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Un coniglio bianco in una tormenta di neve
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Un coniglio bianco in una tormenta di neve
E-book364 pagine4 ore

Un coniglio bianco in una tormenta di neve

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Info su questo ebook

Paolo Serra è un uomo come tanti: gestisce un’agenzia immobiliare, ha una storia con una bellissima ragazza… Sempre che si possa definire una storia. In effetti le cose non vanno esattamente come spererebbe ma c’è qualcosa che lo tiene legato ad Alexis, più di quanto vorrebbe.
Quello che Paolo non può ancora sapere è che la sua vita sarà presto sconvolta, completamente… E proprio dalla morte della giovane. Ma chi era realmente Alexis? Forse aveva molti più segreti di quanti Paolo pensasse, segreti che rischiano di metterlo in pericolo.

Paolo Sanna è nato a Parma nel 1965. È vergine, in senso zodiacale ovviamente. Da bambino sognava di fare il vulcanologo, l’archeologo, il fumettista, non necessariamente in quest’ordine. Nel frattempo, ha conseguito il diploma di maturità artistica in arti della grafica, ha lavorato come impiegato di banca e come agente immobiliare. Nel 1990 è sopravvissuto, nemmeno lui sa come, a un grave incidente in moto. Da allora continua a chiedersi cosa dovrebbe fare della sua vita dopo che avrebbe dovuto morire ma è stato graziato. Nel 1995 ha cominciato a praticare immersioni subacquee, divenendo istruttore nel 2004. Questo gli ha insegnato ad andare a fondo nelle cose. Oggi lavora come libero professionista nel campo della consulenza finanziaria. Due anni fa la sua vena artistica, non potendosi sfogare con il disegno, è passata alla scrittura. Un coniglio bianco in una tormenta di neve è il suo primo romanzo, e ha già deciso che non sarà l’ultimo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788830631724
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    Anteprima del libro

    Un coniglio bianco in una tormenta di neve - Paolo Sanna

    neve

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Un umilissimo omaggio al mio scrittore di thriller preferito: Jeffery Deaver.

    E un ricordo dedicato a Giorgio Faletti.

    Dedicato a tutti coloro che in un libro giallo amano seguire

    gli indizi e scoprire l’assassino prima della fine del libro...

    In questo thriller è possibile... occhi aperti...

    Buona lettura.

    CAPITOLO 1

    Salgo ogni gradino. Ma non ho voglia di farlo. A ogni passo rimugino e seguo con gli occhi le venature del marmo che si snodano, spezzate, lungo la scala. In questo palazzo l’ascensore guasto è la norma. Da quando frequento Alexis l’avrò utilizzato tre o quattro volte in tutto. La legge di Murphy vuole che, se si conosce qualcuno in un palazzo dove l’ascensore è fuori servizio, deve abitare come minimo al sesto piano. Alexis, infatti, abita proprio al piano stabilito dal vecchio Murphy.

    Comunque, non è per questo che mi scoccia salire questi gradini. In realtà vorrei solo chiudere questa storia di SSS (Solo Sano Sesso) come dice sempre lei, sorridendomi, quando tento di andare oltre.

    La storia sta prendendo una piega sbagliata. Perdo il controllo ogni volta che vado a letto con lei. Mi sento in bilico: non vorrei rinunciare ad Alexis ma non intendo nemmeno soffrire.

    Sparisce per giorni a causa del suo lavoro, e anche quando è in città non sempre riusciamo a vederci. Mi tiene a una certa distanza, non mi fa entrare completamente nella sua vita. Questo mi innervosisce. Non mi piace una relazione che mi fa sentire così insicuro.

    Così non si va avanti. Dovrei davvero chiudere. L’ho deciso più e più volte senza riuscirci: oggi tenterò di nuovo. Forse quello che sento tra le scapole è solo il terrore di innamorarsi o di non essere all’altezza di chi si ama. Non lo so. Di sicuro la vita è più semplice se non si hanno legami. Poi io sono sempre teso e in attesa di un suo cenno... non è mai stato così per me, non ci sono abituato e non mi piace per niente.

    A ogni scalino qualcosa mi riporta fuori dai miei pensieri. Dagli appartamenti, tre per piano, mi arrivano odori a volte nauseanti che riempiono l’aria in modo ostinato ma per certi versi accogliente, caratterizzando questo luogo dalle fondamenta. A parziale compensazione di questo mio viaggio attraverso l’umanità del palazzo penso che quando lei aprirà la porta, i profumi d’incenso alla cannella o alla vaniglia, da lei indossati come abiti trasparenti e ipnotici, cancelleranno tutto il faticoso tragitto in salita uno scalino dopo l’altro.

    Mi accoglierà come al solito: succinto accappatoio color crema dopo la doccia, capelli ancora bagnati... decisa a eccitarmi dal momento stesso in cui varcherò la sua soglia.

    Se quello sia l’ingresso del paradiso o dell’inferno, io non lo so più, ma già temo che non riuscirò a portare a termine la mia missione.

    Arrivo finalmente alla meta, cerco nel mazzo delle chiavi quella della sua porta, la infilo nella serratura. Mentre spingo, noto con sorpresa che la porta non è chiusa. Strano, perché non ho suonato al citofono. Apro di più, la chiamo. Non risponde.

    Percorro il corridoio. Sulla mia destra supero un vecchio armadio utilizzato come guardaroba. Sempre sulla destra, passo a fianco del salotto e vado verso il bagno − che si trova in fondo, di fronte a me − convinto di trovarla lì, ma all’altezza della cucina il cuore perde colpi.

    Sembra non ci sia abbastanza aria, non riesco a respirare, non posso credere a ciò che vedo, cado in ginocchio con le mani sulla bocca spalancata per impedire che da quell’apertura mi sfugga l’anima. Mi accorgo di essere in un lago rosso e denso. Sento freddo e comincio a tremare. Con un gesto inconsulto e fulmineo mi spingo all’indietro sbattendo violentemente la schiena contro la parete dietro di me. Credo di aver urlato. Non ne sono certo: le mie orecchie fischiano come se la pressione dentro la mia testa fosse salita alle stelle.

    Scivolo lungo la parete fino al pavimento. Rimango seduto a fissare Alexis. Lei mi guarda in modo vacuo, persa nel nulla. Il tempo non scorre più, è come stare in una bolla. Finché in distanza sento delle voci. Mi chiamano, qualcuno mi scrolla, alzo lo sguardo, non riesco a capire cosa succede, un uomo in divisa si china sopra di me, non è solo, muove la bocca ma non sento alcun suono, lo osservo inebetito, mi fruga scuotendomi come una bambola di pezza, trova il mio portafoglio, non sono sicuro ma mi sembra un poliziotto, perché un poliziotto mi sta perquisendo, perché hanno chiamato la Polizia?

    Smetto di fissare l’agente. Cercano di farmi alzare senza pestare il sangue sotto di me. Perché c’è sangue sotto di me e sulle mie mani? Tento di pulirmi, ma con poco successo, non riesco a pensare chiaramente e ho le gambe di burro. Torno a guardare il corpo esanime a pancia in giù davanti a me circondato da persone in tute bianche. Oh mio Dio... ora ricordo... Alexis è morta.

    Cammino come un ubriaco, ipnotizzato dai miei passi che lasciano impronte rosse sempre più sbiadite. L’agente che mi sostiene ha sovrascarpe blu e guanti in lattice. Il loro odore è nauseante, cado in ginocchio, vomito, tutto diventa nero.

    CAPITOLO 2

    Questo posto non mi piace, puzza di varia umanità, io puzzo di sangue, il suo sangue.

    Quando sono rinvenuto mi hanno tolto i vestiti e le scarpe, mi hanno dato qualcosa di troppo largo e ruvido da mettermi addosso, mi hanno trascinato al commissariato infilandomi in una macchina della Polizia con una mano sulla testa per non farmi sbattere contro il tettuccio, sotto di me le gomme stridevano, le sirene mi sfondavano i timpani.

    Ora sono seduto su una sedia scomoda. Non riesco a muovere le mani e sento un metallo freddo intorno ai polsi. Ho le dita nere d’inchiostro. Dopo un servizio fotografico completo, infatti, mi hanno preso le impronte. Sto vivendo in terza persona come se fossi lo spettatore dell’incubo di un altro. Non riesco a parlare. Ho provato, ma dalla bocca non mi esce alcun suono.

    «Mi sente? Sono il commissario Giorgi, Annibale Giorgi. Riesce a capirmi? Signor Serra...»

    Lo guardo. Perché sono qui? mi chiedo Non ho fatto nulla. (La mia è una conversazione tra pochi, giacché si svolge solo nella mia testa). Finalmente riesco a parlare e rispondo.

    «La sento.»

    «Sa dove si trova? Ricorda cosa è successo?»

    Lo guardo di nuovo. Certo che so cosa è successo, stronzo. Alexis è morta. Questo pensiero mi fa sentire male, abbasso lo sguardo e inizio a piangere.

    Il commissario Annibale Giorgi è un uomo alto, un po’ sovrappeso, apparentemente forte, schietto e diretto.

    M’interroga per più di tre ore, ma non riesce ad ottenere le risposte che vorrebbe. Alla fine, credo comprenda che sono in stato confusionale. Con noi nella stanza, oltre ad un agente che piantona la porta, c’è una donna mora molto gentile che sembra stia valutando quanto io sia in grado di reggere la situazione. Sento che parlotta con il commissario.

    «Non credo sia in grado di sostenere un nuovo interrogatorio. Gli dia modo di riposare e capire cosa sta capitando, tornerà a interrogarlo più tardi.»

    «Dottoressa, questo tizio è sospettato di omicidio: vuole che lo porti in una SPA, così magari si riprende dallo stress di aver massacrato una donna a coltellate?»

    «Non ci sono prove e non credo che insistere le sarà di aiuto, dottor Giorgi. Non credo proprio.»

    Sento i loro discorsi ma non capisco, davvero non capisco. Io sospettato dell’omicidio di Alexis? Che cazzo dicono?

    «Mi chiamo Paolo Serra...» biascico come se avessi la lingua gonfia, sembro drogato. «... e non c’entro con la sua morte».

    I due davanti a me si guardano con aria compiaciuta. Per catturare il mio sguardo puntato sul pavimento, la donna mora si abbassa quasi a finire in ginocchio, e da quella posizione mi parla.

    «Signor Serra, sono la Dottoressa Lanfranchi, sono una psicologa e sono qui per aiutarla... Come si sente?»

    Tengo la testa bassa ma alzo lo sguardo verso di lei.

    «Posso farmi una doccia?»

    CAPITOLO 3

    La scena del delitto è sempre davanti ai miei occhi, quasi avessi un impianto nella retina. Mi rimbalza nella testa persistente, snervante, e durante la giornata nessuna attività che io intraprenda distoglie la mia mente da quel pensiero fisso.

    Perché dovevo essere proprio io ad arrivare per primo sul luogo del crimine? Una persona che mi portavo regolarmente a letto e che forse amavo, era stata ammazzata.

    Era bellissima: lunghi capelli biondo miele, sempre profumati e tagliati alla moda; occhi azzurri con quel cerchio più scuro intorno all’iride che incanta; un metro e settantacinque circa; slanciatissima e con un fisico sportivo. Usava indossare abiti che incorniciavano in modo perfetto quell’elegante progetto di Dio che era Alexis Bianchi, di padre italiano e di madre moscovita, un mix veramente ben riuscito che avrei preferito ricordare tra le mie lenzuola e non in una pozza di sangue.

    Sono passate due settimane da quando mi hanno rilasciato e cinque dall’omicidio, ma solo da qualche giorno riesco a mettere in fila pensieri che non siano contaminati da immagini di morte.

    Nei luoghi di sepoltura non mi sono mai sentito a mio agio, tantomeno mi ci sento adesso. In questi posti, quando fa freddo, fa più freddo del normale. O forse è il gelo dentro di me che qui riesce a emergere fino alla superficie attraverso i pori della pelle. Il cimitero in questione è di dimensioni enormi, tanto che non riuscivo a trovare la tomba di Alexis. Nei lunghi viali di questa città dei morti, tra lapidi vecchie anche più di cento anni e cappelle con frontoni che sembrano stati scolpiti da Fidia in persona, è possibile vagare per ore senza raggiungere la meta. Noi chiamiamo questo posto La Villetta, come se fosse una maison di campagna dove trascorrere momenti di riposo lontani dallo stress, solo che qui le vacanze e il riposo non hanno una fine: sono eterni.

    Non ricordo se fosse ortodossa o cattolica, se volesse essere cremata o seppellita. In ogni caso, il corpo è stato tumulato in un avello ad altezza viso che non ho potuto scegliere, anche se ho voluto che tutti i costi fossero a mio carico. Sono impazzito per trovarla, perché ero in stato di fermo e non sapevo dove era stata collocata. Mi hanno impedito di partecipare ai funerali e mi è rimasta attaccata addosso la sensazione di non averle detto addio. Per questo oggi, seppur con fatica, sono qui.

    Non posso biasimare gli inquirenti: ero, e forse sono ancora, l’unico sospettato. Logico, quindi, che l’autorizzazione a partecipare alla sepoltura della mia possibile vittima fosse difficile da ottenere.

    Il telefono vibra nella tasca posteriore dei jeans.

    «Pronto?»

    Dallo smartphone fuoriesce la voce calma e bassa del commissario Giorgi. Burbera e dura durante l’interrogatorio, diversa, quasi paterna, una volta convintosi a lasciarmi a piede libero.

    «Buongiorno Serra... disturbo? Avrei bisogno di chiederle una cosa molto importante».

    «Non mi disturba, dica pure».

    «Se la sentirebbe di accompagnarmi domani sul luogo del delitto della sua... della signorina Bianchi?»

    Mentre lo ascolto, non riesco a distogliere lo sguardo dalla foto di lei che mi guarda sorridente dalla lapide. Il suo viso fa capolino da dietro un enorme mazzo di fiori freschi: evidentemente qualcuno le ha fatto visita.

    «Sì, commissario. Sono disposto ad accompagnarla, anche se so che non sarà piacevole.»

    «Grazie della collaborazione. Verrò a prenderla domani alle 9, dica lei dove.»

    «L’aspetto da me, all’agenzia.»

    «Penso che la dottoressa Lanfranchi potrebbe esserci di aiuto, che ne dice?»

    «Nessun problema: anzi, la ringrazio per l’attenzione. Ma spero non mi serva più di tanto.»

    «Benissimo... allora ci vediamo domani.»

    «A domani. Buona giornata, commissario».

    Ripongo il telefono nella tasca posteriore dei jeans. I pensieri tornano ad assillarmi. Non posso fare a meno di piangere sommessamente.

    CAPITOLO 4

    Arrivo in ufficio alle 8,45.

    La mia agenzia immobiliare è situata molto vicino al centro. Parcheggio privato e molto spazio sul davanti, dove un piazzale di autobloccanti color cotto divide l’ingresso dalla strada. Si sviluppa su due livelli. Il primo è un pianterreno con vetrina: un’accogliente reception di legno chiaro e sulla destra, dietro una larga porta di ferro bianco e vetro satinato si trova invece la sala riunioni. Al piano rialzato c’è un open space con sei postazioni di lavoro e altri tre uffici, tra i quali il mio.

    L’arredamento è stato curato da Gianluca Gravi, un mio carissimo amico architetto. È pieno di oggetti cui sono molto affezionato: pezzi di artigianato o piccole opere d’arte da me acquistate in giro per il mondo. Mentre alle pareti sono appesi ingrandimenti di foto riguardanti i miei numerosi viaggi.

    Tutto è studiato per essere molto rilassante: colori caldi e finiture in legno. Verso sera, complici la luce soffusa di due lampade Arco di Castiglioni e un po’ di musica, si trasforma da caotico luogo di lavoro ad ambiente lounge.

    Era stato proprio nel mio ufficio che conobbi Alexis. Arrivò nel tardo pomeriggio, era verso la fine di febbraio. Aveva insistito con la mia segretaria per ottenere un appuntamento con me. Voleva lasciare l’appartamento che occupava in affitto all’ultimo piano di un palazzo della prima periferia e trasferirsi in una casa di classe in centro città. Raramente mi occupavo personalmente delle vendite: da parecchi anni ormai, erano i miei agenti a vendere al pubblico. Che volesse parlare proprio con il proprietario dell’agenzia mi stupì, ma quando si presentò in ufficio e la vidi, devo ammettere che ne fui felice. Le chiesi perché avesse scelto la Serra&Partners: rispose semplicemente di averla trovata su Internet e che dal sito le era parsa una delle migliori.

    Mentre ripercorro quegli eventi, la segretaria mi avvisa che sono arrivati, la Polizia è passata a prendermi.

    Il commissario, puntualissimo, mi sta aspettando presso la mia reception. Scendo lungo la scala, gli stringo la mano e insieme raggiungiamo una macchina senza insegne. Apprezzo molto la delicatezza di usare un’auto civetta, visto che nelle ultime settimane avevo già avuto fin troppa pubblicità non richiesta.

    «Ha già preso il caffè?»

    «Non ancora, commissario».

    Ci sediamo sui sedili posteriori. Giorgi mi scruta in modo strano ma è cortese come al solito, forse è solo una mia paranoia. Con voce ferma, ordina al poliziotto al volante di partire e di avviarsi verso casa della dottoressa Lanfranchi, specificando, però, di fare tappa al PreliBar per un caffè.

    La macchina parte con una lieve sgommata. Evidentemente gli autisti della Polizia hanno un forte senso del dramma, e anche nell’andare a prendere un caffè desiderano comunicare, con una guida scattante, una certa sensazione di efficienza.

    «Non è curioso di sapere come mai le ho chiesto di venire con me oggi?»

    «Devo ammettere che sono molto curioso, anche perché credo lei sappia quanto mi costi tornare in quel palazzo. Evidentemente ritiene importante la mia presenza...»

    «Proprio così. Sto cercando di aiutarla, e per questo motivo ho bisogno che lei aiuti me.»

    «Farò del mio meglio.»

    «Bene. Al nostro interno c’è ancora chi ha dei dubbi sulla sua estraneità ai fatti. La sua collaborazione sarebbe interpretata come un segnale di buona volontà. Capirà che non abbiamo molte piste da battere... qualcuno fa pressione perché la sua posizione sia esaminata daccapo. Del resto, le sue impronte sono state trovate dappertutto. Anche il casino che ha combinato spargendo sangue ovunque potrebbe essere stato voluto».

    Sto cominciando a sudare.

    «Ma io ho detto tutto quello che so...»

    «Tra i miei superiori c’è chi non la pensa così. Purtroppo le persone mentono, ma io mi fido di me stesso e delle mie sensazioni: dopo trent’anni che faccio questo lavoro credo di capire se qualcuno cerca spudoratamente di ingannarmi. Per sua sfortuna, le mie sensazioni non sono prove e se lei non è stato trattenuto, è solo perché ho voluto credere alle sue dichiarazioni e sono riuscito a convincere anche il giudice sulla mancanza di schiaccianti elementi a suo carico. Sono stato chiaro?»

    Lo è stato fin troppo. E la stranezza notata nello sguardo del commissario non era una paranoia, ma la conferma che non sono fuori da questo puttanaio. Anzi, sono ancora l’unico sospettato.

    Superiamo l’arco di trionfo in miniatura dedicato a San Lazzaro. Domina il centro della strada che conduce verso est, un tempo orgogliosa Decumano Romano, oggi trafficata e caotica. Raggiungiamo il bar che si trova in una tranquilla laterale non toccata dal tempo. Il locale stesso, all’ombra di numerose piante, espone, sotto la nuova insegna, una vecchia scritta sbiadita dell’epoca del Duce: Latteria N. 24.

    Durante la sosta al bar l’argomento indagini non viene toccato, troppa gente intorno. Un signore anziano legge la Gazzetta sul frigorifero a pozzo dove vengono conservati i gelati, due signore confabulano ad un tavolino e un’altra, persa nei suoi pensieri, sorseggia uno schiumoso e fumante cappuccino.

    Terminata la degustazione del caffè e dopo averlo sentito agire in corpo, torniamo in silenzio alla macchina. L’autista riparte e dopo poco arriviamo sotto casa della dottoressa Lanfranchi, che ci sta aspettando davanti al portone.

    Noto solo in questo momento che la dottoressa Ilaria Lanfranchi, di professione strizzacervelli, sia una gran bella ragazza. A parte gli occhiali da nerd di chi ha danneggiato la propria vista a forza di leggere e studiare, i nerissimi capelli lunghi eternamente raccolti in un improbabile modo e abiti che potrebbero sembrare del decennio precedente, la ragazza ha decisamente il suo fascino.

    Ci raggiunge dentro l’auto sedendosi a fianco dell’autista. Si gira verso di noi con un enorme sorriso e ci saluta.

    «Buongiorno Dott. Giorgi.»

    «Dottoressa.»

    Poi saluta me.

    «Buongiorno, Serra: come sta?»

    Vorrei rispondere "di merda, grazie" ma non lo faccio.

    «Bene dottoressa, abbastanza bene. Sì... bene... credo».

    Lei non dice nulla. Un angolo della bocca si contrae leggermente in un sorriso, poi torna a sedersi normalmente. Nello stesso tempo Giorgi ordina all’autista di ripartire: destinazione, casa di Alexis. Quella casa che avrebbe tanto desiderato lasciare per un luogo e una vita migliori ma che nella realtà era diventata la sua ultima dimora sulla terra.

    CAPITOLO 5

    Siamo tutti fermi davanti all’entrata del palazzo in cui abitava Alexis. Il quartiere è composto di caseggiati costruiti negli anni sessanta, alcuni con mattoni faccia a vista, altri intonacati di bianco. La vetustà degli immobili è evidente, anche se, le ripetute manutenzioni tentano di mascherare il peso degli anni. Quegli edifici hanno visto scorrere e finire la vita di molte persone e oggi mi osservano, stanno aspettando che io riesca a entrare, che riesca a fare il primo passo oltre la soglia e trovi la forza per fare anche i successivi.

    Mentre mi guardo intorno, percepisco una persona al mio fianco. La dottoressa inizia il proprio lavoro, tentando di rassicurarmi. Mi dice che, se non me la sento, non sono obbligato a entrare. Aggiunge però che se trovo il coraggio di farlo, potrei essere di grande aiuto a me stesso e alle indagini.

    Vorrei dirle che io avrei anche deciso di entrare, ma sono le gambe che sembrano inchiodate al suolo. Mi siedo un attimo sull’ultimo gradino della scala d’ingresso.

    «Tutto bene?»

    Il commissario mi appoggia una mano sulla spalla.

    La dottoressa invece si accoscia per essermi più vicina. Io alzo la testa e torno a guardarmi intorno. Osservo le finestre dei palazzi circostanti, le sento come occhi puntati su di noi. Ad un certo punto avverto un calore salire da dentro lo stomaco, m’incazzo, mi alzo di scatto ed entro. Vado verso l’ascensore, premo più volte il tasto di chiamata, sempre più forte, il dito diventa il palmo della mano e picchio ancora più forte, il palmo diventa un pugno e picchio ancora più forte, urlando.

    «ASCENSORE DEL CAZZO! NON FUNZIONA MAI, MAI! NEMMENO QUEL GIORNO FUNZIONAVA... PORCA PUTTANA!»

    Mi blocco, sono veramente incazzato nero. Appoggio la testa alla porta dell’ascensore e tento di riprendere fiato, le mani mi fanno male e il cuore pompa come un mantice.

    Nessuno ha tentato di fermare la mia furia, come se

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