ma lo fu ancor di più, vedendola salire gli scalini del sagrato, vestita di bianco con i suoi bei capelli rossi raccolti a crocchia. Era bellissima. Entrarono in chiesa, mano nella mano, per ricevere l’agognata consacrazione del loro amore. Dopo la funzione, la festa proseguì con il pranzo condiviso coi parenti sotto il porticato di casa di Lucia e poi seguirono i balli, accompagnati dalla musica di una fisarmonica. Fu una bella giornata che si concluse a tarda sera: proseguì, per loro due, nell’intimità della nuova abitazione, liberi da ogni restrizione e divieti imposti in quattro anni di fidanzamento. Ricordò come, senza nessun pudore, Lucia gli si parò davanti in tutta la sua nudità: Sandro non