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I quattro giorni di Alice Kim
I quattro giorni di Alice Kim
I quattro giorni di Alice Kim
E-book175 pagine2 ore

I quattro giorni di Alice Kim

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Info su questo ebook

Gli amanti dei romanzi storici adoreranno la cura dei dettagli di questo libro.” – Booklist

Sullo sfondo di una Corea devastata dalla guerra, una storia di amicizia tra due protagoniste femminili indimenticabili.” – Library Journal

Febbraio 1954. La guerra di Corea è finita da un anno, dopo che è stato firmato l’armistizio. Eppure, per il paese è ancora difficile tornare alla normalità. Gli orfanotrofi sono pieni di bambini affamati e sopravvivere è molto difficile. Alice J. Kim è una dattilografa e traduttrice che lavora per l’esercito americano e che vorrebbe tornare alla vita che aveva prima che la Corea fosse distrutta.

Decide così di accettare un lavoro di soli quattro giorni, ma ben pagato. Dovrà essere l’interprete di Marilyn Monroe, che è appena arrivata in Corea in tour per le truppe dell’esercito del suo paese.

Alice è affascinata dalla donna, ma pensa anche che lei e un’attrice all’apice della sua fama non avranno niente da dirsi. La vera Marilyn, però, quella che si nasconde dietro i lustrini e la sensualità, è una persona estremamente diversa da come se l’era immaginata, ed è molto disponibile.

Durante quei quattro giorni le due donne si avvicineranno sempre di più, e quando il passato doloroso di Alice si riaffaccerà mettendola di fronte a una scelta difficile, la loro amicizia sarà decisiva…

I quattro giorni di Alice Kim è un bellissimo ritratto, ispirato a fatti realmente accaduti, del legame che può instaurarsi tra due donne molto diverse, e di come una gentilezza inaspettata può non solo cambiare, ma anche salvare una vita.

LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2023
ISBN9788830592803
I quattro giorni di Alice Kim
Autore

Ji-min Lee

è sceneggiatrice e autrice di diversi romanzi. Vive e lavora in Corea.

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    Anteprima del libro

    I quattro giorni di Alice Kim - Ji-min Lee

    UNA GIORNATA TIPO

    DI MISS ALICE DI SEUL

    12 febbraio 1954

    Vado al lavoro pensando alla morte.

    Credo che la mattina, a Seul, sia raro trovare un pendolare felice, ma di sicuro io sono tra quelli più tristi. Per l’ennesima volta ho passato la notte faccia a faccia con ricordi orribili, ricordi di morte. Ho lottato come una vergine che cerca di preservare la propria purezza, ma non è servito a niente; sapevo di avere addosso solo un vecchio lenzuolo di cotone, eppure mi ci sono azzuffata come fosse stato un uomo o il coperchio di una bara, o un pesante mucchio di terra, nella speranza che la notte prima o poi sarebbe finita e che la morte non potesse essere così brutta. Alla fine è arrivata l’alba e mi sono svegliata con un’aria logora ma tenace, un po’ come la calza che penzolava dal mio tavolo da toeletta. Mi sono incipriata generosamente per scacciare la cupezza e ho infilato le calze, il vestito e i guanti di pizzo nero senza dita.

    Cammino per le strade di prima mattina, con il vento spietato di febbraio che mi frusta i polpacci. Così impastata di trucco e tremante di freddo, è impossibile apparire graziosa; direi piuttosto che sembro una che ne ha sopportate tante. Coloro che sopportano avranno la possibilità di raggiungere la bellezza, ho letto una volta in un libro, ed è da qualche anno che sto saggiando questa teoria, ma sono sempre più dubbiosa.

    Come sempre, i passeggeri del tram mi lanciano occhiate perplesse. Mi chiamo Alice J. Kim, mi tingo i capelli con la birra perché sono ingrigiti troppo presto e indosso un foulard a pois viola, un cappotto di lana nero e un paio di scarpe di velluto blu tutte consumate. I guanti di pizzo mi rendono inavvicinabile, come il velo nero delle vedove ai funerali; sembro una bambola gettata via da una ragazzina straniera annoiata. Qui, in questa città in cui è stato da poco dichiarato l’armistizio, sono fuori posto, eppure potrei essere la persona più adatta a starci.

    Scendo dal tram e mi incammino a passo sostenuto. Arrivare alla base militare americana non è proprio una passeggiata tranquilla e rilassante. Pennacchi di vapore bianco salgono in aria oltre la strada appiccicosa di fango: le donne fanno il bucato per la base usando bidoni di benzina tagliati in due e ingoiano vapore bollente, come se lavorassero all’inferno. Evito gli sguardi degli orfani che chiedono l’elemosina, avvolti in uniformi militari che hanno preso dall’immondizia e accorciato per poterle indossare. La fame nei loro occhi lucenti è così tremenda che mi dà una stretta allo stomaco. Mi faccio largo a spintoni tra i lustrascarpe che mi prendono in giro, pensando che sia una prostituta al servizio degli stranieri, e mi affretto a entrare nella base.

    La neve rimasta sul tetto di lamiera incurvata brilla bianca sotto il sole limpido del mattino. Una vampata di calore mi investe appena apro la porta dell’ufficio: non ci si aspetterebbe una stanza così tranquilla e così diversa dal mondo esterno. La macchina da scrivere Underwood nera mi attende diligente sulla scrivania.

    Per prima cosa metto l’acqua nella caffettiera; la tazza di caffè che bevo ogni giorno, appena arrivata, è la mia colazione. Non posso escludere la possibilità di lavorare qui alla base solo per il caffè gratis.

    Vedo alcuni nuovi documenti da tradurre in inglese e in coreano. Si tratta di questioni semplici e di poca importanza, per cui la mia conoscenza dell’inglese sarà più che sufficiente. Innanzitutto, devo notificare all’ufficio coreano per la Pubblica sicurezza che l’esercito americano parteciperà alle celebrazioni per la Festa degli alberi, poi dovrò stilare in inglese il programma della partita di baseball che si terrà tra i due paesi il 4 luglio, per festeggiare l’indipendenza americana. Fondamentalmente il mio lavoro consiste nel compilare una serie di informazioni inutili in nome dei rapporti amichevoli tra le due nazioni.

    «Oggi si gela, Alice» dice Hammett entrando in ufficio con il suo solito sorriso smagliante. «A Seul fa freddo come in Alaska.»

    «In Alaska? Ci sei stato?» rispondo, senza sollevare lo sguardo dalla macchina da scrivere.

    «Non te l’ho mai raccontato? Prima di andare a Camp Drake, a Tokyo, sono stato per un po’ a Cold Bay, un piccolo avamposto in Alaska. Un posto freddissimo e desolato, proprio come Seul.»

    «Mi piacerebbe andarci, una volta.» Cerco di immaginare che da qualche parte, nel mondo, ci sia un luogo abbandonato e dimenticato quanto Seul, ma non ci riesco.

    «Ho una notizia eccezionale!» Hammett cambia argomento di colpo e per l’eccitazione dà una manata sulla mia scrivania.

    Non l’ho mai visto fare così. Sussulto e premo per sbaglio il tasto della Y, imprimendo sul foglio una piccola zampa d’uccello.

    «Sai che Marilyn Monroe ha sposato Joe DiMaggio, no? Sono in luna di miele in Giappone. E indovina un po’… vengono qui! Ormai è ufficiale. Il generale Christenberry le ha chiesto di fare degli spettacoli per i soldati e lei ha detto subito di sì. Da non credere!»

    Marilyn Monroe, che si muove sul grande schermo increspato di luce come una sirena che fa i primi passi incerti, con un sorriso stupido stampato sul viso.

    Hammett sembra deluso dal mio scarso interesse per questa notizia straordinaria, che pare entusiasmarlo più della fine della Seconda guerra mondiale.

    «È sposata?» dico.

    «Sì, con Joe DiMaggio. Due icone americane nella stessa famiglia! Questa è una cosa grossa, Alice!»

    Ho un vago ricordo di aver letto qualcosa su Joe DiMaggio in una rivista: è un famoso giocatore di baseball. E, per quanto mi riguarda, non trovo che Marilyn Monroe abbia molto a che fare con l’istituzione del matrimonio.

    «E il meglio» prosegue Hammett, «è che stanno cercando una donna soldato che la accompagni come interprete. E ti ho raccomandata! Certo, non sei un soldato, ma hai esperienza. Passerai quattro giorni con lei come rappresentante dell’ufficio per l’Informazione pubblica. Non è eccitante? Magari io dovrò seguirla tutto il tempo, come fa Elliott Reid in Gli uomini preferiscono le bionde

    Perché Marilyn viene in questa terra dimenticata da Dio? Dopotutto, i soldati statunitensi ringraziano la loro buona stella di non essere nati coreani.

    «Abbiamo un mucchio di cose da fare: dobbiamo parlare con il gruppo musicale, far preparare un bouquet e comprarle un po’ di regali. Cosa pensi che dovremmo darle? L’artigianato di qui non è granché. Oh, e che ne diresti di farle un ritratto? Le attrici adorano questo genere di cose.»

    «Un… un ritratto?» balbetto, arrossendo fino al collo. «Puoi chiedere al reparto ritratti dell’emporio militare qui alla base…»

    Hammett mi fa un sorrisetto malizioso. «Sei l’artista migliore che conosca.»

    Mi sento la bocca secca. «Io… è tantissimo che non disegno.» Mi vergogno come una nubile costretta a confessare di essere incinta. «E… e… non so molto di lei.»

    «Non c’è niente di più semplice! Solo quelli che hanno una faccia facile da disegnare diventano famosi. Non hai bisogno di sapere niente di lei; lei è quello che vedi.» Hammett si sta divertendo un mondo, ma quando i nostri occhi si incontrano diventa serio. Lo sguardo acuto dietro alla sua risata bonaria conferma un segreto di dominio pubblico, cioè che probabilmente è un agente dei servizi segreti. «E comunque perché non disegni più? Eri una vera artista.»

    Sono agitata, mi sento in trappola; le mie dita scivolano sui tasti e le lettere finiscono per spargersi sul foglio bianco come rametti spezzati. Hammett potrebbe essere l’unico a ricordare la persona che ero in tempi più illustri. O almeno, l’unico ancora vivo.

    «No, no. Se fossi una vera artista sarei morta in guerra» mormoro mentre fingo di bere un sorso dalla tazza. Le mie parole si suicidano gettandosi nel caffè e le piccole onde nere nate dal loro impatto riverberano nel profondo del mio cuore.

    Esco dall’ufficio prima del solito e prendo il tram per la porta di Namdaemun.

    Qualche mese prima dello scoppio della guerra, una persona sollecita aveva appeso una bandiera coreana, una bandiera americana e un cartello che esclamava BENVENUTI MARINAI AMERICANI! in cima alla fortezza secolare che fungeva da porta della città. Forse è proprio per questo suo instancabile sostegno all’esercito americano che la porta è sopravvissuta alle atroci ferite che ha subìto. Osservo il monumento, l’invalido di guerra più famoso della nostra nazione, senza essere in grado di offrire parole di conforto. Come se non capisse bene come mai sia sopravvissuta, Namdaemun se ne sta lì, miserabile, e sembra voler dire che preferirebbe congedarsi da Seul; la oltrepasso pensando che non potrei essere più d’accordo.

    L’ingresso al mercato di Chayu, vicino alla porta, brulica di passanti, venditori e soldati statunitensi. Si sentono dialetti di tutti i tipi mescolarsi al piacevole accento di Seul e allo slang americano. Cerco di stringere le spalle per non urtare nessuno. Il mercato emana una vitalità e un rumore intensi e spaventosi quanto quelli di un campo di battaglia; non riesco a reggere la fame di sopravvivenza che trasudano le persone intorno a me, quindi faccio in modo di starne alla larga. Schivo un signore con un cappello di feltro e un fascicolo di documenti sottobraccio, una donna con un bambino legato alla schiena e un involto perfino più grande in equilibrio sul capo, e infine un uomo intento nell’impresa quasi acrobatica di sonnecchiare in piedi, appoggiato al suo jige. Mi addentro nel mercato.

    Alla Mode Western Boutique trovo un gruppo di donne del mercato che fanno parte di un’associazione di credito informale. La signora Chang, che è la proprietaria del pensionato in cui vivo, è anche padrona del negozio e sovrintende all’intero gruppo. Le donne spettegolano esaminando rotoli di velluto e seta cinese, ma quando entro si danno di gomito e si zittiscono di colpo. Sono abituata alle loro occhiate curiose ma sprezzanti. Fingo di non accorgermene e, anziché salutare, lancio un’occhiata eloquente alla signora Chang. Lei raccoglie svelta le banconote sparse sulla gonna di broccato viola e si alza.

    «Signore, conoscete già la signorina Kim, una delle mie inquiline? Lavora come dattilografa alla base. Non dite niente in inglese, se non volete fare brutta figura.»

    Le donne cominciano a fare battute sconce e a ridere; mentre sono distratte da questa nuova attività, la signora Chang mi accompagna nello stanzino sul retro del negozio. Quando accende la luce rivela una serie di etichette inglesi su vertiginose pile di lattine, pacchetti di sigarette e confezioni di cosmetici trafugati dalla base.

    «Ecco qui.» Tiro fuori la rivista sconcia che ho avvolto tra le pagine strappate da un calendario; ho trovato un tuttofare conciliante disposto a recuperarne una copia.

    La signora Chang butta l’occhio fuori dallo stanzino e mi fa cenno di abbassare la voce. Scorre rapidamente le immagini e aggrotta la fronte alla vista dei seni di una giovane donna bianca, grossi e tondeggianti come due scodelle. «Anche questi giornalacci sono meglio se vengono dall’America» dice con un sorriso imbarazzato. «Ho un buon cliente che ne vuole una copia. Ho cercato dappertutto, ma quelle che ho trovato sono, come dire, un po’ troppo usate.»

    Questa fiacca scusa mi fa distogliere lo sguardo dalla signora Chang.

    So che fa vedere queste riviste al marito impotente. Hanno perso tutti e tre i figli in guerra, il che di per sé è già abbastanza triste; ma il pensiero che lei stia cercando di avere un altro figlio da quell’uomo, che puzza delle erbe medicinali che prende per i suoi malanni, è insopportabile. È un’immagine oscena: una donna di mezza età, con la pancia ormai raggrinzita, che apre un numero di Playboy davanti al marito che non riesce neanche più a stare seduto dritto, mentre si strugge per i figli morti. È troppo, perfino per me.

    «Mi dispiace aver dovuto chiedere un favore del genere a una ragazza innocente come te» dice.

    «Nessun problema. Chi ha detto che sono innocente?»

    La signora Chang mi scruta con aria di disapprovazione. «Non stare fuori fino a tardi. Ti lascio la cena accanto alla porta.» Nonostante i modi bruschi, la signora Chang è l’unica persona a preoccuparsi che mangi abbastanza.

    È fuggita dal Nord durante la guerra ed è famosa per la sua determinazione, che il suo successo testimonia; qui al mercato tutti sanno che è una spilorcia insensibile e questo dà la misura di quanto io sia patetica, visto che riesco addirittura a far preoccupare una come lei.

    Ci siamo incontrate al campo profughi dell’isola di Geoje e lei mi vede ancora come una poveraccia affamata e traumatizzata. A quel tempo ero strana e del tutto inaffidabile; perfino gli altri profughi mi evitavano. Farfugliavo frasi incoerenti con la parlata pulita e raffinata di Seul, e a volte mi spingevo a usare l’inglese; svenivo ogni volta che facevamo la fila e a notte fonda scoppiavo a piangere strappando le lenzuola. Divenni famosa come la ragazza ricca e matta che aveva studiato all’estero; consolidai la mia reputazione con un avvenimento sconvolgente, dopo il quale la signora Chang si convinse a vigilare su di me. Ogni volta che mi guarda sento l’impulso di mostrarle ciò che la gente vuole da me, anche se dubito che lei lo voglia. Tutti sembrano credere che io abbia perso la volontà di cavarmela da sola e che prima o poi avrò un tragico crollo. Non è

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