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Diario di un narratore
Diario di un narratore
Diario di un narratore
E-book338 pagine4 ore

Diario di un narratore

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Info su questo ebook

Cos'hanno in comune un pazzo, un chimico, una venditrice di coupon, unn turista, un amante occasionale di Capodanno, Cervantes, una coppia in crisi, degli adolescenti disadattati e un milionario caduto in disgrazia?

Appaiono tutti in questo libro!

Oltre sessanta racconti brevi indipendenti che ti faranno tanto ridere, forse ti faranno versare anche qualche lacrima e, in alcuni casi, ti faranno addirittura venire la pelle d'oca.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita9 mar 2021
ISBN9781071591246
Diario di un narratore

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    Anteprima del libro

    Diario di un narratore - Jorge Moreno

    DIARIO

    DI UN

    NARRATORE

    Di

    Jorge Moreno

    PROLOGO

    Nacqui con una matita tra le mani e subito cominciai a scarabocchiare linee che presto si trasformarono in lettere.

    Non è vero, ovviamente, ma mi piace raccontare che andò così, alla fine scrivere serve a questo, a raccontare ciò che vuoi, perché ti piace o solo perché ti va.

    Non è successo così presto come immagino, però da quand’ero bambino mi è sempre piaciuto scrivere e il fatto di diventare scrittore e pubblicare un libro più che un sogno era una chimera irreale e irrealizzabile.

    Il mondo cambia, così come le prospettive, e io sono giunto alla conclusione che se vuoi riuscire in qualcosa, devi iniziare a provarci. Ho ricominciato a scrivere racconti brevi e a un certo punto ho deciso di pubblicarli in questo libro.

    In questo Diario di un narratore sono riuniti tutti i racconti che ho conservato e che, in un modo o nell’altro, sono sopravvissuti. Appaiono in ordine cronologico di stesura, tranne il primo, Pazzo, che ho scritto nel 2011, quando ho deciso di riprendere in mano la mia passione, risultato poi finalista al Primo Premio de El Folio en Blanco, bandito dalla scuola di scrittura di Carmen Posadas, che mi tolse di dosso la paura di mostrare agli altri ciò che scrivevo. I primi racconti risalgono agli inizi degli anni ‘90 del secolo scorso e si nota la distanza nel tempo e la mia inesperienza, ma per me hanno un particolare valore affettivo e ho voluto congiungerli agli altri, più recenti e più numerosi, a partire da Il miglior giorno della mia vita, del 2011, fino ad arrivare al 2014.

    Sono più di sessanta racconti, scritti per motivi e finalità diverse, prevalentemente di finzione, ma con l’aggiunta di qualcuno di carattere più personale.

    Spero che vi piacciano e che possiate leggerli fino alla fine, così finalmente mi convincerò che sarebbe stato impossibile solo se non ci avessi provato.

    RACCONTI INCLUSI NEL LIBRO

    Pazzo

    Una storia e basta

    Un giorno fortunato

    Il destino

    Il corno

    One tree hill

    Loro

    Il bugiardo

    Eroe

    Incontro

    Il segnale

    Viaggio nel tempo

    Ancora non ti conoscevo e già ti amavo

    Il miglior giorno della mia vita

    L’appuntamento perfetto

    Un ti amo

    Il viaggio

    La vera felicità

    La lacrima

    Sguardi

    La spia

    La rimpatriata

    SMS

    Il costume rosso

    2011, e anche stavolta niente fine del mondo

    I miei ricordi

    La paperella di gomma rosa

    La sedia

    Senza fiato

    Voci dal frigorifero

    Stagione di carciofi

    L’uomo invisibile

    L’ombrello

    Amnesia

    Centoquattro

    B237

    La bilancia

    Anacronismi

    Babbo Natale segreto

    La segreteria telefonica

    Il consulente

    La lettera

    Storia di un bacio

    I tre porcellini: tutta la verità

    Processo a un bacio

    La decisione

    La maniaca

    Con te

    Lo scrittore

    Alla ricerca della coscienza

    Sbronza

    Stai lontana da me

    Vent’anni non sono niente

    Parelio

    La camera

    I roseti

    Amiche

    Lo specchio

    Razionale

    Malintesi

    L’importante

    Baci nel cuore

    A mio padre, perché insiste, persiste e resiste.

    PAZZO

    Sono pazzo. Davvero pazzo. Non come quelli che si fanno un cappello di cartone, se lo calano sulla testa e dicono di essere Napoleone o Gesù Cristo. No, pazzo sul serio. Anche se mi vergogno un po’ ad ammettere che a volte ho detto di essere Cleopatra per essere preso sul serio.

    A noi pazzi, non ci prendono sul serio. Per niente. Vado a fare terapia, anche se mia moglie non vuole. Dice che non ce lo possiamo permettere, che costa troppo. Ma io so qual è la vera ragione. Ha una relazione con il mio terapista e si sente male se ci vado io. Il mio terapista è un bel tipo. Proprio un bel tipo. Caro, sì, ma io insisto ad andare da lui e lo pago il doppio per ogni seduta. Quando mi rinchiuderanno, sarà lui a farsi carico di mia moglie e dei miei figli, e quei soldi gli serviranno. È una persona così perbene che comprende le mie ragioni e non mi impedisce di pagarlo il doppio.

    Però è vero che non me lo posso permettere. Siamo poveri. Molto poveri. Ma ho chiesto un prestito. Avevo sentito dire che devi essere proprio pazzo per chiedere un prestito, quindi per me è stato facile.

    Il mio terapista è bravo. Molto bravo. Il suo metodo è la autosuggestione. Dice che con la suggestione del nostro subconscio possiamo essere in grado di fare qualsiasi cosa. Io sono già bravissimo. Mi sono autosuggestionato affinché Scarlett Johansson volesse andare a letto con me. Ha funzionato. I primi giorni dubitavo che avesse avuto successo e lo dissi al mio terapista. Lui mi spiegò che Scarlett moriva dalla voglia di vedermi, ma che non sapeva il mio indirizzo. Si offrì di contattarla lui stesso per darglielo, in cambio del costo di due sedute. Accettai. Dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Ma si sa che il traffico è un casino. Proprio un casino.

    Vado molto d’accordo con il mio terapista. Mi fa piacere che vada a letto con mia moglie. Mia moglie non è la donna più bella del mondo, non rientrerebbe neanche nella lista delle cento donne più belle. In realtà, è brutta. Molto brutta. E fa schifo. Davvero schifo. All’inizio, non capivo il mio terapista. Adesso sì. Sono sicuro che adoperi l’autosuggestione per convincersi che sia una top model.

    Ogni tanto ho dei momenti di lucidità in cui avrei voglia di vendicarmi di loro. Penso di autosuggestionarmi, trasformarmi in omosessuale e andare a letto con lui. Per fortuna, sono poche le volte in cui sono lucido. In quanto alla mia pazzia, non faccio molti progressi. Il mio terapista dice che è perché in realtà non voglio guarire e che ha bisogno di aumentare il numero di sedute. Non so se abbia ragione. Per sicurezza, ho chiesto un altro prestito.

    Ora devo smettere di scrivere. Suonano alla porta. Mi sono autosuggestionato per tutto il pomeriggio, dovrebbe essere Scarlett. È attraente. Molto attraente.

    UNA STORIA E BASTA

    Lasciate che mi presenti. Mi chiamo George H. McBrown, sono un investigatore privato e sto per raccontarvi il caso più importante della mia vita.

    A quell’epoca, ero appena arrivato a Chicago, un sollievo, visto che da un po’ soffrivo di una stitichezza insopportabile.

    A Chicago avevo intenzione di cominciare una nuova vita, cercando di fuggire dal mio passato. Quel giorno, erano le sette di sera e nessun cliente aveva interrotto il silenzio del mio studio da quando vi ero entrato. Mi preparavo ad uscire per andare a vedere i Bulls quando la mia segretaria entrò visibilmente agitata.

    —Signor McBrown, c’è una signorina che vuole vederla.

    —Se è un’altra testimone di Geova, dalle due dollari e dille di pregare per le nostre anime.

    —Già fatto, ma dice che più che salvare la sua anima, vorrebbe vederla di persona.

    Il mio fiuto non mi diceva nulla perché ero raffreddato, ma l’istinto mi diceva che c’era una cliente ad aspettarmi dietro la porta. Rapidamente chiusi le persiane lasciando entrare una debole luce, mi misi il cappello e mi sedetti sulla mia poltrona girevole, dando le spalle alla porta — sono dettagli molto importanti nella mia professione, servono ad impressionare il cliente—.

    —La faccia entrare.

    Immediatamente sentii dei tacchi avvicinarsi alla mia scrivania e una voce incredibilmente sensuale.

    —George H. McBrown?

    In quel momento, diedi un piccolo colpo alla poltrona girevole per posizionarmi di fronte a lei, ma la mancanza di pratica mi fece fare un paio di giri prima di riuscire a fermarmi. Quando ci riuscii, rimasi estasiato. Davanti a me c’era una donna terribilmente bella, con un caschetto biondo che brillava ai raggi di luce che la persiana lasciava entrare, e con delle curve infinite che sembrava potessero parlare. Fino ad allora avevo visto solo un’altra donna così bella ed era proprio colei che avevo intenzione di dimenticare in quella città con la mia nuova vita. Per un istante, data la nausea dovuta ai giri, avevo creduto fosse lei.

    —È lei il detective George H. McBrown? —ripeté.

    —Spero di sì, altrimenti indosso le mutande di qualcun altro.

    —Mi chiamo Mary Washington e vorrei assumerla affinché lei possa ritrovare mio padre, Charles Edward Washington.

    Per un momento rimasi paralizzato. Charly Washington era il proprietario della compagnia aerea Air Washy e uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti.

    —Mio padre è scomparso martedì scorso, al ritorno da una riunione di lavoro. Il giorno dopo, abbiamo ricevuto questa lettera.

    Le sue mani delicate mi passarono un biglietto su cui, con lettere ritagliate da un quotidiano, c’era scritto: Vogliamo 100 milioni di dollari. Se parlate con la polizia, il vecchio morirà.

    —Se ce lo restituisce vivo, la pagheremo un milione di dollari.

    —Signorina Washington...

    —Mi chiami Mary —mi disse, sorridente.

    —Perché si è rivolta a un detective nuovo in città come me?

    —Ho pensato che se mi fossi rivolta a un detective famoso, sarebbero venuti a saperlo e avrebbero ucciso mio padre.

    Durante tutto quel tempo, non avevo smesso di contemplarla. Il milione di dollari mi tentava, ma lei mi ricordava troppo quella che fino ad allora era stata la donna della mia vita e qualcosa mi suggeriva di non ricadere in vecchi errori.

    —Mi dispiace, signorina Washington, ma io mi occupo di divorzi e di omicidi, non di sequestri.

    —Va bene. Le lascio comunque il mio numero di telefono, dovesse cambiare idea.

    Tirò fuori un rossetto, scrisse su un bigliettino e me lo consegnò. Si alzò e si diresse verso la porta con un’andatura che avrebbe potuto buttar giù le pareti. Arrivata alla porta, si voltò, con i capelli biondi sospesi, per qualche istante, nell’aria.

    —E chiamami Mary —disse, sorridendomi di nuovo.

    Mi presi un paio di minuti per riprendermi, dopodiché uscii dall’ufficio per non perdermi la partita dei Bulls.

    Stavo attraversando la strada, quando sentii una signora iniziare a urlare. Mi voltai e vidi un uomo che puntava verso di me con una pistola, però, per mia fortuna, un istante prima che potesse sparare, un camion lo travolse.

    Più tardi, allo stadio dei Bulls, un uomo con impermeabile e occhiali da sole mi si avvicinò.

    —Raphael e il Fari registreranno un disco insieme —mi sussurrò all’orecchio.

    A Chicago, quando tentano di ucciderti due volte nella stessa giornata, di solito è perché o sei in debito con la mafia o le corna che hai messo a qualcuno gli impediscono di entrare nel bagno degli uomini. Siccome dal mio arrivo in città non avevo avuto tempo né di indebitarmi né tantomeno di riempire la città di piccoli tori, ipotizzai che i due tentativi di porre fine alla mia vita avessero qualcosa a che vedere con la visita di Mary Washington, perciò pensai che se la mia vita era in pericolo, che perlomeno fosse per una buona causa e, ovviamente, un milione di dollari lo era.

    ––––––––

    Il giorno dopo chiamai Mary Washington e ci mettemmo d’accordo per vederci in uno dei ristoranti più lussuosi di Chicago, il Telepizza Palace. Come faccio ogni volta che vado in un posto nuovo per la prima volta, arrivai mezz’ora prima per verificare che fosse un posto sicuro e, di passaggio, poter arraffare il pane dagli altri tavoli.

    Lei arrivò puntuale. Mentre si avvicinava, ripensai al mio ultimo amore e fui sul punto di uscire di lì di corsa, ma la bellezza di una donna è una cosa che mi ha sempre paralizzato. Si sedette.

    —Cosa ti ha fatto cambiare idea, George?

    —Ci sono tre cose che convincono sempre uno scozzese: i soldi, un whisky e una donna.

    —Allora, perché bevi acqua? —replicò lei.

    —Perché io non sono scozzese.

    Dopo i convenevoli di rito sul tempo e sul traffico, iniziammo a parlare del caso.

    —Chi sa della scomparsa di suo padre oltre a lei?

    —Oltre noi due, solo mio fratello Brady.

    —Quanti fratelli siete?

    —Solo noi due.

    —E sua madre?

    —È morta.

    —Visto che suo padre è un uomo d’affari così importante, suppongo che avrà un’agenda molto fitta e che i suoi soci siano rimasti colpiti dalla sua assenza.

    —Abbiamo inviato un sacco di lettere per annullare i suoi impegni adducendo che fosse in viaggio verso un centro benessere per delle cure termali.

    —Sa se avesse un affare importante per le mani che potesse spingere qualcuno a fargli pressione?

    —No, e smettila di darmi del lei, George. Non so nient’altro che possa interessarti, quindi parlami di te. Perché sei venuto a Chicago? —Mi guardò profondamente con i suoi occhi verdi e io non potei fare altro che rispondere.

    —Il mio passato non è una cosa piacevole per me. Sono venuto fin qui per dimenticare una donna che era tutto per me e che mi ha allontanato.

    —Ma che tipo di donna si lascia scappare un uomo come te, George H. McBrown? Ah, e poi, per cosa sta la acca?

    —Per Avelino.

    —Ma Avelino si scrive senza acca.

    —Lo so, ma quando ho scelto di metterla non sapevo nulla di ortografia.

    Chiacchierammo per tutta la cena e poi la accompagnai a casa. Sulla porta, mi accinsi a salutarla.

    —Buonanotte, signorina Washington. È stato un piacere cenare con lei.

    —George, mio fratello non è in casa e mi fa paura dormire da sola in una casa così grande —disse con la sua voce sensuale muovendo lentamente le palpebre e aprendo leggermente le labbra.

    Capii subito quello che stava insinuando.

    —Torno subito, vado a comprare una cosa.

    E andai subito a comprarlo. Devo riconoscere che all’inizio mi vergognavo un po’, mi aveva sempre fatto arrossire comprare quel genere di cose, ma mi diressi con decisione verso la commessa.

    —Un orsacchiotto, per favore.

    E così, grazie a me, Mary Washington poté dormire tranquilla quella notte. Quando glielo porsi mi sembrò un po’ delusa, ma la cena mi aveva lasciato un po’ a secco e non avevo potuto comprargliene uno più grande.

    Erano passati trentacinque minuti dalla mezzanotte e mi sembrò un buon momento per cominciare l’indagine. Me ne andai al mio appartamento, mi cambiai e riempii il portafoglio. All’una e un quarto ero già davanti alla porta del Pin&Pon Bar, uno dei peggiori locali della città, dove si riunivano gli esemplari più detestabili della società di Chicago e da cui avrei potuto ricavare informazioni preziose.

    Una volta dentro, il panorama non mi deluse. Alla mia destra, una fila di tavoli pieni di giocatori di poker e di ubriachi in cerca di qualche lavoretto. In fondo, vicino a un tavolo da biliardo un tipo cercava di pulire le orecchie a un altro con la stecca, mentre quest’ultimo era impegnato a suonare i campanellini di Capodanno sulla testa del precedente. Un gonfiore sospetto sul petto di ognuno dei presenti tradiva la presenza di un’arma nascosta. In quei momenti, fui felice di non aver dimenticato di portare con me la mia Beretta calibro nove corto.

    Mi diressi verso il bancone. Il cameriere si avvicinò a me. Era un omone nero enorme, dall’espressione poco cordiale e con un cenno d’intesa che poteva significare solo due cose, o che da diverso tempo soffriva in silenzio di emorroidi, o che da piccolo l’avevano cresciuto con biberon di aceto. In un ambiente del genere non potevo rimpicciolirmi ma, al contrario, mostrare di essere un duro, perciò quando mi si avvicinò, alzai un po’ la voce affinché anche gli altri mi sentissero e gli dissi senza alcuna esitazione:

    —Un succo d’arancia doppio e senza ghiaccio.

    Visto che non sembrava avere alcun effetto su di lui, aggiunsi:

    —E senza zucchero.

    All’improvviso, il locale ammutolì. Ero sul punto di aggiungere che avrebbe potuto metterci un po’ di saccarina, ma mi resi conto che non ero io la causa del silenzio, ma che il mutismo improvviso del bar era dovuto a un uomo che era appena entrato. Era un tizio alto e abbastanza possente. Aveva i capelli rasati stile militare e una cicatrice dall’orecchio alla bocca che metteva i brividi. Con l’inchiostro dei tatuaggi che aveva su tutto il corpo si sarebbe potuto scrivere un libro così lungo da rendere il Don Chisciotte un tascabile.

    Aprì la bocca ed emise un suono gutturale che fece ripartire la solita confusione del locale. Attraversò tutto il bar ed entrò in una stanza la cui porta era ben sorvegliata da tre uomini.

    Avevo già visto abbastanza, era arrivato il momento di trovare una pista da seguire. Quando il cameriere mi porse da bere, iniziai a parlarci.

    —C’è un tizio che deve dei soldi ad un mio caro amico e pare che non si sia fatto vedere molto in giro ultimamente. Forse potresti dirmi se l’hai visto. —Estrassi dal portafoglio una banconota da cento dollari e lui me la strappò dalle mani.

    —Per questo posso raccontarti che ha fatto fino alla comunione. Dimmi, chi è? —mi rispose, accennando ad un sorriso.

    Gli mostrai una foto di Charles Washington. Quando la vide, il suo viso sbiancò e per un momento credetti fosse Michael Jackson.

    —Non l’ho mai visto in vita mia —si affrettò a dire, rilanciandomi la banconota.

    È difficile vedere il panico in un tipo come quel cameriere. L’unica cosa che avrebbe potuto spaventarlo in quel modo era che dietro al sequestro ci fosse Hilo, il peggior delinquente non solo di Chicago, ma di tutte le principali città degli Stati Uniti. La polizia e gli agenti dell’FBI lo cercavano da diverso tempo, ma non sapevano neanche loro che aspetto avesse. Aveva il controllo di tutti gli affari più loschi ed era la persona più potente del paese, con migliaia di altri delinquenti al suo seguito che facevano rispettare la legge di Hilo.

    L’espressione del cameriere mi sembrò sufficiente per quella notte. Bevvi di fretta il succo e tornai al mio appartamento, nonostante sapessi che a partire da quel momento avrei dovuto essere più prudente che mai e avrei dovuto vigilare su ogni angolo, ogni divano, ogni zona oscura.

    ––––––––

    Il giorno seguente, mi recai a casa dei Washington. Mi aprì la porta una signora anziana che mi parve essere la governante.

    —Ave Maria Purissima —disse.

    —Concepita senza peccato. Sono un amico della signorina Mary Washington.

    —Vado ad avvisare il signorino.

    Si allontanò lentamente. Entrai ed apparve subito Mary.

    —Ciao, George, è un piacere rivederti.

    —Devo...

    Non riuscii a terminare la frase. Un uomo con pantaloncini da tennis e un maglioncino sulle spalle veniva verso di noi con una racchetta in mano e non smetteva di atteggiarsi.

    —Lui è mio fratello Brady —disse Mary quando l’uomo arrivò vicino a noi.

    Smise per un attimo di atteggiarsi, per ricominciare immediatamente, con più insistenza di prima.

    —Ciao, bello —disse—. Mary mi ha parlato di te. Mi piacerebbe restare, ma Borja Mari mi sta aspettando per giocare a tennis. Ciao.

    —Tu non te ne vai—replicai— e smettila di muoverti, che finirai per colpirmi con quella racchetta. Ho forti sospetti che il sequestratore di suo padre sia Hilo.

    Mary scoppiò a piangere e si gettò tra le mie braccia. Ci provò anche Brady, ma il mio pugno lo fece desistere. Intanto, Mary era ancora in un mare di lacrime e io provai a consolarla.

    —Tranquilla, non piangere, tutto si sistemerà. Non vorrai far piangere anche me!

    Sembrò tranquillizzarsi.

    —Odio rinunciare a un lavoro e ancora di più a un milione di dollari, ma penso che la cosa migliore che possiate fare sia pagare il riscatto.

    —Come dici tu, bello —disse Brady.

    —Hai ragione —disse Mary─. Aspetteremo che si rimettano in contatto con noi e pagheremo.

    —Se c’è qualcosa che posso fare per voi, dite pure.

    Brady stava per dire qualcosa, ma io sollevai il braccio con il pugno chiuso e si fermò.

    —Non mi sento molto bene e avrei bisogno di parlare con qualcuno, perciò mi farebbe piacere se venissi a pranzo con me —mi propose Mary.

    —Mi piacerebbe molto.

    —Aspettami qui. Vado a darmi una sistemata e torno subito.

    E se ne andò con Brady. Mentre aspettavo, passò di nuovo la governante. Mi si avvicinò.

    —Rimane per cena? —mi domandò.

    —No.

    —Peccato, avanzeranno di nuovo le polpette.

    —È da molto tempo che lavora qui?

    —Sono più di quarant’anni che servo il signor Washington.

    —E, che rimanga tra noi, che opinione si è fatta della signorina Mary?

    —Ah, una santa! Com’è ingiusto, il Signore! Come fa a castigarla con una malattia tanto terribile da ucciderla lentamente!

    —Mi scusi, sta parlando della signorina Mary Washington?

    —Ma certo! Che disgrazia, mamma mia! —Si voltò e se ne andò.

    Mi sorprese che una donna all’apparenza così in piena salute stesse morendo. Quando tornò ero sul punto di piangere, ma mi contenni e non le dissi niente per non farla soffrire di più.

    —Che farai ora, George? —mi domandò al ristorante.

    —Non so. Potrei andarmene in un posto tranquillo a cercare le risposte alle domande che ci facciamo tutti: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Prima o poi Minnie farà le corna a Topolino con il topolino Pérez?

    —Sei mai stato alle Hawaii?

    —No.

    —È un posto meraviglioso. Ci vado ogni volta che posso. Tengo sempre un biglietto prenotato per me in tutti gli aerei di mio padre diretti alle Hawaii. Se vuoi possiamo andarci, io e te, e dimenticarci di tutto.

    Ero tentato di accettare, ma declinai l’offerta, dandole una buona scusa.

    —Mi piacerebbe molto, ma non posso, ho un’udienza col Papa la settimana prossima.

    Durante il resto della serata mi parlò entusiasta delle meraviglie di quelle isole, era realmente appassionata dalle Hawaii.

    Terminata la cena, ci salutammo e tornai al mio appartamento, convinto che non l’avrei mai più rivista. Ero stanco, feci le valigie, guardai un paio di partite in televisione e mi addormentai.

    ––––––––

    Il mattino seguente, stavo andando in ufficio, quando sentii un bambino urlare.

    —Edizione straordinaria! Charles Edward Washington assassinato!

    Corsi verso di lui e comprai un giornale. Mentre mi dirigevo a casa dei Washington, lessi la notizia. Secondo la versione dei fatti raccontata sul giornale, Charly Washington era stato assassinato la notte precedente mentre tornava a casa. A quanto pareva, l’assassino era stato un ladruncolo da quattro soldi che un poliziotto, che passava da quelle parti, era riuscito a catturare.

    Era tutto molto strano, perciò ipotizzai che il vero assassino fosse Hilo e che quella fosse tutta una montatura per consegnare un colpevole alla polizia e non sollevare ulteriormente la questione.

    Quando arrivai a casa dei Washington trovai Brady con un aspetto afflitto. Mi si avvicinò e mi passò un bigliettino con su scritto: Non stiamo scherzando. Dacci duecento milioni o uccidiamo anche lei.

    Era troppo. Non potevo permettere che Hilo ammazzasse una donna come Mary. Non avevo molte piste, ma sapevo che la soluzione poteva essere al Pin&Pon Bar. Forse il tizio della cicatrice e dei tatuaggi era Hilo, oppure Hilo si nascondeva dietro quella porta così ben sorvegliata. In qualunque caso, sapevo che l’unica possibilità che avevo di salvare Mary passava dal Pin&Pon, perciò mi incamminai in quella direzione.

    ––––––––

    Una volta entrato, mi diressi subito verso il cameriere.

    —Voglio vedere Hilo, subito. So che è qui. Digli che se è così coraggioso, può uscire e affrontarmi da uomo a uomo.

    In quel momento la porta misteriosa si aprì e ne uscì il tizio della cicatrice, mi afferrò per il bavero e mi buttò fuori con un calcio.

    —Non tornare o ti ammazzo. —Furono le sue uniche parole.

    Quando lo vidi rientrare nel Pin&Pon, mi alzai. Il mio piano aveva funzionato alla perfezione. Quando mi aveva afferrato, gli avevo messo una mano in tasca e avevo preso un bigliettino che ora mi accingevo a leggere. Lo aprii e vidi che c’era scritto, a caratteri cubitali, 23F. Pensai che potesse fare riferimento al 23 febbraio. Poteva essere un appuntamento dal dentista, ma non mi sembrava che quell’uomo si preoccupasse molto della sua igiene orale, quindi pensai che potesse fare riferimento a qualcosa di importante che sarebbe successo a Mary quel giorno. Eravamo al 22, quindi dovevo agire rapidamente.

    Mi nascosi dietro degli arbusti e aspettai che il tipo della cicatrice uscisse dal bar. Lo seguii per vari isolati, finché non lo vidi entrare in un blocco di edifici. Entrai, diedi uno sguardo dentro le caselle postali e notai che ce n’era solo una senza nome, quella dell’appartamento 5º A, perciò salii al sesto piano e suonai all’appartamento A. Una signora con i bigodini in testa e una vestaglia socchiuse la porta.

    —Agente

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