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Altrove
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E-book400 pagine5 ore

Altrove

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Info su questo ebook

La vita di Margherita sembra procedere lungo binari sicuri e ben delineati: ha un marito, una figlia e un lavoro che la gratifica impegnandola in trasferte interessanti. Durante uno dei suoi spostamenti, dopo lungo tempo e in modo del tutto causale, ritrova Antonio, un amico di vecchia data con il quale ha condiviso esperienze importanti. 
L’incontro fa riaffiorare in lei un passato che aveva deciso di archiviare. 
Da quel momento, la donna si rende conto di non poter più rimandare, deve mettere mano alla memoria per riesumare tutto il vissuto.
Ma il crollo emotivo è proprio dietro l’angolo: man mano che procede lungo il percorso a ritroso seguendo il filo dei ricordi, le certezze cedono il passo al dubbio e all’insicurezza. 
Margherita rivive così l’incontro con Roberto, il ragazzino del nord che l’ha accompagnata fino all’età adulta, la passione per la musica, l’interesse per il giornalismo, l’incidente, la frattura scomposta della storia con il giovane torinese, il dramma. Il tutto agganciato a quegli eventi della cronaca italiana che lei considera degli snodi cruciali per l’acquisizione della propria consapevolezza: il Maxiprocesso, Tangentopoli, la trasformazione del Pci, la contestazione ai politici. 
Le riflessioni, però, ruotano sempre attorno a una vicenda significativa di tipo personale. Margherita prova a farla tornare a galla, ma senza esito: la sofferenza è una fiamma troppo accesa, non si placa. 
La donna non sa dove condurrà questo viaggio, ma non può fare a meno di proseguire: è l’unica via che conosce per ritrovare l’equilibrio smarrito.

Nata a Roma, dove vive, Simona Rubeis è laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, giornalista pubblicista dal 1999 e professionista dal 2005. Ha lavorato per varie testate giornalistiche occupandosi di diverse tematiche: medicina sociale, musica, religione, cronaca e, soprattutto, critica teatrale.
Oggi la sua principale occupazione non ha più a che vedere con il giornalismo, ma la scrittura continua a essere un irrinunciabile punto di riferimento. Altrove è il suo primo romanzo, il romanzo del cuore, dove ci sono elementi della sua personalità, della sua storia, dei valori in cui crede,  benché non si tratti di un libro autobiografico. Il 1° ottobre 2022, Altrove ha ottenuto la Menzione d’onore nell’ambito del Concorso Nazionale Letterario “Artisti” per Peppino Impastato.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2023
ISBN9788830679757
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    Anteprima del libro

    Altrove - Simona Rubeis

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    di Michele La Ginestra - Attore, autore e registra teatrale

    Ho conosciuto Simona un bel po’ di tempo fa, per un’intervista.

    All’epoca, ero agli inizi della mia carriera artistica, non è che rilasciassi tutte queste interviste, e non sapevo bene come si svolgesse la cosa… lei mi stupì per la curiosità con cui sviluppava le domande: voleva capire, sapere, approfondire, prima di scrivere.

    Quando poi fu pubblicato il pezzo, rimasi colpito dal fatto che riportasse tutti i concetti chiave delle mie risposte, con puntualità e accortezza dei particolari, anche se costretta dal poco spazio a disposizione.

    Pensai che tutti i giornalisti solitamente agissero così, ma col tempo, purtroppo, sono stato tristemente smentito dai fatti!

    Negli anni successivi siamo cresciuti artisticamente insieme: lei veniva a vedere i miei spettacoli (forse li ha visti tutti), per poi puntualmente recensirli; ed io aspettavo quello che avrebbe scritto per capire se lo spettacolo sarebbe piaciuto, anche al pubblico un po’ più attento.

    Infatti, Simona nel suo scrivere di teatro, ha sempre mantenuto quella curiosità della prima intervista, a mio parere, necessaria per cogliere anche quelle piccole sfumature che noi autori seminiamo nel testo, con la speranza che possano essere colte dagli spettatori.

    Quando ho saputo che aveva scritto ALTROVE, ho acquistato subito il libro, per appagare la mia curiosità: volevo vedere con che stile approcciasse questa nuova avventura nel mondo del romanzo… ed ho scoperto che era lo stesso con il quale buttava giù le sue recensioni.

    Infatti, scorrendo le pagine del libro, si rimane affascinati dalla dovizia dei particolari usati per descrivere le persone, i luoghi, i sentimenti che accompagnano questo racconto.

    Nulla è lasciato al caso, sembra quasi di vedere un film, tanto sono precisi i dettagli, compresi i legami con la cronaca italiana del tempo.

    E poi la storia che ci viene raccontata appartiene a molti di noi, a tutti coloro che non riescono a fare i conti con qualche accadimento del proprio passato… per questo ti viene voglia di leggere, di andare avanti, pagina dopo pagina, per sapere come andrà a finire!

    Si diventa partecipi di questa avventura, che, direttamente o indirettamente, abbiamo vissuto tutti nella vita, e questa immedesimazione ha una funzione catartica.

    Insomma ALTROVE è un libro scritto con passione e con quella sana curiosità che dovrebbe accompagnare la vita di ogni autore; la stessa che spinge noi a leggerlo fino in fondo e che, a mio parere, ci porta a chiederne un seguito!

    Un vestito rosso

    Mi trascino dietro il mio trolley in policarbonato come un cagnolino fedele. È moderno, leggero, in perfetta dissonanza con la strada piena di tornanti qual è stata per un periodo la mia.

    Mi muovo fra un negozio e l’altro della Stazione e per un attimo poso la vista su un vestito rosso esposto su un manichino, avverto la scivolosità del tessuto fra le gambe, mi lascio sedurre, sono indecisa se entrare per provarlo. Impertinente, fresco, sfrontato, la ruche cucita in diagonale, la scollatura alla Bardot. È un po’ un eccesso per me, ma ho voglia di qualcosa di vivo, che raschi via quella patina opaca che mi si è tatuata nei movimenti, nell’anima. Il mio è un abbigliamento casual, ad un centimetro dal poterlo definire distinto, sobrio. Ma l’immagine che trasmetto è finta, io lo so che sono un’imbrogliona.

    E quell’abitino sbarazzino che mi strizza l’occhio è uno schiaffo, odora di passato.

    Ad anni di distanza dal mio peregrinare fra il centro e il nord, torno a Torino in più occasioni per gestire un progetto su cui i vertici del mio ufficio hanno puntato molto. Quando mi è stato proposto, ho accettato volentieri l’incarico.

    Potevo farlo? Mi era sembrato di sì, avevo rimosso l’ombra che a lungo mi aveva impedito di affacciarmi su questa città armoniosa ed elegante, signorile, raffinata.

    Ma era un auto-raggiro, mi ero incastrata all’interno di un vicolo cieco e cercavo solamente di captare una motivazione plausibile per tornare al centro di una metropoli carica di fascino e di una grazia senza tempo.

    Così oggi, come spesso è accaduto nel corso degli ultimi mesi, mi ritrovo a camminare per gli ampi spazi di Porta Nuova, luminosa come non mai nel suo look fresco di restyling.

    Rallento il passo, entro in uno stato di sospensione dal quotidiano, mi godo la permanenza anche se a cadenzarla sarà il ritmo lavorativo.

    «Margherita…». Sento l’enfasi di una voce che si inibisce immediatamente. È un istante, ma avverto che lo slancio iniziale si è già ritratto su di sé. Lo riconosco, è un richiamo che mi vibra dentro, si aggrappa alla pancia perché è troppo familiare, ne avverto l’impeto e mi paralizzo.

    Nino.

    Osservo la sagoma compatta riflessa nella vetrina della boutique.

    Mi rendo conto di essere stata qualche secondo in apnea appena riprendo ad incamerare ossigeno.

    Mi giro. Soffoco l’esplosione che mi arriva da dentro. Parte dallo stomaco, si inerpica fino alla gola. E lì si strozza.

    Nino non è solo, c’è una donna al suo fianco e nella sua mano è infilata quella di una bambina.

    «Margherita… non ci posso credere… come stai?», la voce è instabile in maniera quasi impercettibile.

    Quasi.

    Ci salutiamo con un bacio lieve sulla guancia.

    «Che sorpresa Antonio…», non riesco a non guardarlo, mi sono imbambolata, sono ad un passo dal rendermi ridicola.

    «Ti presento mia moglie, Barbara. E lei è Sara, nostra figlia».

    Ti presento mia moglie… lei è nostra figlia…

    Barbara proferisce parole mute, non la sento, mentre la piccola si ritrae, si vergogna, si nasconde dietro al papà.

    Le frasi stonano, sono irreali. Scivolano lungo margini sfumati, mi sorprendo della mia stessa incredulità nel constatare che le vite scorrono nonostante tutto.

    Sono felici?

    Si inerpicano fra i sentieri di quella illusione, ne battono il tracciato, salvo accorgersi al traguardo di aver seguito il percorso sbagliato.

    Ma per Nino il discorso non vale, lui è l’eccezione.

    Ci prendiamo una piccola vacanza… a Napoli, e tu?

    Io sono qui per un seminario, dopodomani torno a Roma. Vengo spesso a Torino.

    Per quale giornale scrivi ora?

    E tu di cosa ti occupi? Michele sta bene?

    Parole.

    Chiacchiere inutili, superficiali. Chiasso di un linguaggio infecondo, buttato lì a colmare la voragine dell’imbarazzo.

    E Roberto?

    Nessun cenno da parte mia, meno che mai dalla sua.

    «Ho una bambina anch’io, si chiama Beatrice».

    Gliel’ho detto, voglio sentire ardere questo confronto vuoto, pieno di nulla, di considerazioni asettiche. Mi aspettavo la reazione che ha Antonio, un’ombra di sgomento gli si disegna sul viso, poi contrae le palpebre come se ci fosse una luce invadente da cui difendersi. Lui sa, ma non procede, non dà seguito al suo stupore, la considerazione successiva si smorza un attimo prima di uscire.

    Da adulti siamo diversi, composti, misurati, il filtro della discrezione definisce i confini entro cui possiamo muoverci. La domanda che vorrebbe fare spira all’interno di quel recinto.

    Ciao, buone vacanze. È stato bello rivederti.

    Non è vero, sono bugiarda, è stata una limitazione incontrarlo in questa forma fredda, impersonale, senza poter ridurre di un centimetro le migliaia di chilometri di distacco che abbiamo accumulato. Demolire la barriera che io ho eretto potrebbe annullare la distanza temporale per un secondo, per un minuto, per l’esistenza intera.

    Mi accorgo in un lampo che la mancanza di Antonio mi incendia e mi atterrisce. Mi colpisce come un pugno a tradimento la rivelazione di provare un rimpianto così intenso per la decomposizione di quella preziosa amicizia che non ho saputo custodire. È una scoperta meschina, ringhia all’improvviso, esce dal buio e mi sbrana.

    Sono venuta fuori da una gigantesca crisi, ma sento che gli strascichi sono lì, passeggiano sottobraccio, pronti ad emergere, a deflagrare. È una convalescenza prolungata la mia, non vengo mai dimessa.

    Ma non cedo, sono granitica.

    Mi siedo ai tavolini di un bar, rimango in zona. Sbircio da lontano Sara che indica qualcosa. Quanti anni avrà? Otto, nove? Più o meno l’età di Beatrice. La mamma, quella Barbara di cui non so nulla e della quale non mi importa, la accompagna dentro al negozio.

    Tre persone. Una famiglia normalissima che spio come se portasse con sé chissà quale segreto a me precluso.

    Indugio sui movimenti incerti di Nino che mi getta occhiate di sfuggita, sono flash rubati. Il mio sguardo si incolla alla sua maglietta, al corpo grande, alle spalle larghe. La sua stazza parla da sé, evidentemente ha proseguito nell’insano accanimento verso qualunque cosa di commestibile gli capiti a tiro. Anche da piccolo mangiava tanto, l’esuberanza caratteriale ammarava in uno stato di entusiasmo puro davanti ad una pizza come ad una torta.

    È diventato un omone robusto, ma è intrigante, soprattutto per via di quell’ombra di malinconia felpata che si porta dietro.

    Lo vedo accostarsi all’orecchio della moglie; lui dice qualcosa, lei guarda l’orologio. Esce dalla cornice, corre da me e mi consegna un foglietto. Sopra, uno scarabocchio con un numero di cellulare ed un messaggio.

    Chiamami, voglio parlarti.

    Alzo la testa mentre lui mi schiocca un bacio a distanza, un sorriso largo gli illumina il viso.

    Ecco, in questo istante ti riconosco, torni ad essere di nuovo il mio adorato fratello piemontese. Il mio affetto per te riaffiora dall’abisso in cui lo avevo confinato.

    Ma non ti chiamerò, so già che non lo farò. Ancora una volta ti lascerò andare via.

    Ho preso tanti anni fa la decisione di tagliare con te, con ciò che è stato, con ciascuno di voi.

    Del resto, cosa potremmo dirci? Le nostre vite sono distanti, non ha senso cercare di trovare un punto di contatto. Sarebbe un esame inutile, non lo supererei. Ho affrontato troppe prove. Gli eventi che mi hanno messo a tappeto non ti riguardano, ti toccano di striscio, ma non sono i tuoi.

    Il pizzino che Antonio ha posato sul tavolo mi fissa, lo ripercorro con l’indice per il gusto di sfiorare la calligrafia, è un magnete. Sono tentata di lasciarlo lì per cancellare l’episodio, per annullare lo scompiglio, ma alla fine lo infilo nel portafoglio.

    Pago, esco rapidamente, passo davanti alla vetrina del negozio che vende il vestito rosso. Compro l’abitino impalpabile e smaliziato senza nemmeno provarlo.

    Non lo indosserò mai.

    Scrivere, per ricominciare a respirare

    Mi rendo conto della mia fragilità quando realizzo che è stato sufficiente un incontro casuale per farmi crollare.

    È un’invasione di emozioni quella che mi sovrasta.

    E così ora sento forte il bisogno di scrivere, è un’onda aspra che mi sommerge, che mi pizzica la pelle, ho necessità di scavare nella memoria.

    All’improvviso tutto è cambiato, ed ogni cosa si sgretola vicino a me.

    Io mi sto sgretolando.

    Temo di precipitare di nuovo e per non farlo devo arpionarmi a qualcosa di solido, di sicuro, di rassicurante. È già accaduto e non posso più concedermi il lusso di perdere aderenza con ciò che mi circonda, un’altra volta ancora.

    E l’unico salvagente cui posso aggrapparmi è la mia memoria, chiara e precisa.

    Raramente ho dimenticato i punti, le virgole, le inflessioni, il tenore o il registro di una discussione. Poi ho allontanato l’esercizio del ricordo, l’ho lasciato volutamente intorpidire sottoponendolo ad una scarsa ginnastica. Archiviare il vissuto è stato necessario per rimanere agganciata al mondo, per mantenere un brandello di stabilità.

    È ora di riprendere l’allenamento e annotare tutto, parola dopo parola, per fare i conti con il passato.

    Mi muovo all’interno di una esistenza fluida e regolare, per quanto sia modulata da un tono sostenuto: sono sposata, ho una bambina da gestire, un impiego dall’altra parte della città e mille incombenze giornaliere. Sono all’interno di un turbinio di piccole faccende concatenate che reggono per via di quella ponderata regia che io ed Emilio abbiamo messo in piedi.

    Già, Emilio, l’uomo buono. L’uomo solido e generoso che è entrato nella mia vita quando era già partito il secondo atto, quello lento, stabile, calibrato, inibito nelle impennate.

    Però, arrivata a questo punto, sento che sottotraccia c’è qualcosa che non torna più, l’equazione è sbagliata.

    Ero certa che prima o poi sarebbe arrivata la scadenza per riagguantare quella parte di vita che ho dovuto lasciar andare. Se c’è mai stata una spia che cercasse di avvisarmi, io non lo so, non me ne sono accorta.

    La mia quotidianità è tranquilla, strutturata, organizzata nei dettagli, ogni minuzia è incasellata, i fronzoli liquidati. Sono stata famelica nella ricerca della sicurezza a seguito dell’ondata di dolore che mi si è riversata addosso. Il raggiungimento della serenità è stata la mia bussola quando ho rischiato di perdere l’orientamento. L’ho inseguita con ogni fibra, l’ho recuperata, ho vinto la battaglia. Avevo stabilito che per il futuro sarebbe stata la ragione a guidare i miei passi, la logica avrebbe rappresentato la mia guida, l’impulsività bandita.

    Ma qualcosa è cambiato.

    È Nino che mi ha sbattuto in faccia questa verità.

    E nel guardare indietro, corro diritta come un treno in movimento rapido verso Roberto che, chissà come, sono riuscita nell’intento di smettere di convocare all’appello. È stata una chiusura troppo dolorosa la nostra, e con troppi punti in sospeso. Ho rimosso i residui della sua presenza per trovare la via di fuga e scavallare lo sfacelo generato dall’unione dalle nostre esistenze, dal disastro in cui si sono rotolate inconsapevolmente.

    Io e Roberto abbiamo riso, discusso, gioito, cantato, litigato, atteso, ballato insieme. Siamo stati solidi, abbiamo dissipato la penombra che ha offuscato la nostra relazione, ci abbiamo creduto fino allo sfinimento e ci siamo scoperti più forti di prima. Tanti ingredienti hanno animato il nostro rapporto ed hanno il nome di passione, affiatamento, conoscenza reciproca, complicità.

    Eppure, alla fine, non abbiamo retto all’urto, ci siamo spezzati.

    Mi fermo, tiro fuori tutto quello che la memoria mi consente di analizzare, con la lucidità dettata dalla distanza, il distacco di chi non ha più niente da perdere. Ed ecco che trovo il coraggio di vedere quello che ci è successo.

    Rincorro il miraggio di arrivare all’individuazione di un registro, di una chiave di lettura che mi permetta di scorgere la piega presa dalle nostre vite quando si sono incontrate, la parabola seguita dai nostri percorsi, e tutto ciò che vedo sono le volte in cui Roberto è stato l’unico metro di paragone per valutare le persone con cui mi sono rapportata.

    Non ne ho avuto consapevolezza, ma ho indagato negli sguardi di tutti, degli estranei in primis, per rintracciare la luce dei suoi occhi, mi sono affannata per scovare la sua allegria scanzonata nelle inutili risate di chissà chi. E mi accorgo che persino negli anni dell’oblio ho provato a ripescare la sua leggerezza, ho forzatamente voluto riconoscere il suo abbraccio comodo e rassicurante, ho sperato di imbattermi nella sua beffarda capacità di sdrammatizzare le situazioni.

    Mi prendeva in giro ed io ridevo, mi scattava le foto quando mi indisponevo perché, diceva lui, veniva fuori un piglio da mastino. E oggi mi ritrovo con un numero indefinito di quelle ridicole istantanee della mia faccia, inutile testimonianza di una felicità ottusa e transitoria.

    Rob, non so dove sei, non so che fai, non so se ti sei affrancato da quel nostro essere coppia.

    E io? Ne sono ancora avviluppata?

    Non so più nulla. Però ho il dovere di capire.

    Apro il portafoglio, il bigliettino di Antonio è ancora al suo posto. È una calamita, è un gancio. Mi risucchia.

    Disorientata e spaventata mi perdo, non so più quale rotta io sia riuscita ad imprimere alla mia esistenza. Ho faticato per trovare un equilibrio, mi sono adeguata alle circostanze, ho tentato di accomodarmi sul nuovo baricentro ogni volta che le dinamiche si sono alterate.

    Ora, però, fallisco.

    Devo tornare lì, a ciò che ero prima dell’incidente che ha stravolto tutto, al trasporto per la musica abbandonata per la strada, alla passione per il giornalismo che ho volutamente messo via, all’armonia che sentivo quando sperimentavo il presente.

    Ho permesso al disincanto di rosicchiare uno spazio tutto suo mentre un apatico realismo ha cominciato a permeare ogni singola fibra del mio organismo.

    Il futuro che non ho vissuto con Roberto mi appartiene tanto quanto le esperienze condivise perché l’abbiamo immaginato, pianificato, ci abbiamo fantasticato su, l’abbiamo visto materializzarsi nei nostri progetti che poi non hanno trovato compimento.

    Ripercorrere tutto, ricostruire il tracciato un pezzetto alla volta con tutto il bello e il brutto che c’è stato, è una esigenza. È l’unica cosa che mi permetterà di chiudere il cerchio aperto quando ero un’adolescente.

    E allora scrivo. Perché scrivere è terapeutico, perché la scrittura è il sotterfugio per mutare tutto anche se è vero che non cambia niente, anche se le cose rimangono esattamente come sono.

    E se hai una cicatrice sulla pancia quella non scomparirà, e se hai perso il tuo sogno non lo riavrai indietro perché metti nero su bianco la tua delusione, e se hai buttato alle spalle ciò che eri non puoi riavvolgere il nastro e ripartire da dove vuoi cambiando il finale.

    Però puoi incidere una pulsione o agguantarla, e non farla scivolare via, inchiodarla su un foglio, fissare un punto.

    Per dare un senso a ciò che è fuori.

    Per ricominciare a respirare.

    FEBBRAIO 2000

    Non tornare

    «Smettila, mi dai fastidio».

    La confusione ruzzola, si dilata, si estende nelle stanze improvvisamente taciturne. Ci sei solo tu a pretendere, a gridare, ad implorare. Ad accusare.

    «Mi stai sempre addosso… mi sei sempre stata addosso…».

    I rimproveri si rincorrono, mi attaccano.

    Cosa vuoi da me?

    Stacchi dalla parete il quadro dello spirito libero, gli molli un calcio e lo squarci.

    «Me ne vado».

    La porta si chiude con violenza, l’impatto con il battente è eccessivo, il cardine raschia il telaio. È la cerniera che si stacca. O forse no, sono io che mi scollo da te.

    Non tornare.

    UN SALTO ALL’INDIETRO

    1985

    San Policarpo

    «Ci scriviamo, siamo d’accordo, vero?», mi chiedeva sapendo che nella migliore delle ipotesi ci saremmo rivisti non prima di dodici mesi.

    «Sì, io ti spedisco subito una lettera, ma tu non dimenticare di rispondermi», ribattevo con quel tanto di ansia che mi contraddistingue.

    «Ma sei pazza? Certo che lo faccio. Sei tremenda… non ti fidi».

    Rideva, e mi contagiava. La sua era una felicità nascosta nelle pieghe della vita, fiduciosa e comunicativa.

    Io e Roberto ci siamo conosciuti all’età di quindici anni in un paesino che chiamerò San Policarpo e non con il suo vero nome, perché in questo groviglio di discorsi non detti che mi ingabbiano come una prigione e che ho deciso di riscattare, tutto è reale, ma non è rilevante che sia riconoscibile.

    Esistono le panchine, le montagne, i bar così come la piazza del ritrovo, ma non importa dargli una denominazione da rintracciare sulla carta geografica. Il posto c’è, esiste, e sta lì, svogliato e saldo.

    San Policarpo è un borgo aggrappato all’appennino abruzzese che, a voler essere ottimisti, già allora contava un migliaio di anime. Una specie di presepe montano, uno dei tanti che popola l’Italia, che aveva un suo fascino antico, in bilico fra la decadenza del passato e una sbilenca prospettiva rivolta al domani. Si snoda lungo una via sinuosa, una specie di doppia esse sghemba, da sud a nord, composta da un’ininterrotta successione di case, stalle, cantine, ovili, villette.

    All’epoca, le macchine lucide dei villeggianti facevano la loro prepotente comparsa a macchia di leopardo durante il periodo caldo, rimanevano ferme per giorni in un contesto alieno, con la loro sgraziata ostentazione del moderno, veloce e furbo, a distanza abissale dalla staticità della zona. Graffiava l’aria tutto quel nuovo che sembrava voler sfregiare il paesaggio immobile, fisso, perennemente uguale. Lo violava, lo collocava in un presente che non aveva voglia di conoscere.

    Gli abitanti subivano serenamente l’invasione pacifica ed esuberante dei vacanzieri, la accettavano come parte dell’ordine naturale delle cose, come l’influenza delle fasi lunari sulla semina e sul raccolto.

    In inverno, l’area appassiva un po’, ma di fondo tornava a riaccomodarsi nella propria specificità, gli anziani non si sentivano più ospiti e riprendevano a muoversi all’interno di un paesaggio rimasto fermo ad inizio secolo.

    E lì si riconoscevano vivi.

    Si riappropriavano degli spazi, gli stessi che in estate sfuggivano al controllo a causa dell’arrivo di nipoti nati e cresciuti altrove, a Roma come a L’Aquila, a Torino come a Milano.

    Un ventennio addietro, i giovani erano andati via con l’ambizione di trovare una prospettiva migliore in una città distante, lontano dall’incertezza sfiancante dei campi, senza sapere che qualche manciata di lustri dopo sarebbe stato seguito l’itinerario inverso. Sono i loro figli quei ragazzi che, scavallato il nuovo millennio, tornano alla terra, inventano proposte, aprono agriturismi, battezzano percorsi naturalistici per una clientela esigente e viziata in una società che offre tutto, eppure manca di prospettive.

    «La gente di qui non avverte il fluire del tempo», dicevo a mio padre «è anziana in eterno, non muore, diventa vecchia e raggiunta una certa età non si muove più». Stagione dopo stagione la trovavo immutata come il panorama che la avvolgeva.

    Ho perso il conto degli anni che sono trascorsi dall’ultima sosta duratura a San Policarpo, ci vado di quando in quando per poche ore e scappo via. Ma nella mia immagine mentale tutti quelli che ci vivono sono ancora ai loro posti, seduti nel portico per prendere il fresco, nello spiazzo davanti alla chiesa, a giocare a carte all’osteria. Fissi, come i personaggi di un plastico.

    Una cosa che mi incuriosiva dei contadini era la loro religiosità che, seppure ostentata, conosceva un linguaggio sovraccarico di imprecazioni, i PaterAveGloria erano riservati alle feste comandate. A pareggiare i conti con Nostro Signore erano delegate le donne della famiglia, cui veniva tacitamente affidato il compito di recarsi alla funzione domenicale per espiare le colpe di mariti distratti e sanguigni. Ne usciva fuori una singolare forma di devozione dove le processioni dei Venerdì di Quaresima erano un tutt’uno con la campagna, con l’uso del trattore, con l’allegria leggera che faceva da contraltare alle esternazioni irose, con le domeniche in famiglia e le serate passate a giocare a briscola.

    Papà adorava il posto in cui affondavano le sue radici, con tutte le sue contraddizioni e le incoerenze. Non appena pagava il pedaggio del casello autostradale cambiava atteggiamento, entrava nel clima, si faceva avviluppare da una morbidezza cedevole, parlava in dialetto, si muoveva in un rimando incessante di saluti. Una trasformazione che alla mia età decifro con indulgenza.

    Cristallizzato in un’era indefinita, San Policarpo è tuttora indolente, distaccato con la sua apatica personalità, che lo descrive e lo contraddistingue, permettendogli di non morire.

    Mi piaceva quella estraneità planetaria, ma quell’anno mi ero decisa ad essere ostile, e la mia maldisposizione non dipendeva dal luogo di per sé, il problema ero io con la mia testardaggine intorpidita.

    Benché fossi consapevole che tra giugno e settembre una frotta di turisti avrebbe vivacizzato la località con quel tanto di dinamismo che gli permetteva di raggiungere una sicura garanzia di appetibilità, avevo decretato che mi sarei annoiata. Conoscevo San Policarpo piuttosto bene, ogni tanto ci andavo per trascorrere qualche giorno visto che era il paese dei miei genitori. Sapevo che, se avessi voluto, mi sarei divertita. Ma ero polemica, scostante, e tendenzialmente animata da un’antipatica avversità a tutto ciò che mi veniva suggerito dagli adulti.

    Così mi ero impuntata sostenendo che a luglio avrei preferito rimanere a Roma. Volevo stare con le mie amiche a parlare dei progetti futuri, di potenziali fidanzati, di gruppi musicali, di nuovi cantanti.

    Volevo andare in spiaggia con la comitiva, saltare sul treno la mattina presto e fare il percorso inverso a fine giornata. Stavo crescendo, l’identificazione con il gruppo era essenziale e poiché Mirta, Elena e Monica sarebbero rimaste appollaiate al muretto per tutto il periodo, io desideravo più che mai non allontanarmi.

    Il gruppetto con tutta probabilità si sarebbe sfilacciato per settimane, qualcuno sarebbe partito, ma saremmo state a meraviglia ugualmente noi quattro da sole. Girovagare per Via del Corso, arrivare al Pincio divorando un pezzo di pizza, raggiungere Ostia oppure Anzio per fare il bagno, fantasticare, spettegolare di amorazzi vari era tutto quel che volevamo, la quintessenza del nostro stare insieme.

    E poi c’era Alex, che faceva capolino a giorni alterni centellinando la sua presenza, facendomi passare da uno stato di esaltazione a quello di prostrazione, fra fugaci apparizioni e repentine scomparse. Mi ostinavo a voler fare colpo su di lui, persa in timide visioni romantiche, ma la situazione era cristallina, dall’alto dei suoi vent’anni Alex non ci pensava proprio a una ragazzina come me.

    «Non riesci a fargli cambiare parere?», mi chiedeva Mirta, riferendosi ai miei genitori e all’imminente partenza. Lei, che conosceva la mia famiglia, sapeva già la risposta, ma ne parlava lo stesso, come se tirare fuori

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