Quaderni del carcere. Antologia: a cura di Mario Di Vito
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I Quaderni del carcere sono la raccolta degli appunti, dei testi e delle note che Antonio Gramsci iniziò a scrivere dall'8 febbraio 1929, durante la sua prigionia nelle carceri fasciste. Da una parte Gramsci considerava lo scrivere un esercizio contro l'inaridimento e la solitudine causati dalla vita carceraria, dall'altra aveva la chance di teorizzare in autonomia da questioni politiche contingenti. In questa antologia la selezione e divisione in capitoli del curatore è “effettuata nell'ottica della maggiore chiarezza possibile, anche per dare la possibilità, a chi ne sia completamente all'asciutto, di avere un quadro generale del pensiero di Antonio Gramsci”.
L’Autore: Antonio Gramsci, per la statura del suo impegno intellettuale e politico è considerato una tra le maggiori figure della prima metà del Novecento italiano. Membro del PSI e fondatore de L'Ordine Nuovo (1919), fece parte dell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Divenuto segretario del Partito Comunista d'Italia e deputato, affrontò la questione meridionale, indirizzando la politica dei comunisti verso l'unione con i socialisti massimalisti. Nel 1924 fondò il quotidiano politico l'Unità. Per la sua attività e per le sue idee fu condannato a venti anni di carcere. Il suo pensiero politico si articolò in una rilettura globale dei fenomeni sociali e politici internazionali dal Risorgimento in poi, che lo portò a criticare lo stalinismo, a teorizzare il passaggio dalla "guerra di movimento" alla "guerra di posizione", a formulare i concetti di "egemonia" e di "rivoluzione passiva".
Il curatore: Mario Di Vito, classe 1989, giornalista. Lavora per Il Manifesto, scrive anche per A-Rivista Anarchica, Malamente e altre testate. Ha pubblicato i noir "Il male minore" (Edizioni Ae, 2016), "Due minuti a mezzanotte" (Fila 37, 2018) e il reportage narrativo "Dopo. Storie da un terremoto negato" (Poiesis/Lo Stato delle Cose, 2019).
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Quaderni del carcere. Antologia - Antonio Gramsci
978-88-944865-5-1
INTRODUZIONE
a cura di Mario Di Vito
Antonio Gramsci scrive i Quaderni del carcere tra il 1929 e il 1935. Condannato dal regime fascista a vent’anni di prigione, entrerà in carcere il 4 giugno del 1928 e riceverà l’occorrente per scrivere soltanto l’8 febbraio del 1929. La prigione è a Turi, in provincia di Bari, dove arriva il 19 giugno — in precedenza si trovava a Milano —, e lì, oltre che come famoso rivoluzionario, leader del partito comunista, agitatore e intellettuale è conosciuto come un numero. Antonio Gramsci è il detenuto 7047.
Il detenuto 7047, ogni giorno, passa una grande quantità di ore a camminare su e giù per la sua cella. Rimugina, le guardie forse pensano che stia impazzendo, che parli da solo, si stupiscono del fatto che quell’omino, con la testa incassata nelle spalle e l’espressione un po’ spaesata, sia il famigerato Antonio Gramsci. Dopo aver passeggiato, Gramsci si inginocchia su uno sgabello, si china sul tavolino e comincia a scrivere.
Poi si alza di nuovo, torna a camminare, si inginocchia e scrive, scrive, scrive. Finirà sei anni più tardi, ormai fuori di prigione, visto che otterrà la libertà condizionale nell’ottobre del 1934. Nelle intenzioni del suo autore, i trentatré Quaderni non sono destinati alla pubblicazione, che, infatti, avverrà soltanto negli anni Quaranta, curati da Felice Platone sotto la supervisione di Palmiro Togliatti in persona. E l’ordine dell’opera, dunque, in un certo senso non è diretta espressione di Gramsci, che si è limitato a riempire le pagine con riflessioni e appunti sparsi. La numerazione, ad esempio, è merito di sua cognata Tatiana Schucht, che così li affida all’ambasciata sovietica di Roma, grazie alla quale arrivano fino a Mosca.
Il detenuto 7047 scriveva in completa solitudine e questo non è un particolare di secondaria importanza: vuol dire cioè che i suoi pensieri non erano mediati dal dibattito pubblico — di cui comunque aveva notizia — e dunque si presentano in tutto e per tutto autonomi rispetto non tanto agli accadimenti del periodo in cui venivano scritti, quanto al clima che si respirava nel resto d’Italia. Non bisogna dimenticare, infatti, che è agli inizi degli anni ’30 che Mussolini si trovava sulla cresta dell’onda della sua popolarità in patria e all’estero.
Gramsci ne era consapevole, e dunque, si parva licet, considerava i suoi Quaderni come esercizi per resistere alla durezza della vita dietro le sbarre. Allo stesso tempo, però, questa condizione aveva fatto nascere in lui l’idea che quello che stava facendo potesse davvero essere consegnato all’eternità, visto e considerato che il pensiero era in qualche modo liberato dalla politica e dalle contingenze. L’operazione riuscì fino a un certo punto: le condizioni di salute di Gramsci non fecero che peggiorare dal suo ingresso in carcere in poi — uscì per quello, e nel 1935 smise di scrivere proprio perché non ne era più in grado — e dunque il senso finale dell’opera, in conclusione, appare approssimativo sia agli occhi dei lettori sia per lo stesso autore. Restano spunti, riflessioni, pagine intere in cui si racconta un mondo possibile, ancorché in quel periodo lontanissimo, tanto nel tempo quanto nel pensiero.
In questa selezione di scritti dai Quaderni dal carcere ci si propone di toccare tutti gli argomenti affrontati da Gramsci nella sua opera, attraverso i passi che appaiono più significativi.
La divisione in capitoli tematici, ognuno con una breve introduzione, è volta soprattutto a cercare di dare al lettore una visione il più possibile ampia e allo stesso tempo sintetica del pensiero gramsciano.
NOTA METODOLOGICA
Questa antologia dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci è stata divisa in sezioni:
- Egemonia
- Il ruolo degli intellettuali
- Benedetto Croce
- Risorgimento
- Folklore
- Appunti su arte e letteratura
La divisione è stata effettuata nell'ottica della maggiore chiarezza possibile, anche per dare la possibilità, a chi ne sia completamente all'asciutto, di avere un quadro generale del pensiero di Antonio Gramsci. Trattandosi di una selezione di testi, ovviamente parziale, la divisione in sezioni serve a fornire la più ampia panoramica possibile sul pensiero gramsciano dei Quaderni. Si noterà che manca una sezione dedicata alla cosiddetta questione meridionale
, tema tradizionalmente associato ad Antonio Gramsci. La questione
non è tuttavia elusa, ma è rintracciabile in ogni capitolo, specialmente in quelli relativi al ruolo degli intellettuali e al Risorgimento.
Ogni testo riportato cita le indicazioni del quaderno nel quale è contenuto. Si rimanda, per il resto, alla bibliografia compilata alla fine del volume.
EGEMONIA
Il concetto di egemonia è centrale nel pensiero di Antonio Gramsci. A voler azzardare una definizione sintetica, si potrebbe dire che egemonia è il termine che viene usato per indicare le varie forme di dominio culturale nella società. Dominio che viene esercitato da una classe dominante, ovvero in grado di imporre il proprio punto di vista alle altre. La letteratura al riguardo del concetto di egemonia, almeno secondo la bibliografia gramsciana curata da John Cammet, consta di circa 650 testi. Questo solo per dare un'idea della vastità del dibattito generato dalla questione.
Quaderno 23 (VI) (§57)
La cultura nazionale italiana
Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica («Pegaso», agosto 1930) Ugo Ojetti fa due osservazioni notevoli:
1)Ricorda che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori e quella «des honnêtes gens», cioè del pubblico «illuminato», che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo e attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico (cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio illuminato come esiste in Francia), «manca la persuasione o, se si vuole, l’illusione che questi (lo scrittore) compia opera d’importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perché, come ella (il Fracchia) dice ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e così è sempre stato, e così sarà sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l’importanza, la grandezza, il valore e la durata
. Giusto, ma non in Italia ecc.». (L’Ojetti prende spunto dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S.E. Gioacchino Volpe, pubblicata nell’«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 e che si riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell’Accademia in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra l’altro: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente, vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all’ascesa, alcune buone e promettenti realizzazioni»).
2)L’altra osservazione di Ojetti è questa: «La scarsa popolarità della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. È vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici ecc. ecc.». Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c’è continuità e unità. L’affermazione di una continuità ed unità è solo un’affermazione retorica o ha valore di mera propaganda suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare artificialmente ciò che non esiste, non è una realtà in atto. (Una certa continuità e unità parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono spezzate col D’Annunzio e successori). Il passato, compresa la letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura libresca e scolastica; ciò che poi significa che il sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene dire che esso è solo ancora in via di formazione, riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».
Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S.E. G. Volpe si possono estrarre altri brani tipici: «Solo un po’ 〈più〉 di coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare l’elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.». Il Volpe aveva un po’ «sul serio» parafrasato i versi giocosi del Giusti: «Eroi, eroi, che fate voi? — Ponziamo il poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature.
Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano troppe traduzioni di misure legislativecorporative che proteggano gli scrittori italiani (è da ricordare l’ordinanza del sottosegretario agli interni on. Bianchi, poi «interpretata» e di fatto revocata, e che era connessa a una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del Fracchia già citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e che oggi si riconosce non valgono nulla. All’ingrosso il fatto è giusto, ma se ne deve dedurre che l’attuale periodo letterario non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla vita nazionale effettiva, sicché neanche per «ragioni pratiche» vengono esaltate opere che poi magari potrebbero essere riconosciute artisticamente nulle perché la loro «praticità» sarà stata superata. Ma è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono stranieri e ce ne sarebbero molti di più se fossero tradotti, come i libri di Remarque, ecc.
Realmente il tempo presente non ha una letteratura aderente ai suoi bisogni più profondi ed elementari, perché la letteratura esistente, salvo rare eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a gruppi ristretti che della vita nazionale sono mosche cocchiere. Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche ecc. Ma se i libri fossero esaminati da un punto di vista della storia della cultura, si lamenterebbe lo stesso e peggio, perché il contenuto ideologico e culturale dell’attuale letteratura è quasi zero, ed è, per di più, contraddittorio e discretamente gesuitico.
Non è neanche vero (come ha scritto l’Ojetti nella lettera al Fracchia) che in Italia non esista una «critica del pubblico»; esiste, ma a suo modo, perché il pubblico legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua disposizione. Perché questo pubblico preferisce ancora Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui romanzi gialli? D’altronde questa critica del pubblico italiano ha una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori, dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali ecc.
Né si tratta di esotismo al cento per cento, perché in musica lo stesso pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma all’estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. Questo fatto è la riprova più perentoria che in Italia c’è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la «sua» letteratura all’estero, perché la sente più «sua» di quella così detta nazionale. In questo fatto è posto un problema di vita nazionale essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura sia prodotta nella stessa comunità nazionale. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all’egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi ecc. D’altronde non si sa se il centro politico dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi di superarla: è certo però che i letterati, in questo caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i loro cervelli vuoti si accaniscono nell’esaltazione nazionalistica per non sentire il peso dell’egemonia da cui si dipende e si è oppressi.
Quaderno 22 (V) (§3)
Alcuni aspetti della quistione sessuale
Ossessione della quistione sessuale e pericoli di una tale ossessione. Tutti i «progettisti» pongono in prima linea la quistione sessuale e la risolvono «candidamente». È da rilevare come nelle «utopie» la quistione sessuale abbia larghissima parte, spesso prevalente (l’osservazione del Croce che le soluzioni del Campanella nella Città del Sole non possono spiegarsi coi bisogni sessuali dei contadini calabresi è inetta). Gli istinti sessuali sono quelli che hanno subito la maggiore repressione da parte della società in isviluppo; il loro «regolamento», per le contraddizioni cui dà luogo e per le perversioni che gli si attribuiscono, sembra il più «innaturale», quindi più frequenti in questo campo i richiami alla «natura». Anche la letteratura «psicanalitica» è un modo di criticare la regolamentazione degli istinti sessuali in forma talvolta «illuministica», con la creazione di un nuovo mito del «selvaggio» sulla base sessuale (inclusi i rapporti tra genitori e figli). Distacco, in questo campo, tra città e campagna, ma non in senso idillico per la campagna, dove avvengono i reati sessuali più mostruosi e numerosi, dove è molto diffuso il bestialismo e la pederastia. Nell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno del 1911 si dice che in Abruzzo e Basilicata (dove maggiore è il fanatismo religioso, il patriarcalismo e minore l’influsso delle idee cittadine, tanto che negli anni 1919-20, secondo il Serpieri, non vi fu neppure un’agitazione di contadini) si ha l’incesto nel 30% delle famiglie e non pare che la situazione sia cambiata fino agli ultimi anni.
La sessualità come funzione riproduttiva e come «sport»: l’ideale «estetico» della donna oscilla tra la concezione di «fattrice» e di «ninnolo». Ma non è solo in città che la sessualità è diventata uno «sport»; i proverbi popolari: «l’uomo è cacciatore, la donna è tentatrice», «chi non ha di meglio, va a letto con la moglie» ecc., mostrano la diffusione della concezione sportiva anche in campagna e nei rapporti sessuali tra elementi della stessa classe.
La funzione economica della riproduzione: essa non è solo un fatto generale, che interessa tutta la società nel suo complesso, per la quale è necessaria una certa proporzione tra le diverse età ai fini della produzione e del mantenimento della parte passiva della popolazione (passiva in via normale, per l’età, per l’invalidità ecc.), ma è anche un fatto «molecolare», interno ai più piccoli aggregati economici quale la famiglia. L’espressione sul «bastone della vecchiaia» mostra la coscienza istintiva del bisogno economico che ci sia un certo rapporto tra giovani e vecchi in tutta l’area sociale. Lo spettacolo del come sono bistrattati, nei villaggi, i vecchi e le vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare la prole (il proverbio che «una madre alleva cento figli e cento figli non sostengono una madre» mostra un altro aspetto della quistione): i vecchi senza figli, delle classi popolari, sono trattati come i «bastardi».
I progressi dell’igiene, che hanno elevato le medie della vita umana, pongono sempre più la quistione sessuale come un aspetto fondamentale e a sé