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Otto sogni
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E-book280 pagine3 ore

Otto sogni

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Info su questo ebook

L’importanza delle radici, di come la famiglia, le abitudini a volte possano ingabbiare e creare quegli appigli che anche a migliaia di chilometri ti tengono saldo nelle tue convinzioni, in quelle certezze che sono cresciute con te, quegli affetti che pur negli alti e bassi della vita rimangono sempre ancorati al tuo cuore.
La protagonista fa un viaggio, oltre che nei vicoli della sua Napoli, anche negli spazi più reconditi della sua anima alla ricerca di sé stessa. Non sempre allontanarsi è un rifiuto delle proprie origini, a volte si traduce in una temporanea rinuncia per meglio apprezzare l’emozione del ritorno, i ricordi dell’infanzia, i rapporti con una famiglia travolgente nei suoi rituali che impreziosiscono l’esistenza con brevi ma insostituibili frammenti di bellezza.

Valeria Russo Russo è una scrittrice emergente napoletana.
Ha vissuto in diversi Paesi per poi stabilirsi in Svezia dal 2021.
Scrive per passione da sempre, come strumento per ricordare persone, eventi e tutto quello che l’ha portata a una sua evoluzione personale.
Otto sogni è la sua prima opera completa.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2023
ISBN9788830682795
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    Anteprima del libro

    Otto sogni - Valeria Russo

    cover01.jpg

    Valeria Russo

    Otto sogni

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7783-8

    I edizione aprile 2023

    Finito di stampare nel mese di aprile 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Otto sogni

    My baby loves me, I’m so hungry

    Hunger makes me a modern girl

    Took my money and bought a donut

    The hole’s the size of this entire world

    My whole life

    Looks like a picture of a sunny day

    My whole life

    Looked like a picture of a sunny day.

    Modern Girl ‒ Sleater Kinney

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Sogno 1

    Il Mare dentro

    I miei piedi nell’acqua. I jeans arrotolati fino alla caviglia. Avevo 6 anni? Forse 7. Non ricordo. Ero bambina. L’odore del mare non riuscirei a descriverlo a nessuno. A volte penso: come spiegherei a un alieno l’odore del mare? E l’amore? Come potrei mai spiegare cosa si provi a sentire il vento? Non lo vedi, non puoi stringerlo fra le mani. È una forza invisibile eppure c’è. Come faccio a descrivere l’odore del mare, la carezzina che ti fa il vento, quando chiudi gli occhi e respiri il suo profumo? O quello che ruba da altre cose. Il vento non ha odore, sapore, colore. Non è un corpo. Trascina odori, semi, li sparge e trafigge corpi e cose. Viaggia ovunque e si mescola con altre cose, non fugge mai. Diventa pioggia, diventa nuvola. Come spieghi a un alieno l’odore del caffè? E la magia che gli odori hanno di riportarti sensazioni dimenticate oppure tenute nascoste, in attesa di uscire e di svegliarti. Di pizzicare il cervello per un bel po’ e renderti felice. L’odore della sabbia, quando torno a Napoli, la sensazione di calpestarla. Come se l’intero Mar Mediterraneo ti entrasse dentro. E vedo mia madre in lontananza, un ricordo sbiadito di lei con un grosso cappello di paglia. L’odore del caffè che scappa dalla tazzina di plastica, la puzza delle sigarette spente, le unghie lunghe e laccate di mia zia. Mio cugino grassottello, abbronzatissimo e il suo sorriso largo, solare. I riccioli ricoperti di sale e sabbia, tutti impiastricciati. Il sole che batteva forte sulla pelle, facendoti pulsare le tempie, ci rendeva matti e ci spogliavamo lì sulla sabbia, gettando via i pantaloncini per correre verso l’acqua, mentre le nostre madri gridavano in lontananza: La crema! Torna qui!. Come faccio a spiegare queste cose a chi non le ha mai provate? Come si spiega Napoli?

    Mi ero svegliata di soprassalto. Pochi istanti prima avevo 7 anni, camminavo verso il mare, lentamente. Calpestavo la sabbia affondando il piedino, avvertivo la pesantezza del mio corpo schiacciato dall’alto. Un’onda mi raggiunge, altissima e imponente, la vedo correre verso di me con violenza. Da lontano il Vesuvio si era colorato di viola e porpora, il cielo era grigio. Non avevo paura, provavo piacere nel sentirmi completamente impotente. La mia fine stava arrivando, ero prontissima. L’onda arrivava, sempre più minacciosa, impaziente di prendermi con sé. Un vortice nero si aprì nel mio petto di bambina, risucchiando l’onda e tutta la forza del mare. In quell’istante ho aperto gli occhi.

    Ero assonnata e ‘ammaccata’. Spalle e gambe accartocciate, collo dolorante. Mi risvegliavo a bocca aperta, spiando con la coda dell’occhio la mia vicina. Temevo che mi avesse vista in quella ridicola posizione, avevo anche un rivolo di bava penzoloni sull’angolo della bocca.

    Solo due giorni prima avevo deciso di optare per un nuovo taglio ‘sbarazzino’. Finalmente mi ero decisa ad andare da quel parrucchiere giapponese, quello che la mia collega adorava. Perfetto per i capelli scuri e doppi!. Non ero molto felice del risultato ed ero già stanca della larga frangia che mi copriva tutta la fronte. Come una sciocca volevo provare il classico taglio tanto in voga fra le ragazze molto più giovani e minute di me.

    Mi vergognai di me stessa e mi sentii sciocca.

    Controllo passaporto.

    Speravo che nessuno mi bloccasse, la mia carta d’identità aveva tutti i bordi consumati e ripiegati, alcune chiazze giallognole, ma la mia foto era stranamente decente, ragione per la quale non volevo cambiarla.

    L’uomo all’interno della piccola scatola di plexiglass mi osservò distrattamente e mi disse alquanto scocciato: arrivederci.

    Risposi: Thank you e arrossii. Non volevo apparire come la tipica italiana che dimentica la sua lingua di origine. Ma questo succede quasi a tutti, il tuo cervello deve lavorare sodo per sopravvivere in un altro Paese e tentare di non commettere errori grammaticali. Gli inglesi sono estremamente attenti e fieri della loro lingua madre. D’altronde molti di loro passano l’intera infanzia chini su libri di grammatica e punteggiatura. Da adulti si vedono sorpassati da chi appallottola vocali e consonanti, creando un impiastro con quella che, per loro, era la colonna portante del loro status sociale.

    Sorrisi e dissi: Mi scusi.

    Lui mi ignorò ed era già pronto a continuare il suo lavoro.

    Camminai a passo veloce verso il lungo nastro dei bagagli. Come al solito dovetti aspettare parecchio e tentai di distrarmi osservando alcune persone intorno a me.

    Un uomo chiacchierava animatamente con un altro uomo: "Vedi Nicò, io importo dalla Thailandia e rivendo nel mio store. Non ho bisogno di un e-commerce, capì? Per adesso mi conservo, come dire, puro?". Il suo interlocutore lo osservava concentrato, le braccia incrociate e la testa in un costante annuire.

    L’imprenditore gesticolava, le mani sembravano farfalle impazzite. Tentai di seguire quello che stavano dicendo ma il tono della loro voce si era abbassato, forse per evitare che qualcuno li potesse ascoltare, forse perché avevano notato che stavo origliando, nonostante fissassi il cartellone pubblicitario che avevo di fronte.

    Persi il filo e mi concentrai sul cartellone.

    Immagini di Pompei ed Ercolano modificate con effetti di luce e colore strabilianti. Filtri su filtri. Un pessimo lavoro del designer. Storsi la bocca, detestavo quei filtri ‘pacchiani’.

    Eppure mi venne voglia di prendere un treno e fiondarmi fra reliquie romane e pornografici affreschi pompeiani. Ricordai una statuetta di Bacco che vidi a una mostra al British Museum. La folla raccolta intorno a questo ometto di pietra, sorridente, mentre il suo sproporzionato fallo indicava le persone che aveva di fronte. Tutti intorno fingevano estremo interesse per l’artefatto, evitando con maestria unica che l’occhio cadesse su quell’assurdo pene di pietra. Mi venne da ridere ripensando a quel ricordo.

    Passai tante volte a Ercolano e Pompei, non agli scavi bensì alle città moderne, ai mostri di cemento, alle chiesette sparse ovunque e piene zeppe di preti e gente bigotta, il frastuono, il caos.

    Sorrisi ironicamente e presi dalla tasca il cellulare, per cambiare la scheda telefonica.

    Non appena inserita la scheda italiana, un grosso tubo sputò le nostre valigie che arrivavano verso di noi come carcasse di animali morti.

    Mamma, non c’è bisogno che chiedi a Carlo, prendo un taxi. Come? Ma quale costoso? Eddai mà, lascia stare Carlo, vengo con un taxi.

    Taxi signorina? mi chiese a bassa voce un frettoloso signore anziano.

    No, scusi. Non ancora, sono al telefono, magari dopo, grazie.

    L’uomo sparì in un istante.

    Mia madre aveva telefonato a mio cugino Carlo chiedendogli di venirmi a prendere in aeroporto. Ovviamente aveva accettato e ci eravamo messi d’accordo fino al giorno prima, tramite una lunga e infinita lista di messaggi via Facebook e WhatsApp.

    Il cellulare risultava spento, aspettavo da oltre mezz’ora.

    Carlo forse non aveva sentito la sveglia, adesso che ci pensavo, Carlo non aveva mai avuto una sveglia.

    Forse aveva avuto altro da fare, un’emergenza.

    Si era schiantato contro un muro.

    Carlo a ogni modo non era lì e io ero stanca e desiderosa di rivedere Napoli e mia madre.

    Ecco! Un

    sms

    da Carlo.

    Sono qui fuori. Mi devi scusare ma non trovavo parcheggio. Sei arrivata eh?

    Guardavo dal finestrino le gigantesche e grigie mura del carcere, sembrava quasi una fortezza antica, uno scudo che servisse non a proteggere la città da chi ospitava il carcere bensì l’opposto. Proteggere chi vivesse in quel Mondo da tutta la follia che c’era fuori.

    Carlo era proprio un bellissimo ragazzone. Spalle e busto larghi, grosse mani callose da lavoratore, denti dritti che si raccoglievano in un sorriso molto dolce, un nasino dritto e un po’ largo verso la punta, come quello di sua madre.

    Ma i tratti distintivi del Carlo della mia infanzia erano ancora lì, nei riccioli, nella postura, nello sguardo intenso. L’ansia e l’insicurezza in ogni suo piccolo gesto e il tono di voce sempre alto, il sorriso sempre stampato sulla faccia che si mescolava a improvvisi momenti ombrosi.

    Lo vidi piangere per la prima volta al funerale di suo padre.

    Fu traumatico per me sapere che il marciume del Mondo avesse colpito anche lui, anche quella persona solare, vivace e sempre positiva. Quel pensiero mi intristì.

    Allora Paolè, che dici? Come va a Londra? Eh, ormai sei ’na londinese doc!.

    Tutto bene, Carlè. Si va avanti. Ma non abito più a Londra, ti si scurdat’?.

    Ah già, aspè, dove vivi adesso? A Bristòl?.

    Sorrisi a denti larghi, non mi succedeva da tempo. Dovevo sempre forzare ogni mio sorriso, cercare di trovare un miraggio d’ironia dove sapevo non ce ne fosse.

    Inebriata dalla gioia di sentirmi nuovamente allegra per qualcosa che mi facesse davvero sorridere, prolungai quel piacere e risi forte, forse esagerando un po’.

    Carlo sembrava trarre energia dalla mia risata, si compiaceva di aver sortito un tale effetto su di me con una sciocchezza detta senza pensarci. ‘Bristòl’.

    Come si dice? Bristòl, Bistò, Bristò, ma che ne sacc’, ’sti inglesi hanno le città con nomi strani.

    Scè e a te che si dice? Che fai?.

    Sapevo benissimo cosa facesse, come si sentisse, anche in quel momento. Mia madre mi elencava ogni singolo evento della vita di Carlo, zia e vicini, raccontandomi aneddoti, gossip dell’ultima ora seguiti da lunghe storie grottesche, passando alla politica, continuando così per una o due ore. Ormai Skype era il suo piccolo sfogo con me mentre per me rappresentava la mia scatola di deliziose storielle e ‘inciuci’.

    Niente, niente di che, il solito.

    Aveva un’espressione molto seria. Mascherò il suo accento napoletano con un italiano un po’ artificioso.

    Fissò la strada di fronte a sé, smettendo di girarsi di tanto in tanto verso di me come un cucciolo di cane al suo primo giro in auto.

    Ho finito con gli scavi al Maschio Angioino e adesso posso partire in Umbria per il restauro di due chiesette, vediamo come va. Ma qui non c’è molto da fare, ti dirò. È uno schifo.

    Anche per gli scavi è uno schifo? Non sei contento di aver lavorato a quelli del Maschio Angioino? È una gran cosa, io lo trovo affascinante, strabiliante!.

    Carlo sospirò.

    Sì, sì, per carità, a me è piaciuto moltissimo figurati. Ma come al solito pagamenti in ritardo, gente che s’intromette, lavori portati a lungo e senza piani precisi, io sono stato quasi un mese senza stipendio mentre tutti si facevano belli con la storia dei grandi ritrovamenti, della nave, di questo, di quello, rà fessa, rà sora.

    Fece prima una sorta di falsetto e poi cambiò improvvisamente tono di voce, passando a un napoletano molto volgare e volutamente marcato.

    Mi fece ridere, parecchio. Dovevo darne atto, mia madre aveva avuto un’idea fantastica, Carlo era la persona ideale per me in quel momento, mi mancava così tanto quella sincera e genuina allegria.

    "Vabbè adesso non ti voglio ammorbare con le mie bellissime storie di vita vissuta. Che qui quando chiedi a qualcuno come gli va il lavoro parte ’na puntata di Ballarò live".

    Scoppiai in un’altra fragorosa risata e questa volta piansi e dovetti combattere con me stessa per evitare che quella botta di gioia, come una scarica di fuochi d’artificio che ti sorprende all’improvviso, mi prendesse e mi portasse via verso drammatici singhiozzi, lacrime di puro, gioioso e pazzo sfogo.

    Il rientro.

    Carlo, grazie mille, sei un tesoro davvero.

    Ma quale grazie e grazie? Ma che siamo estranei? Dammi ’sta valigia, vai al portone che tua madre ti aspetta, vai, ci penso io qui.

    Gli accarezzai la spalla e lo ringraziai di nuovo, sorridendogli.

    E corsi verso il portone.

    Non avevo le chiavi così citofonai.

    Pronto?.

    Uè mà, sono arrivata.

    Uè Paola, aspetta, ti apro. Carlo è con te?.

    Sì, sì, mi sta portando la valigia qui.

    E invitalo a casa, scusa, fallo salire.

    Ovvio mamma.

    Ok, allora vi aspetto. Si è aperto?.

    Le lunghe scale escheriane e quel vecchio ascensore rumoroso mi avevano riconosciuta. L’odore del condominio e il suo stranissimo silenzio ovattato. La pianta tropicale che spuntava in un angolo delle scale e lo zerbino della signora del piano terra, con tre semicerchi sbiaditi e peli di gatto sparsi ovunque.

    Ero ufficialmente a casa, e il mio corpo lo avvertì in ogni singola cellula.

    Mi sentivo rilassata, lasciai andare le spalle che man mano diventavano molli. Lasciai che tutto il peso che mi teneva tesa fino a quel momento si sciogliesse lentamente, lasciando di me solo una linea molle.

    Mia madre ci aprì la porta e finse di non essere emozionata.

    Ma glielo leggevo in faccia, vedevo gli angoli della bocca tremare, come se trattenesse le emozioni, come se queste spingessero dall’interno, battendo denti e labbra.

    Notai la sua chioma ordinata, dipinta di un bel colore nocciola brillante. Era evidente che per l’occasione fosse andata dal parrucchiere. Mi sentii profondamente lusingata.

    L’abbracciai e le diedi un bacio sulla guancia morbida e profumata di trucco.

    Lei mi tenne stretta a sé, e fece una strana risatina, come era solita fare con i bambini.

    Trattenni le lacrime sperando non si accorgesse della patina luccicante che mi copriva gli occhi.

    Mà allora, come stai?.

    Adottai per un attimo un tono di voce troppo informale, quello che usavo con gli amici. Per evitare di emozionarmi troppo, di commuovermi di fronte a lei.

    Tutto a posto.

    Lei fece altrettanto, mi rispose con un tono di voce che le sentivo usare con persone con le quali non aveva ancora molta confidenza.

    Carlo era rimasto fuori, reggendo la mia pesantissima valigia. Era rimasto muto, osservava la mia valigia, poi il pavimento, poi le sue scarpe, poi di nuovo la mia valigia. Si riposava solo un istante e ci sorrideva con cortesia, ma era evidente che non stesse ascoltando una singola parola.

    Lo notai ed esclamai: Oddio, scusa Carlo! Ti abbiamo lasciato qui fuori e io e mamma a chiacchierare sull’uscio della porta!.

    Mia madre sobbalzò e disse: Carlo, entra dentro! Vieni! Paolè, pure tu però che lo lasci lì fuori con sta valigia così pesante!.

    Carlo sospirò, io risposi trafelata: Mà, ma mi sono distratta un attimo, ti dovevo salutà no?.

    Scusate, ma sono io quello che stava come un friariello qui fuori con ’sta valigia che manco la regina Cleopatra!.

    Ma che hai portato? È pesante assai, Carlo, dai a me!.

    Sì, così tu cadi con la valigia e Paola si passa le ferie al Cardarelli appress’ a te.

    Carlo fece un gesto femmineo, aprendo i palmi delle mani come fossero ventagli e cambiando completamente tono di voce, da profondo e rimbombante ad acuto e civettuolo.

    Ci mancava così tanto tutto questo. Davvero, davvero tanto. Mia madre e io sospirammo all’unisono e ci guardammo complici: finalmente avevamo la nostra dose di quotidianità.

    La caffettiera borbottava e io rimasi lì a osservarla ipnotizzata. Completamente stregata dal suo lavoro lento e deciso. Di solito correvo a spegnere il fuoco e lasciare che tutta l’acqua salisse, che l’aroma uscisse come l’anima dal corpo, mentre il profumo si espandeva per tutta la casa.

    Invece restai ferma a osservare. Mia madre corse a spegnere il fuoco e prese tre tazzine coloratissime dalla credenza malconcia, seguendo quel lento dolce rituale che tanto mi rilassa.

    Carlo e mia madre si diedero uno sguardo complice.

    Carlo prese le tazzine, mia madre girava il caffè nella caffettiera. Sembrava tutto troppo meccanico, c’era qualcosa che mi insospettiva.

    Carlo aveva già messo lo zucchero nella mia tazzina.

    Uno e un pochino. Eh Paolè?.

    Mia madre si sedette e osservò le mie mani.

    Tutti e tre seduti in cucina, la tavola rotonda con la solita tovaglia di plastica dai motivi assurdi quali chicchi di caffè e fiori.

    Carlo ruppe quel lungo silenzio "Giuro che mi licenzio e

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