Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il principe svedese
Il principe svedese
Il principe svedese
E-book502 pagine7 ore

Il principe svedese

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tutto quello che cerchi da una storia d’amore in un unico libro

Dall'autrice del bestseller Dopo tutto sei arrivato tu

Non ho mai creduto nelle favole. Non sono una di quelle che perdeva tempo ad aspettare il Principe Azzurro. Crescere in una piccola città della California, insieme con sei fratelli più piccoli, ti insegna che è davvero improbabile che l’amore si presenti alla tua porta invitandoti per una cavalcata romantica verso il tramonto. Quando i miei genitori sono morti e tutte le responsabilità sono ricadute su di me, ho imparato che è inutile sognare e che bisogna guardare la vita per quello che è. Ma poi il destino ha letteralmente trascinato un principe al mio campanello. All’inizio pensavo che Viktor fosse un ricco uomo d’affari, incravattato, bello in modo assurdo. Ma dietro il suo fascino pacato si nascondeva un uomo in fuga dal proprio destino. Viktor di Casa Nordin, Sua Altezza Reale della Corona Svedese era quanto di più lontano potesse esistere dalla mia vita ordinaria. Eppure questo incontro ha cambiato tutto. Può esistere un lieto fine anche per chi non crede nelle favole?

Un’autrice bestseller del New York Times, di USA Today e del Wall Street Journal

L’amore è la favola più straordinaria che si possa vivere

«Una commedia romantica che unisce in modo impeccabile ironia, passione e romanticismo. Deliziosa dall’inizio alla fine.»
USA Today

«L’ho amato senza riserve! Mi ha preso dall’inizio e mi è piaciuta molto la chimica che c’è tra Maggie e Viktor. Romantico, intenso, caldo, un romanzo super!»

«Una lettura leggera ma emozionante, dolce e sexy. Leggevo con un sorriso stampato sulla faccia!»

Karina Halle
è cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo e ha collaborato con diverse riviste. È autrice di numerosi libri, tra cui la serie Dream (Patto d’amore, Offerta d’amore, Gioco d’amore, Bugie d’amore, Debito d’amore), il cui primo volume è stato in classifica per settimane sul «New York Times», sul «Wall Street Journal» e su «USA Today». Con la Newton Compton ha pubblicato anche Dopo tutto sei arrivato tu e Ricordati di me, scritto con Scott Mackenzie.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2019
ISBN9788822730084
Il principe svedese

Correlato a Il principe svedese

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il principe svedese

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il principe svedese - Karina Halle

    Parte prima

    Capitolo 1

    Maggie

    Un anno dopo. Tehachapi, California

    «D

    ove cavolo stanno i Frosted Flakes?»

    «Rosemary, non dire cavolo».

    «Ci sono solo i Cornflakes».

    «Okay, chi è che ha finito il succo d’arancia e ha rimesso il cartone vuoto in frigo?»

    «Perché non spargi un po’ di zucchero sui Cornflakes e basta? Sono uguali ai Frosted Flakes».

    «Non sono neppure Cornflakes. Si chiamano Fiocchi di Mais. Non ci possiamo neppure permettere i veri Cornflakes».

    «Lo sapevi che i Cornflakes furono inventati per far smettere ai bambini di masturbarsi?»

    «April! non davanti a Callum».

    «Che cos’è masturbarsi?».

    Chiudo gli occhi e cerco di tornare con la mente al luogo felice e sereno di cui mi parlano lo yoga e i video di meditazione su YouTube. Ormai sono mesi che li uso per lo stress e l’ansia, e credo di dover accettare il fatto che il mio luogo di felicità e serenità semplicemente non esiste.

    «Ragazzi, fate silenzio tutti», dice Pike con la sua voce profonda, zittendo chiunque in cucina. «Farete venire a Maggie un aneurisma».

    Una breve pausa.

    Riesco a sentire l’orologio del nonno che ticchetta in corridoio.

    Alla fine Callum chiede: «Cos’è un aneurisma?».

    Apro gli occhi e non posso fare a meno di sorridere al mio fratellino più piccolo. Ha solo sette anni ma è sveglio e fa sempre domande intelligenti. E si mette sempre nei guai, come ho scoperto di recente.

    «È quello che mi verrà se voialtri non vi comportate come si deve».

    «E che cos’è masturbarsi?»

    «È quello che fai se non riesci a trovare nessuno da portarti a letto», risponde April sottovoce.

    «April», la rimprovero io, ma lei non fa una piega di fron-

    te alla mia occhiataccia. Non lo fa mai. Il che mi fa imbestia-

    lire.

    Sospirando, mescolo dei fiocchi d’avena istantanei nell’acqua che bolle sul fornello, e in cucina torna il caos.

    Non ho mai chiesto di essere il tutore legale dei miei fratelli. Non ho mai chiesto che i miei genitori fossero brutalmente assassinati proprio nella casa in cui viviamo tutti. Non ho mai chiesto di rinunciare ai miei sogni professionali e a quelli di una vita migliore per tornare qui a Tehachapi a raccogliere i pezzi di tutte le esistenze che sono state completamente infrante.

    Mai chiesto nulla di tutto ciò. Nessuno di noi lo ha fatto. Ma sono qui e faccio del mio meglio ogni giorno per assicurare ai miei fratelli e sorelle un futuro più luminoso.

    Ma cazzo se è difficile. Ero legata a mia madre, anche se abbiamo avuto molti anni di alti e bassi come sempre capita tra madri e figlie. Però mai una volta ho pensato a quanto dovesse essere difficile farci crescere tutti. Sapevo che si faceva il culo al lavoro, e che se lo faceva anche mio padre. Sapevo che riuscivamo sempre a tirare avanti a fatica. Sono cresciuta in un mondo in cui quando qualcosa si rompeva o lo riparavi o aspettavi per anni un rimpiazzo che non era poi tanto migliore. Dove i cesti degli sconti e i mercatini dell’usato e la generosità dei vicini erano la nostra unica vera fonte di gioia.

    Ma non mi ero mai resa conto di quanto fosse emotivamente sfibrante e complesso tirare su una famiglia, specialmente una di queste dimensioni, con così tante personalità diverse, e spesso in conflitto.

    C’è Callum, che è il più piccolo. Ma quando dico che si mette nei guai quel che intendo è che nel momento stesso in cui gli dici di non fare qualcosa, lui la fa. E per quanto sia intelligente e curioso, fatica a seguire a scuola e si azzuffa con gli altri bambini. Potrà sorridere parecchio e avere grandi occhi azzurri e brillanti, ma io riesco a vedere la sofferenza e la frustrazione che c’è dietro.

    Ci sono le due gemelle, Rosemary e Thyme (sì, sì, lo so, come la canzone), che hanno undici anni. Nonostante i loro nomi, che non causano altro se non grandi alzate d’occhi al cielo, le gemelle sono intelligenti, lavorano sodo e sono diligenti. Neppure si assomigliano: Rosemary è un’atleta in erba, mentre Thyme è una dark in erba. Al contrario di quel che potreste pensare, Thyme è quella estroversa e Rosemary può essere competitiva e scontrosa. Ma a parte Pike, sono loro che mi aiutano di più in casa.

    April ha quattordici anni, smania per i ragazzi, è carina – e lo sa – ma è anche piena di rabbia. Tutto ciò messo insieme dà come risultato una forza micidiale. La mia più grande paura è che a un certo punto rimanga incinta o magari cominci a drogarsi, se non ha già cominciato. Magari qualcosa di peggio. Quasi sempre sono preoccupata per lei e quasi sempre lei mi detesta, credo che la nostra relazione funzioni più o meno così.

    E poi c’è Pike. Adesso che ha diciotto anni e ha finito le superiori è abbastanza grande da essere il loro tutore legale, perciò praticamente ci dividiamo i compiti. Stava per andare all’università con una borsa di studio ma poi la morte dei nostri genitori ha mandato all’aria l’ultimo periodo di scuola e lui ha cannato praticamente tutte le materie in cui doveva eccellere. Non ci riproverà neanche. Adesso si è messo in testa di fare il tatuatore invece del paleontologo come voleva all’inizio. Alla faccia del ripensamento. È un tipo silenzioso, non parla molto e passa un sacco di tempo a fumare sigarette e a mettersi inchiostro addosso.

    La mia famiglia è sempre stata un po’ complicata prima che i miei morissero, perciò potete immaginare che chiunque qui, inclusa la sottoscritta, ci sta ancora parecchio sotto, e tutti cercano di fare i conti con la perdita come possono.

    «Ehi», fa Pike avvicinandosi con dei fogli in mano. «R. e T. vanno a una gita scolastica alla base aeronautica e servono le autorizzazioni. Ah, e la maestra di Callum vuole che andiamo a parlare con lei».

    Sospiro di nuovo mentre mescolo vigorosamente il porridge. «Perché ne parliamo adesso? Dov’erano questi fogli ieri sera?». Butto un occhio all’orologio. Devo portarli tutti a scuola prima di tuffarmi nel lavoro.

    «Rosemary se n’è dimenticata», dichiara Thyme con aria timida.

    «Oh, e tu no?», ribatte Rosemary caustica.

    Neanche mi prendo la briga di guardare Callum. So che ha un sorriso malandrino stampato in faccia. Non capisco perché gli piaccia tanto mettersi nei pasticci.

    «Puoi firmarli anche tu, questi», dico a Pike strappandogli di mano i fogli e, o Gesù, credo che adesso si sia anche tatuato le nocche. «Che cosa sono questi?», chiedo indicando i tatuaggi freschi.

    «Geroglifici», risponde lui come se niente fosse, porgendomi una penna. «Fatti con l’inchiostro».

    «E che significano?»

    «Che cosa sono i geroglifici?»

    «Dai, Callum, non fare lo scemo, lo sai cosa sono», dice Rosemary.

    «Rosemary, non chiamarlo scemo», la rimprovero io, poi guardo Pike con un sopracciglio alzato. «Promettimi solo che non cominci a tatuarti la faccia. Hai una bella faccia».

    Mi elargisce un sorriso, una rarità. «Davvero?»

    «Non montarti la testa, ma sì. Sei l’unica speranza che ha questa famiglia di trovarsi una tardona piena di soldi. O un tardone. Non staremo a giudicare, basta che ci passi i soldi sottobanco».

    «Cos’è una tardo…?»

    «Callum, smettila di fare tutte queste domande!», urla qualcuno.

    Io firmo in fretta le autorizzazioni e vado al calendario appeso al frigo, dove scrivo un appunto su un incontro dopo la scuola con la maestra di Callum.

    «Vuoi andare tu o ci vado io?», domando a Pike. «È di sera».

    Lui fa spallucce. So che non vuole andare e so anche che lo farà se glielo chiedo. Ma ha appena cominciato a lavorare come meccanico in un’officina qui vicino e spesso torna sfinito. E poi legalmente parlando i bambini sono un problema mio, non suo.

    «Vado io», gli dico.

    «Sicura?».

    Gli rivolgo un sorriso stanco. «Potremmo andare tutti e due ma non abbiamo i soldi per una babysitter». E qualcuno si rifiuta di guardare i bambini, finisco la frase nella mia mente.

    Annuisce. Non gli serve neppure di guardare April, sa che è a lei che sto pensando. Se fossi una madre migliore – correzione, non sono la loro madre – ma se fossi più brava a imporre regole e disciplina, forse potrei convincere April a guardare i suoi fratelli.

    Ma non sono brava in nessuna delle due cose. Con questa famiglia devo saper scegliere le mie battaglie.

    «State tutti e due parlando ancora di me?», chiede Callum innocentemente.

    Gli lancio un’occhiataccia che spero lo immobilizzerà sulla sedia, ma come April anche lui è immune. Si caccia in bocca i Cornflakes, anzi, i Fiocchi di Mais Senza Marca, e sorride, col latte che gli cola sul mento.

    Io alzo gli occhi al cielo.

    «La tua maestra non è contenta di te, Callum», dice Pike versandosi una tazza di caffè e sedendosi accanto a lui. «Di nuovo».

    Callum si stringe nelle spalle, mangia altri cereali, sorride.

    Quel bambino si appresta a diventare un sociopatico.

    «Maggie», fa April gettando il suo piatto nell’acquaio, ed è praticamente un ringhio. «Faremo tardi».

    Guardo l’orologio sul forno a microonde. Ha ragione.

    Butto giù in fretta metà del mio porridge, agguanto una mela e poi urlo: «Okay, state a sentire tutti, il bus parte adesso!».

    Alla morte dei miei abbiamo ereditato tutti dei soldi. Sfortunatamente loro due non avevano molto denaro in generale e non sottoscrissero la migliore delle polizze. Ho ricevuto la mia parte sei mesi fa ed è stata appena sufficiente a comprarci un preziosissimo minivan che prendesse il posto dello sgangherato rottame di prima, più qualcos’altro che abbiamo messo da parte. Anche Pike ha contribuito ai risparmi dopo essersi comprato una motocicletta usata, che poi ha cominciato a riparare. Tutti gli altri devono aspettare di fare diciotto anni per reclamare la loro parte, anche se ho la sensazione che nel caso di April le servirà per comprarsi un biglietto di sola andata via da qui.

    Non la biasimo.

    Per fortuna il mutuo della casa è stato estinto e anche se il grosso casermone è fatiscente e sta a cavallo di una collina che sovrasta sia la Statale 58 sia la ferrovia, il che causa tremori e chiasso infinito a tutte le ore del giorno e della notte, è sempre casa nostra. Inoltre le tasse di proprietà sono basse e gestibili.

    I gemelli discutono su chi debba stare davanti, con Rosemary che alla fine vince per via del suo magistrale colpo di gomito, mentre Thyme, Callum e April montano di dietro. Saluto Pike con un colpo di clacson, poi agito la mano all’indirizzo dei nostri dirimpettai, i Wallace, che sono fuori a fare giardinaggio. Sono vecchi come il peccato e adesso che siamo in maggio e il torrido caldo estivo è già qui, li si trova all’aperto solo le prime ore del mattino.

    Lascio Callum per primo visto che la sua scuola elementare è la più vicina, poi le ragazze, quindi dopo un lungo sospiro mi dirigo al lavoro.

    Dopo aver saputo dei miei non c’è stata più nessuna università, niente più corso di giornalismo. Sono saltata sul primo aereo e ho incaricato Sam di spedirmi tutta la mia roba a casa. Essendo la buona amica che è, qualche giorno più tardi è anche arrivata con buona parte delle mie cose, per essermi vicina durante i funerali.

    Nel momento stesso in cui sono tornata a Tehachapi il caos si è scavato un posto permanente nel mio cuore, al punto da mettere in ombra il mio cordoglio, a volte. C’erano momenti in cui caos e dolore si alleavano e in quei giorni non volevo fare altro che chiudermi in bagno, entrare nella vasca e piangere. Qualche volta l’ho fatto, desiderando di poter andare alla deriva in un posto dove il dolore non riuscisse a raggiungermi, dove la tristezza non facesse il nido nelle mie ossa e dove non mi sentissi sempre tanto sopraffatta.

    Ma non ho potuto farlo per molto. Dovevo tenere duro per il bene di tutti quelli attorno a me. Ci sono state riunioni con gli avvocati e le compagnie di assicurazioni, la polizia e i medici legali, insegnanti, scuole, imprese di pompe funebri, vicini. Anche se i miei genitori tiravano sempre avanti come potevano, erano benvoluti da tutti e c’è stata molta solidarietà.

    A me non sembra neppure di aver avuto la possibilità di viverlo, il lutto. Sono andata da una psicologa qui in città ma anche quello era troppo per me, trattandosi di un’amica di mia madre. Così ho dovuto affrontare la loro morte come ho affrontato tutto il resto.

    Compreso lo scoppiare in lacrime nell’intervallo tra il lasciare i miei fratelli a scuola e l’andare al lavoro. Sono solo dieci minuti di strada da un capo all’altro della città, ma mi sembra che sia l’unico momento che ho per stare con me stessa, e per pensare.

    Per forza di cose la mente va a mamma e papà e a tutto quello che ho perso. Per certi versi è meglio essere carica di lavoro e costantemente impegnata, perché il dolore resta in sottofondo, ma quando riesco a trovare quei momenti con me stessa, in macchina o a letto di notte, certe volte la sofferenza mi travolge. Invece di un lento stillicidio è uno tsunami.

    Stamattina però sto facendo tardi al lavoro. Non ho tempo per riflettere e sentirmi triste o macerarmi nell’autocommiserazione. Ho ripreso il mio vecchio posto al La Quinta come cameriera ai piani, ma se non altro sono un gradino più in alto rispetto a quando lavoravo lì da adolescente. A dire il vero ho preso proprio il vecchio posto di mia madre, il che mi fa troppo impressione, ma almeno riesco a portare a casa da man-

    giare.

    Parcheggio il minivan nella solita piazzola, prendo una divisa di scorta che tengo nel vano portaoggetti (perché naturalmente la mia l’ho dimenticata nella lavatrice, a casa), poi mi sposto sul sedile posteriore e mi cambio. In questo sono diventata un’esperta, come Clark Kent che si trasforma in Superman dentro una cabina del telefono, solo che io mi trasformo in una cameriera dentro un minivan.

    Un attimo dopo sto entrando di corsa nell’albergo dall’ingresso posteriore, sperando di riuscire a mettermi subito a lavorare senza essere notata.

    Chiaramente vado a sbattere contro Juanita, la mia superiore.

    «Cinque minuti di ritardo, Maggie», mi fa col suo tono serio. «Sarà meglio che questo non diventi un problema».

    «Lo so, mi spiace», rispondo legandomi indietro i capelli con gesti frenetici. Questa cosa si sta ripetendo spesso, e lo detesto.

    «Dovresti davvero convincere tuo fratello a portarli lui i bambini a scuola», aggiunge lei, e la durezza dei suoi lineamenti si trasforma in un’espressione comprensiva. «Proprio non so come tu riesca a farcela».

    «Ci riesco a malapena e tu lo sai», rispondo con amarezza. «E inoltre non potrei andare avanti senza questo lavoro. Perciò grazie, non succederà più».

    Juanita si limita a un cenno d’assenso, io mi allontano e mi metto subito al lavoro.

    Com’è facile immaginare, la curva di apprendimento della mia nuova vita è stata mostruosamente alta, ma per fortuna sono stati tutti molto d’aiuto e pieni di comprensione, inclusa Juanita. So bene che la loro solidarietà non durerà per sempre. In fin dei conti, o sono tagliata per qualcosa oppure non lo sono.

    E ancora non sono certa di quale sia il verdetto.

    L’unica cosa che so è che non posso permettermi di fallire.

    Benché fare la cameriera in un albergo non sia un’occupazione affascinante, specialmente se l’albergo in questione è economico, accanto all’autostrada e considera i waffles che danno a colazione come uno dei suoi punti di forza, io non odio questo lavoro. Okay, questa è una bugia. Ha molti aspetti che detesto, ma non quelli che pensate. Tutta la faccenda di pulire la sporcizia lasciata dalla gente, lavare via la merda dai bordi della tazza del bagno (letteralmente), trovare in giro preservativi usati, avere a che fare con lo schifo generale di peli e fluidi corporei sparsi ovunque e quant’altro, quella è la parte tollerabile. Sarà che sono cresciuta in una famiglia numerosa, o forse perché mi sono abituata a fare proprio questo lavoro quando ero un’adolescente.

    Quello che odio è qualcosa che non mi era neppure passato per la mente quando ero più giovane. A quei tempi stare dalla parte dei poveri non mi pesava come potreste pensare. La mia non è una città ricca e ci sono molte famiglie che faticano per arrivare a fine mese. La mia storia non ha nulla di speciale.

    Ma dopo essere andata via, dopo aver vissuto a New York e aver visto il mondo là fuori, il mondo che avrebbe potuto essere mio… odio il modo in cui la società guarda la gente come me dall’alto verso il basso. Cameriere, donne delle pulizie, domestiche, colletti blu: non abbiamo che una frazione del rispetto che meriteremmo.

    Tanto più quando c’è un cliente (maschio o femmina) arrogante e che ti tratta come se fossi spazzatura mentre lavori, fa commenti derisori, lancia occhiate sudice mentre tu stai solo cercando di tirare avanti, si lamenta di casini inesistenti forse fatti da qualcun altro e oltretutto, ovviamente, non lascia la mancia.

    Oggi lavoro il più rapidamente ed efficientemente possibile, lascio la testa sgombra da distrazioni, per quanto possibile, e mi annullo completamente nell’impegno. Devo ammetterlo, c’è qualcosa di gratificante nel fatto di entrare in una stanza dove sembra sia esplosa una bomba e riuscire a rimetterla completamente a nuovo, è un miglioramento che si può constatare con gli occhi. E alla fine della giornata posso contemplare il lavoro svolto e sentire di aver fatto la mia parte.

    Sono arrivata all’ultima camera del mio giro, su questo piano, e busso rapidamente alla porta.

    «Cameriera», annuncio ad alta voce.

    Nessuna risposta.

    Busso ancora e controllo che non ci sia il cartello non disturbare alla porta. «Cameriera», ripeto, poi tiro fuori la mia chiave.

    La striscio e la porta si apre con un bip.

    Entro per fare la mia ispezione generale, tanto per essere certa che non ci sia nessuno. Succede più spesso di quel che credereste.

    Nel farlo quasi vado a sbattere contro un uomo che esce dal bagno.

    Un uomo alto. Tipo un cazzo di gigante.

    Una bestia gigante e nuda.

    Mi blocco immediatamente, sussultando, e il tipo si allontana da me tornando nella stanza. Pare non mi abbia notato. Anzi, si muove con una certa spavalda noncuranza, giuro. Nudo, fico e spavaldo.

    So che dovrei uscire di corsa prima che si giri e mi veda. Potrebbe essere anzi uno di quegli incontri di cui ho sentito parlare le altre cameriere, in cui c’è un uomo nudo che fa finta di non averti sentito bussare, e la mossa migliore in quel caso è andarsene al volo.

    Ma questo qui…

    Non riesco a togliergli gli occhi di dosso.

    Dovrei, proprio dovrei ma è così… alto.

    Largo.

    Pelle liscia e abbronzata, spalle incredibilmente ampie, muscoli sinuosi che rotolano giù lungo la schiena.

    E poi il suo sedere.

    Oh, mio Dio, quel sedere.

    Il fatto che ci sia una leggera linea dell’abbronzatura che risalta sulla sua pelle fulva lo fa sembrare ancora più sodo, come una pesca succulenta che vorrei solo mettermi in ginocchio e mordere e…

    Si gira.

    Ho a malapena il tempo di spostare gli occhi dalle sue parti basse e alzarli fino al viso, dove vedo quei maledetti auricolari wireless nelle sue orecchie.

    Sta ascoltando la musica.

    Ovviamente.

    E mi guarda con dei bellissimi occhi color cielo, sgranati per lo stupore.

    «Mi dispiace tantissimo», sbotto sforzandomi come una matta di tenere gli occhi all’altezza dei suoi e non sul suo pisello, che lui tenta di coprire con la mano e anche se è soltanto al margine del mio campo visivo e lui ha mani larghe, è un tentativo vano. Una cosa del genere non si può coprire.

    «Non l’ho sentita entrare», dice ad alta voce con uno strano accento, poi si toglie gli auricolari e così il pisello resta lì a penzolare liberamente.

    Non guardare, Maggie, non guardare.

    E invece io mi metto a fissare.

    È un uccello pazzesco.

    Giuro che lo vedo perfino avere contrazione, quel lungo, scuro pitone carnoso, che mi fa desiderare di trovarmi in un film porno, così potrei gettarmi in ginocchio. Mai visto un pene così grosso e bello nei pressi della mia bocca prima d’ora, però scommetto che saprei cosa farci.

    E mentre sto lì a guardarlo attonita la mia chiave magnetica mi scivola dalle mani e finisce in terra.

    «Merda», mi scappa di bocca mentre mi chino per raccoglierla.

    Proprio mentre anche lui si china per fare altrettanto.

    Spaventata dalla vicinanza di quel pene gigante, sbatto le palpebre e mi tiro su.

    E con la testa lo colpisco al mento.

    «Mi dispiace tanto!», urlo di nuovo e simultaneamente mi tiro indietro massaggiandomi la nuca pulsante.

    Lui è ancora più allibito di prima, si tocca il mento con la mano e mi guarda confuso.

    «Mi spiace davvero!», ripeto di nuovo, consapevole di stare urlando, e riesco a voltarmi e a dirigermi verso la porta prima di assalirlo di nuovo.

    «Ehm, signorina», fa lui proprio quando sono quasi libera. «La sua chiave».

    Cazzo!

    Mi volto e lo vedo camminare verso di me, quel dannato uccello che dondola libero come un’ascia da guerra, e tra le lunghe dita stringe la mia chiave.

    Mi piazzo una mano sugli occhi in modo da non vedere nulla, riesco a prendergli la chiave poi rapida mi giro e filo via. Sono abbastanza certa di mormorare qualcosa come «mi spiace», o forse «pene», mentre mi allontano, ma alla fine per fortuna riesco a uscire sul corridoio e a richiudere la porta.

    «Porca merda», mormoro, poi comincio a spingere il carrello delle pulizie più veloce che posso lungo il corridoio, il viso in fiamme. «Porca merda».

    Dio, spero che non sporga reclamo, dicendo che ho cercato di sbirciarlo nudo o qualcosa di simile. Altro che cercato. Non avrei potuto evitare di guardarlo neppure se avessi voluto.

    Avresti dovuto sforzarti di più.

    Ed è vero. Avrei dovuto. Immagino sia una prova di quanto sono sola, o di quanto sono arrapata. La mia vita sessuale, la mia vita sentimentale, tutte cose finite nel dimenticatoio da quando sono tornata a Tehachapi. Non era un granché neppure a New York, ma almeno ero uscita un paio di sere, avevo fatto sesso una volta o due. Ormai tiro la cinghia da un anno e credo che gli effetti comincino a farsi sentire. A quanto pare strani uomini nudi sono sufficienti a farmi andare fuori di testa.

    Però quello non era un uomo qualsiasi. Era almeno un metro e novanta, con mani più larghe della mia faccia e un corpo che sembrava scolpito nel bronzo. Aveva occhi che mi ricordavano il cielo in un giorno d’estate e un accento che rivelava un’educazione raffinata e origini in un posto molto più interessante di questo.

    Era obiettivamente l’uomo più bello e attraente che abbia mai visto e questo senza neppure tener conto del suo pene.

    Mi appoggio al muro fuori dallo stanzino delle pulizie e cerco di rimettermi un po’ in sesto, formulando una preghiera silenziosa. Con un po’ di fortuna non rivedrò più quel tipo.

    Capitolo 2

    Maggie

    «C hi sente la musica con gli auricolari uscendo dalla doccia?», mi chiede Annette con un sorrisino da sopra la sua birra.

    «A essere onesta, non credo fosse appena uscito dalla doccia», le dico. «Non era per niente bagnato. Completamente asciutto». E liscio. E pulito. In ogni centimetro della sua pelle tonica e bronzea.

    «Anche in quel caso, è il La Quinta, mica il Four Seasons», ribatte lei. «Chi mai vorrebbe andarsene in giro nudo per la stanza ascoltando musica?».

    Rabbrividisce, al che io mi sporgo e le do un pugno leggero sul braccio, per poco non le faccio versare la birra. «Ehi. Io quelle stanze le pulisco. Potresti strusciare tranquillamente il tuo culo nudo su e giù per quel tappeto. È lindo e

    pinto».

    «Sto scherzando», risponde fingendosi lievemente disgustata, poi raccoglie un tovagliolino e asciuga il collo della sua bottiglia. «Mi sa che devo stare attenta a come parlo oggi, miss Sensibile».

    Rovescio gli occhi al cielo e bevo un sorso del mio vino. «Non sono miss Sensibile. Ho solo avuto una giornataccia».

    «Motivo per cui siamo qui», replica lei gioviale riferendosi al Faultline Bar. Il Faultline è uno dei bar più carini della città. Niente di lussuoso, ma almeno i cocktail sono buoni e il personale è gentile. Un punto in più se lo aggiudica per non essere zeppo di impiegati del carcere ed ex detenuti. Non che sia mai andata in quei locali in passato, ma di certo non potrei reggerli adesso. È là che quasi sempre trovavi mio padre a fine turno, e sono certa che ne sentirei ancora la presenza intrisa nelle pareti, per non parlare degli avventori che probabilmente non vedrebbero l’ora di parlarmi di lui, evocando tutti i fantasmi.

    Non che vada così spesso nei bar, comunque. Non ho né il tempo né il denaro. Ma era qualche settimana che non mi vedevo con Annette, lei mi ha detto che voleva offrirmi da bere e Pike che avrebbe badato lui a tutti mentre ero via. Non ha neppure tentennato. Forse lo stress che accumulo mi sta corrodendo la faccia.

    Annette ha passato i cinquanta, a dirla tutta è la migliore amica di mia madre. O lo era. È difficile decidere quale sia il giusto modo di dire: si smette forse di essere amici di qualcuno dopo che è morto? Annette non ha mai smesso di esserlo per mia madre, anche se lei non è più tra noi.

    Comunque sia, conosco Annette da sempre, e mi è sempre piaciuta, nonostante il suo essere volgare ed esplicita, o forse proprio per questo. Dopo la morte dei miei abbiamo cominciato ad avvicinarci. È una persona splendida con cui parlare perché sta ancora vivendo il lutto esattamente come me; inoltre sta affrontando un brutto divorzio, e passare del tempo con un’amica le fa bene. Il suo futuro ex marito lavora anche lui alla prigione come direttore ed è molto rispettato, per cui credo che Annette gradualmente perderà il suo giro di amici in città, visto che la maggior parte di loro si schiererà dalla parte del marito.

    Mi appoggio allo schienale del divanetto con un sospiro. «Devo andarmene da questa città», le dico, e subito vengo trafitta da un milione di fitte per il senso di colpa e il rimorso. Non c’è modo di andarsene, non ora.

    «Lo sai, quando te ne vorrai andare puoi farlo», dice Annette. «Continuerò a dirlo finché non mi crederai, ma sarei più che felice di guardare i ragazzi per un weekend. Vattene in macchina a Los Angeles e divertiti un po’. Comportati come la ventitreenne che sei. Sei troppo giovane per dover sopportare tutto questo».

    «Non posso prendermi dei giorni di ferie», le spiego.

    «Cazzate», replica tamburellando le unghie color rosa acceso sul tavolo. «È un anno che lavori lì, ti spettano un paio di settimane. Devi solo prendertele».

    «Ma probabilmente mi serviranno in caso di emergenza. Che succederà quando April si diploma e vorrà andare al college e io dovrò accompagnarla, dovunque questo sia?». Faccio una pausa. «Merda, probabilmente neppure ci andrà al college. Non avrà una borsa di studio, non col comportamento che sta tenendo e sappiamo bene che non possiamo permetterci di pagare l’università, adesso. Potrebbe perfino non farcela a diplomarsi».

    «Fa lo stesso, Maggie», replica lei con enfasi. Anche se ha smesso di fumare anni fa, ha ancora la voce di una che fuma cinque pacchetti al giorno. «È il futuro, e sai che non ha senso farsi prendere dall’ansia per qualcosa che è ancora lontano nel tempo. Le cose cambiano».

    «Invece non cambiano», obietto. «Callum ha solo sette anni. Io sarò il suo tutore per altri undici. Fino ad allora Tehachapi è la mia prigione».

    «Ascolta, Maggie, è una prigione per un sacco di gente. Letteralmente».

    Non ho più voglia di parlarne. Mi sembra inutile, e soprattutto mi sento marcia dentro per il solo fatto di volermene andare. Senza di me i miei fratelli e sorelle non hanno nessuno che faccia andare avanti le loro vite. Che ci piaccia o no, siamo nella stessa barca. E a nessuno di noi piace. Tutti quanti preghiamo ogni notte desiderando che ci vengano restituiti i genitori, ma preghiere e desideri non cambiano niente.

    «Allora, come ti va la scrittura?», domanda Annette con un repentino cambio di argomento.

    Non è un argomento migliore, però. È letteralmente la peggiore domanda si possa fare a uno scrittore.

    «Va… bene», rispondo lentamente dopo un sorso di vino. Bugia. Non va bene. Ogni sera, dopo che sono andati tutti a dormire, provo a rubare un’ora per me stessa da dedicare alla scrittura, ma sta diventando sempre più difficile. Non sono ispirata, sono esausta.

    «E hai rinunciato a lavorare per il quotidiano locale?».

    Ah, già, il quotidiano locale, il «Tehachapi News». Non proprio quello a cui miravo quando andavo alla nyu, ma ora morirei per avere l’opportunità di scrivere per loro, anche se mi dovessi occupare soltanto delle gare locali di mountain bike. Ma per quante volte mi sia fatta vedere nei loro uffici o abbia spedito curriculum per email chiedendo di scrivere per il giornale, non ho cavato un ragno dal buco. Ricevo il benservito tramite una lettera precompilata, senza alcuna vera spiegazione.

    «Ho rinunciato a un sacco di cose, Annette», le dico con un sorriso perché non voglio che la nostra serata diventi deprimente. Smettila di lamentarti e vivi il momento, mi dico. Goditi questo tempo fuori casa con la tua pazza amica, finché puoi.

    «Sembra che tu non sia l’unica ad aver mollato», mi dice indicando il bancone.

    I miei occhi fluttuano fino a raggiungere un uomo chinato sul piano del bar, che sembra addormentato o svenuto. Lo avevo già visto prima, quando sono entrata, la mia mente lo aveva catalogato tra gli elementi dello sfondo. Ma ora che Annette mi ci fa prestare attenzione, mi ritrovo a guardarlo in modo diverso.

    C’è qualcosa nella sua sagoma, forse perfino nell’aura che emana, che sembra attirarmi. Spalle incredibilmente ampie. Lunghe gambe infilate sotto lo sgabello. L’unica parte scoperta del corpo è dietro il collo, insieme ai capelli lucenti e color oro brunito; il viso è nascosto sotto le braccia. Non è di qui ed è di grossa stazza, sarà alto più di un metro e novanta e…

    Oh mio Dio.

    «Oh mio Dio, credo che sia lui».

    «Che?».

    La fisso a bocca aperta e noto lo sguardo sospettoso sul suo volto. «Credo che sia lui».

    «Ma lui chi?»

    «Il tizio nudo».

    «Mister Pisello Magico?».

    Alzo gli occhi al cielo e abbasso la voce e mentre parlo il mio corpo sembra farsi più piccolo contro il tavolo. «Non ho detto che era magico, solo che era grosso».

    «È la stessa cosa, tesoro».

    Osservo l’uomo svenuto riverso sul bancone e stavolta tutti i pezzi vanno al loro posto. È lui. L’ho visto nudo, quindi posso riconoscerlo da vestito.

    Che diavolo sta succedendo? Quante probabilità c’erano di ritrovarlo qui stasera?

    Be’, in realtà parecchio alte, visto che Tehachapi non ha proprio questa scintillante vita notturna.

    «Verrebbe da credere che un uomo delle sue dimensioni, e sto parlando dell’altezza, non pensare subito a cose sporche, sia capace di reggere l’alcol un tantino meglio», commenta Annette e mentre dice quelle parole i miei occhi salgono fino a incontrare quelli della barista. È una con cui andavo a scuola, di due anni più giovane, e benché non la conosca davvero mi sta guardando con aria supplichevole, come se le servisse aiuto.

    Probabilmente dovrei restarmene seduta ma qualcosa mi spinge a controllare la situazione un po’ più da vicino. Forse perché questo sconosciuto ha fatto per la seconda volta la sua comparsa nella mia vita e di nuovo in uno stato di vulnerabilità. Non che lui sembrasse esattamente vulnerabile quando l’ho visto nudo – anzi, sembrava fosse completamente padrone della situazione.

    Ma sento lo stesso che devo fare qualcosa, come se fossi responsabile di quel che accade alle sue chiappe. Chiappe deliziose e belle sode, tra l’altro.

    «Ti prendo un’altra birra», le dico alzandomi.

    «Ah-ah, e vedi di prendere qualcosa anche per te».

    Devo guidare, perciò per me il limite è un bicchiere di vino.

    Mi faccio strada fino al bancone e sorrido alla barista. «Posso avere un’altra Bud Light?», chiedo, e poi butto un occhio al tipo. Ora che gli sono più vicina sento una scarica di energia che mi attraversa, ed è una sensazione che mi prende di sorpresa, come se ogni nervo del mio corpo avesse preso vita e stesse danzando.

    «Certo». La barista scocca un’occhiata diffidente all’uomo. «Lo conosci?»

    «Soggiorna nell’albergo dove lavoro. Non so altro», ammetto. Be’, ci sarebbe anche il fatto che da nudo è uno spettacolo. «Mi sa che ha bevuto un po’ troppo, vero?».

    Lei si stringe nelle spalle e prende la birra. «Credo di sì. Quando è arrivato qui sembrava a posto. Ha ordinato una vodka con ghiaccio e basta. La seconda volta che l’ho visto stava partendo per il fottuto mondo dei sogni. L’ho scosso un paio di volte ma tutto quel che fa è emettere qualche gemito».

    Uhm. Un po’ preoccupante. «Non ti ha detto nulla?»

    «No». Fa scivolare la birra sul bancone verso di me. «Ha chiesto da bere e basta. Ma di certo non è di queste parti. Si capisce dall’accento. Di sicuro scandinavo, il che fa ancora più strano. Ho passato qualche settimana in Svezia e Norvegia l’anno scorso, e fattelo dire: quella gente l’alcol lo regge. Questo qui non direi proprio».

    Appare un altro cliente all’altra estremità del banco e si aggiudica l’attenzione della barista, che mi lascia solo con il misterioso scandinavo ubriaco.

    Dovrei portare subito la birra ad Annette, che mi sta fissando impaziente, invece mi prendo qualche altro secondo per guardarlo meglio.

    Lentamente i miei occhi assorbono ogni dettaglio. La lucentezza dei suoi capelli, tra il bronzo e il dorato ma mescolati con un marrone intenso, capelli lunghi quel tanto che basta da volergli dare una bella strattonata, per poi farteli scivolare tra le dita come seta. La nuca è lievemente abbronzata e dalla leggera peluria bionda, un punto che sembra dolorosamente scoperto e segretamente vulnerabile, che scompare sotto il colletto della giacca di pelle nera. La quale si abbina perfettamente alle sue spalle ampie, come un guanto, e il materiale ha un’aria al contempo soffice e di ottima fattura. Mentre la mia attenzione si sposta verso i suoi jeans e gli stivali grigio scuro mi rendo conto di quanto tutto il suo abbigliamento sembri costoso e di qualità. Non mi sembra il tipo di persona che soggiornerebbe al La Quinta per proprio piacere. È più adatto a posti e alberghi di prima qualità. Un uomo d’affari.

    Ma di che tipo di affari potrebbe trattarsi?

    Porno. Con un pisello del genere, dev’essere per forza il porno.

    «Ehi», mi sento dire con voce morbida, avvicinandomi per dargli un colpetto al braccio col gomito. «Allora, sono la ragazza che oggi ti ha visto nudo per sbaglio e volevo farti le mie scuse. Non è stata una cosa intenzionale». Faccio una pausa, conscia del fatto che potrebbe stare ascoltando, come del fatto che Annette è ancora laggiù che mi guarda con aria perplessa. «Per essere precisi, è successo in albergo. Io ero la cameriera e tu stavi, ecco, stavi uscendo dal bagno completamente nudo. Immagino non mi avessi sentito. Ma perché poi stavi ascoltando la musica? Quale musica potrebbe essere tanto importante da infilarti gli auricolari e andartene in giro come se fossi a casa tua? E parlando di casa, da dove diamine vieni?».

    Resto a guardarlo ancora per qualche minuto, vedo la sua schiena che si alza e si abbassa. Finalmente emette un suono strozzato e muove la testa avanti e indietro finché non si ferma con il viso rivolto verso di me, gli occhi chiusi.

    L’intimità di questo momento mi colpisce, sono esterrefatta da quanto appaia bello visto da vicino. In precedenza era stato difficile concentrarsi sul suo viso per ovvie ragioni, ora però mi sento di poterlo contemplare in tutta tranquillità.

    Anche se la sua mandibola è robusta, ampia e coperta da un filo di barba, c’è qualcosa di innocente nel suo aspetto. Forse sono tutti così dolci quando dormono, ma le sue ciglia sono assolutamente da invidia e le labbra piene paiono curvate in un lieve sorriso, in contrasto con la cavità che ha sotto gli zigomi pronunciati.

    Anche vestito e ubriaco

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1