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E-book454 pagine6 ore

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Info su questo ebook

"Ero brufoloso, portavo la giacca a vento e dei jeans a zampa di elefante con Purple e Sabbath scritto a penna sulle cosce, e guidavo un motorino scassato e rumorosissimo. E sì, volevo diventare un batterista..."

Bruce Dickinson, leggendario frontman degli Iron Maiden, è uno dei più iconici cantanti e autori della storia. Ma oltre a vantare una carriera musicale di grande successo, è anche pilota di linea per una compagnia aerea, imprenditore, speaker motivazionale, produttore di birra, scrittore, deejay radiofonico, sceneggiatore per il cinema, e come se non bastasse è anche un campione di scherma a livello internazionale: davvero uno degli uomini più eccezionali e interessanti del mondo.
A cosa serve questo pulsante? è molto più di un memoir: è una riflessione sugli alti e bassi della vita. Con la sua voce intensa e scanzonata, Bruce ripercorre le imprese esplosive della sua eccentrica infanzia inglese e il folgorante successo degli Iron Maiden, racconta la filosofia della scherma e la sua esaltante esperienza come pilota di boeing, fino ad arrivare alla recente lotta contro il cancro.

Coraggioso, sincero, energico e divertente come le performance del suo autore, A cosa serve questo pulsante? è un viaggio intimo nella vita, nel cuore e nella mente di un'autentica leggenda del rock.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788858980163
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    Anteprima del libro

    A cosa serve questo pulsante? - Bruce Dickinson

    ancora.

    PREMESSA

    Ero in volo da due ore sopra Murmansk, ma i russi non ci lasciavano atterrare.

    «Permesso di atterraggio negato» recitava la voce con un perfetto accento alla Mr Chekov di Star Trek.

    Non sapevo se il controllore che parlava fosse un fan degli Iron Maiden, ma non mi avrebbe comunque creduto: una rockstar che faceva anche il pilota di linea… non poteva essere. In ogni caso, non avevo Eddie a bordo e quello non era l’Ed Force One, ma una spedizione di pesca.

    Un Boeing 757 della Astraeus Airlines, con duecento sedili vuoti e me come primo ufficiale. C’erano solo venti passeggeri sul volo da Gatwick a Murmansk: molti uomini che si chiamavano John Smith, guardie del corpo, tutti armati fino ai denti. Non che Lord Heseltine ne avesse bisogno, era piuttosto bravo a farsi rispettare, se serviva. A bordo c’era anche Max Hastings, ex caporedattore del Daily Telegraph, e mi chiesi se il controllore sovietico avesse mai letto qualcuno dei suoi editoriali. Mi risposi di no.

    «Che genere di pesci si pescano, qui a Murmansk?» avevo chiesto a uno dei John Smith.

    «Pesci speciali» aveva risposto impassibile.

    «Pesci grossi?»

    «Molto grossi» aveva concluso, lasciando la cabina.

    Murmansk era il quartier generale della Flotta del Nord sovietica, Lord Heseltine era un ex segretario di Stato per la Difesa e ciò che Max Hastings non sapeva delle forze armate del mondo erano i dettagli senza importanza.

    Il mondo sotto di noi era misterioso e oscuro, sommerso da una coltre lanuginosa di nuvole basse. Per comunicare, avevo una radio e un vecchio cellulare Nokia, che riceveva il segnale a metà del circuito di attesa, così potevo mandare un messaggio al nostro controllo operativo, che avrebbe comunicato con Mosca tramite l’ambasciata britannica. Nessun telefono satellitare o GPS, nessun iPad né WiFi.

    Come dice James Bond a Q all’inizio di Skyfall: Una pistola e una radio. Non è esattamente Natale, direi.

    Dopo due ore di volo in circolo, fisicamente e metaforicamente, le regole del gioco cambiarono: «Se non ve ne andate, vi abbattiamo».

    Magari un giorno, pensai mentre facevamo dietrofront e ci dirigevamo a Ivalo, in Finlandia, scriverò un libro che parla di tutto questo.

    BORN IN ’58

    Gli eventi che contribuiscono a formare la personalità di un individuo interagiscono in modi bizzarri e imprevedibili.

    Ero figlio unico e fino ai cinque anni ero stato tirato su dai nonni. Ci vuole sempre un po’ per capire le dinamiche familiari, e io impiegai parecchio per comprenderle a fondo. Ero cresciuto, mi resi conto, in un misto di senso di colpa, amore non corrisposto e gelosia, il tutto pervaso da una percezione del dovere esasperata, dal costante obbligo di eccellere. Oggi mi accorgo che l’affetto non era molto, ma c’era una discreta attenzione al dettaglio. Sarebbe potuta andare molto peggio, considerate le circostanze.

    La mia vera madre si era sposata molto giovane, in fretta, con un soldato un po’ più vecchio di lei che si chiamava Bruce. Mio nonno materno avrebbe dovuto controllare i due durante il periodo del corteggiamento, ma aveva una mentalità aperta e non era un moralista, e sospetto che stesse dalla parte degli amanti; non era così per mia nonna, per la quale chi le aveva rubato l’unica figlia era una canaglia, nemmeno del Nord, un intruso che veniva dalle pianure, dalla costa desolata del Norfolk, insozzata dai gabbiani. L’Inghilterra dell’Est: paludi, acquitrini, torbiere, un mondo che da secoli era patria di anticonformisti, anarchici, accattoni di un’esistenza strappata a fatica alla terra bonificata.

    Mia madre era minuta, lavorava in un negozio di scarpe e aveva vinto una borsa di studio per la Royal Ballet School, ma mia nonna le aveva proibito di andare a Londra; così, vistasi negare la possibilità di realizzare il suo sogno, prese al volo quello seguente, e con lui arrivai io. Guardavo una foto di lei sulle punte, a quattordici anni, più o meno, e mi sembrava impossibile che fosse mia mamma, una piccola diva, simile a una fata, piena di un’innocenza gioiosa. Quella foto sul caminetto rappresentava tutto quello che avrebbe potuto essere, ma ora che la danza era sfumata restava solo il dovere. E un gin tonic occasionale.

    I miei genitori erano così giovani che per me è impossibile dire che cosa avrei fatto io al posto loro. La vita era tutta lì: andare a scuola e avere successo, uscire da una condizione operaia, facendo però mille lavori. Il peccato più grave era non impegnarsi al massimo.

    Mio padre era una persona molto seria, uno che si dava da fare: cresciuto in una famiglia di sei persone, era figlio di una ragazza di campagna che a dodici anni era stata mandata a servizio e di un operaio edile un po’ ribelle, motociclista e capitano della squadra di calcio di Great Yarmouth.

    La grande passione di mio padre erano le macchine, il mondo degli ingranaggi, delle regolazioni, del disegno e della progettazione. Gli piacevano le automobili e amava guidare, per quanto non ritenesse di dover rispettare le leggi sui limiti di velocità, le cinture di sicurezza o la guida in stato di ebbrezza. Dopo aver perso la patente, si arruolò nell’esercito: i volontari venivano pagati meglio dei militari di leva, e lì non sembravano preoccuparsi più di tanto di chi guidava le loro jeep.

    Recuperata immediatamente la patente (militare), grazie al suo talento ingegneristico e alla sua abilità manuale finì a lavorare come disegnatore di scenari da fine del mondo: seduto a un tavolo, a Düsseldorf, tracciava con cura cerchi intorno ai luoghi presunti delle stragi che l’apocalisse della Guerra Fredda avrebbe causato, e il resto del tempo lo passava a bere whisky per sconfiggere la noia e il senso d’inutilità che si portava dietro, credo. E mentre ancora prestava servizio, questo muscoloso campione di nuoto – farfalla, nientemeno – del Norfolk fece innamorare perdutamente quell’esile ballerina che era mia madre.

    Prole indesiderata dell’uomo che le aveva rubato l’unica figlia, per mia nonna rappresentavo la stirpe di Satana, ma per mio nonno Austin ero la cosa più vicina che ci potesse essere a un figlio, e per i primi cinque anni della mia vita furono di fatto loro i miei veri genitori. Fu un bel periodo: le passeggiate nei boschi, le tane dei conigli, i tramonti invernali incantevoli sulla pianura e la brina che scintillava sotto i cieli violacei.

    I miei genitori viaggiavano per lavoro, portando in diversi locali notturni il loro spettacolo di cani, con barboncini, cerchi e tutine. Fate voi.

    La casa bifamiliare al numero 52 di Manton Crescent era dipinta di bianco: un edificio di mattoni, popolare, ordinario. Manton Colliery era una miniera sotterranea di carbone, ed era lì che lavorava mio nonno.

    Aveva iniziato a tredici anni e sarebbe stato troppo piccolo per lavorare, così mentì spudoratamente sulla sua età e la sua altezza, modesta come la mia, peraltro. Per aggirare il regolamento, che stabiliva che eri idoneo a scendere sottoterra solo se la tua lanterna, legata con un cordino alla cintura, non strusciava per terra, fece giusto un paio di nodi al cordino. Rischiò di dover andare in guerra, ma non si spinse oltre il cancello del giardino: era un volontario part-time del Territorial Army, ma l’estrazione di carbone era considerata un servizio essenziale e così non era tenuto a combattere.

    Rimase lì in uniforme, pronto a partire, a guardare il suo plotone che a passo di marcia andava a combattere in Francia; fu uno di quei momenti alla Ritorno al futuro, nel quale, se avesse varcato quel cancello e si fosse unito ai compagni per andare in guerra, un sacco di cose, me compreso, non sarebbero successe.

    Mia nonna era ferma sulla porta di casa, le mani sui fianchi e uno sguardo di sfida.

    «Se te ne vai, quando torni non mi troverai» disse.

    Mio nonno non partì. Gran parte del suo reggimento non fece ritorno.

    Con un nonno minatore, avevamo diritto alla casa popolare e al carbone gratuito, e l’arte di fare il fuoco con il carbone per riscaldare la casa finì per trasformarmi in un vero piromane. Non avevamo il telefono, né il frigo, né un sistema di riscaldamento, né il bagno interno, né la macchina. Usavamo il frigo degli altri e avevamo una piccola dispensa, fredda e umida, che evitavo come la peste. La cucina era composta da due piastre elettriche e un forno a carbone, ma l’elettricità era considerata un lusso da evitare a tutti i costi. Possedevamo un aspirapolvere e il mio attrezzo preferito, un mangano, formato da due rulli che strizzavano i vestiti bagnati: una manovella gigante faceva girare la macchina, e lenzuola, camicie e pantaloni cadevano in un secchio dopo essere passati tra i rulli.

    C’era una vasca di plastica portatile per me, mentre mio nonno arrivava a casa dopo essersi lavato nei bagni della miniera. A volte tornava dal pub, intriso del puzzo di birra e cipolle, e si buttava nel letto accanto a me, russando fortissimo. Alla luce della luna, che passava attraverso le tende quasi trasparenti, vedevo le cicatrici blu che gli adornavano la schiena, ricordi di una vita sottoterra.

    Avevamo un capanno in cui si spaccava la legna, non sapevo bene a che scopo, ma per me era un nascondiglio che poteva diventare un’astronave, un castello o un sottomarino. Nel nostro cortiletto, due vecchie traversine ferroviarie fungevano da barche a vela, dalle quali gettavo ripetutamente la lenza per pescare squali che vivevano nelle crepe del cemento. C’era un orto con delle specie di crisantemi che non vivevano molto a lungo e che una notte, durante un falò, vennero inceneriti da un fuoco d’artificio fuori controllo.

    Non avevamo animali, a parte un pesce rosso di nome Peter che visse per un tempo sospettosamente lungo.

    Ma una cosa che avevamo era la televisione: la sua presenza cambiò totalmente la mia infanzia. Dal suo schermo, largo quindici-venti pollici, in bianco e nero, con le immagini sgranate, arrivava il mondo intero. Era un apparecchio a valvole che impiegava interi minuti a scaldarsi e che, quando veniva spento, irradiava una luce che svaniva lentamente fino a ridursi a un puntino, cosa che costituiva di per sé uno spettacolo di un certo interesse. La gente veniva da noi a vederla, ad accarezzarla, anche senza fermarsi a guardarla. Era un oggetto con un alone mistico; sul davanti facevano bella mostra di sé bottoni misteriosi e manopole che giravano come quelle di una cassaforte e che erano in grado di sintonizzarla sugli unici due canali disponibili.

    Il mondo esterno, vale a dire qualsiasi posto che non fosse Worksop, ci arrivava principalmente attraverso i pettegolezzi, o il Daily Mirror: lo usavamo sempre per fare il fuoco e di solito leggevo le notizie due giorni in ritardo, poco prima che fosse gettato tra le fiamme. Quando Jurij Gagarin divenne il primo uomo ad andare nello spazio, mi ricordo che rimasi a guardare la sua foto e pensai: Non possiamo bruciarla! La ripiegai e la misi da parte.

    Se non bastavano i pettegolezzi o il giornale, era necessario usare il telefono, e così la cabina telefonica rossa diventava il centro di contagio per raffreddore, febbre, tosse, peste bubbonica e quant’altro di tutto il quartiere. Nelle ore di punta c’era sempre da fare la coda, e la chiamata era una combinazione infernale di bottoni da premere e di rotelle da girare, per non parlare delle secchiate di monete necessarie nel caso ci fosse stato bisogno di sostenere una conversazione lunga.

    Era come una versione scomoda di Twitter, con la quantità di parole limitata dalla disponibilità di monete e gli sguardi ostili delle persone in coda, in attesa di annusare il microfono che puzzava di fumo e saliva, e di premersi sull’orecchio il ricevitore di bachelite, coperto di sudore e grasso dei capelli.

    A Worksop bisognava rispettare alcune regole e determinati codici di comportamento, ma l’etichetta nelle strade era comunque piuttosto rilassata, i crimini erano rari e non esisteva praticamente il traffico. I miei nonni andavano ovunque a piedi, o prendevano il bus: camminare dieci-quindici chilometri, all’andata e al ritorno, tra i campi, per andare al lavoro, era qualcosa a cui erano stati abituati fin da piccoli, e io facevo lo stesso.

    L’intero quartiere seguiva i ritmi dei turni di lavoro. Se le finestre di una casa avevano le tende del piano di sopra tirate, il messaggio era chiaro: passare senza far rumore, minatore che dorme; mentre se le tende erano chiuse nel salone al piano terra significava: passare in fretta, estremo saluto a persona morta. Questa pratica un po’ macabra era abbastanza diffusa, a sentire mia nonna, e io me ne stavo seduto nel soggiorno di casa, sempre gelido e silenzioso, decorato con cavallini d’ottone e candelabri che dovevano essere lucidati regolarmente, a pensare a dove avrebbero potuto sistemare il cadavere.

    Di sera l’atmosfera cambiava e la casa finiva per somigliare a una vignetta di Gary Larson: sedie di legno pieghevoli la trasformavano in una sorta di salone di bellezza improvvisato, in cui il blu era il colore dominante e la cofana l’unica cosa che contava. Donne con ginocchia enormi e sacchetti di polietilene sulla testa stavano sedute ad asciugarsi sotto le lampade riscaldanti, mentre mia nonna abbrustoliva e arricciava tra l’odore orribile di capelli umidi e shampoo economico.

    La mia via di fuga era lo zio John, una persona che è stata fondamentale nel mio percorso di crescita. Prima di tutto, non era davvero mio zio, ma il mio padrino, il miglior amico di mio nonno. Era nella Royal Air Force, e aveva combattuto in guerra. Ragazzo intelligente, di famiglia operaia, era stato scelto dalla RAF, che stava aumentando i propri effettivi e aveva bisogno di personale con determinate conoscenze tecniche, come uno degli apprendisti di Trenchard. Ingegnere elettrico durante l’assedio di Malta, il sergente John Booker era sopravvissuto ad alcuni dei più terribili bombardamenti di tutto il conflitto, su un’isola che Hitler era determinato a distruggere a ogni costo.

    Ho le sue medaglie e una delle sue Bibbie, con annotazioni in corrispondenza dei versetti che lo avevano confortato in un periodo di orrori difficili da immaginare. Ci sono anche delle foto: una che lo ritrae in completo da pilota, pronto a partire per una missione di ricognizione notturna che, in quanto truppe di terra, non aveva alcuna utilità, era fatta tanto per farla.

    Gli sedevo sulle ginocchia e lui mi raccontava storie sull’aviazione, mentre accarezzavo il suo modellino di Spitfire argentato e un quadrimotore Liberator di ottone con le eliche in plexiglas, fabbricato con il materiale di uno Spitfire abbattuto; aveva sotto il piedistallo del feltro verde che proveniva dal tavolo da biliardo di un bar distrutto in un bombardamento a Malta.

    John parlava di aerei, della storia dell’ingegneria britannica, di motori, di bombardieri Vulcan, di battaglie navali e collaudatori. Affascinato, me ne stavo seduto ore a costruire modellini di aerei, come tanti altri ragazzi della mia generazione, trafficando con i trasferelli, poi sostituiti dagli adesivi, molto più comodi. Sarebbe stato un vero miracolo se i miei piloti fossero sopravvissuti a un combattimento: avevano i corpi strapieni di colla e i cupolini dei loro aerei coperti di ditate. Incredibile, ma l’ultima volta che ho controllato, in occasione del funerale di mia nonna, il negozio di modellistica di Worksop in cui compravo la mia aviazione di plastica era ancora lì.

    Lo zio John era uno bravo nei lavori manuali: si era costruito un laghetto delle dimensioni del bacino di Möhne, pieno di pesci rossi e accuratamente protetto con il filo spinato. Guidava una Ford Consul davvero splendida, che ovviamente teneva benissimo, con cui mi portò al mio primo evento aeronautico, all’inizio degli anni Sessanta, quando salute e sicurezza erano robe da femminucce e il termine abbattimento acustico non era ancora entrato nel vocabolario.

    Aerei come il Vulcan squassavano i tetti con i loro boati, mentre eseguivano rollate verticali con le loro ali a delta, e l’English Electric Lightning, praticamente un razzo supersonico con un uomo a cavalcioni sopra, passava in volo rovesciato con la coda che quasi graffiava la pista. Roba forte.

    Lo zio John mi fece conoscere il mondo della meccanica e delle macchine, ma ero altrettanto attratto dalle locomotive a vapore che ancora transitavano per Worksop. La passerella pedonale e la stazione sono rimaste praticamente le stesse; giurerei che si tratti ancora del medesimo legno che ho calpestato da bambino. Il fumo, il vapore e la cenere che mi avvolgevano si mischiavano all’odore catramoso del bitume e mi pungevano le narici. Di recente ho camminato fino alla stazione, andata e ritorno. Ho pensato che si trattava di un percorso lungo, eppure da bambino mi sembrava una cosa da nulla. L’odore si sente ancora.

    Per farla breve, avrei voluto guidare le locomotive, e poi forse diventare pilota da guerra… e se poi mi fossi annoiato, fare l’astronauta era sempre una possibilità, almeno nei miei sogni. Dell’infanzia nulla va sprecato.

    Ma a un certo punto il divertimento doveva finire, e così andai a scuola. La Manton Primary era la scuola locale per i figli dei minatori e prima di chiudere divenne nota ai lettori del Daily Mail come l’istituto in cui gli allievi di cinque anni picchiavano gli insegnanti. Non ricordo di averlo fatto, ma so che ricevetti il dono delle ali e qualche lezione di boxe in seguito a una rissa per chi dovesse interpretare il ruolo dell’angelo nella recita di Natale. Desideravo con tutto me stesso quelle ali, e invece mi presi un bel calcione nella zuffa che proseguì fuori dalla scuola. Me la cavai tutt’altro che bene e quando tornai a casa, scombinato e con i vestiti strappati, mio nonno mi mise seduto e mi aprì le mani, morbide e tozze. Le sue erano ruvide come carta vetro, con tratti di pelle callosa come cocco grattugiato tra le profonde linee dei palmi che si allungavano mentre li distendeva di fronte a me. Ricordo il luccichio in quegli occhi.

    «Ora fai il pugno, ragazzo» mi esortò.

    Obbedii.

    «Non così, altrimenti ti rompi il pollice. Così.»

    Mi fece vedere.

    «Così?» chiesi.

    «Esatto. Ora colpisci la mia mano.»

    Non era proprio come in Karate Kid: niente stare in piedi su una gamba sola sopra la prua di una barca, niente dai la cera, togli la cera. Dopo una settimana o poco più, però, mi prese da parte e con grande calma, ma con una determinazione ferrea nella voce, mi disse: «Ora vai, trova quel ragazzo che ti ha fatto male e dagli una lezione».

    E così feci, circa venti minuti prima di essere afferrato dall’insegnante, che mi trascinò a casa di peso. La mia lezione di boxe era stata fin troppo efficace e la mia capacità di giudizio, a quattro o cinque anni, decisamente poco equilibrata.

    Il ratatat-tat della buca delle lettere richiamò alla porta un nonno impassibile: ciabatte, canottiera bianca e pantaloni larghi. Non ricordo che cosa disse l’insegnante, tutto quel che so fu che mio nonno replicò: «Ci penso io».

    E con quello mi lasciarono andare.

    Non ricevetti botte né rimproveri, ma una disapprovazione silenziosa e una lezione sull’etica della rissa e sulle regole del gioco, che si riassumevano in tre semplici punti: non fare il prepotente, difenditi e non colpire mai le donne. Un uomo gentile, comprensivo, assolutamente buono, che non mancò mai di proteggere ciò che riteneva importante.

    Non male per il 1962.

    In tutto questo, i miei veri genitori, Sonia e Bruce, avevano lasciato il circuito degli spettacoli per cani e vivevano a Sheffield. Venivano a trovarmi la domenica a pranzo; ho ancora la radio beige e marrone di bachelite che accendevamo in quelle occasioni. Erano sempre momenti sgradevoli, che mi lasciarono per tutta la vita l’orrore per i pasti consumati da seduto, il gin e il rossetto. Trascinavo il cibo qua e là nel piatto e mi sorbivo la predica su come non dovessi avanzare i cavolini di Bruxelles, o sul fatto che si doveva finire il cibo quando era razionato, cosa che non accadeva più, anche se nessuno sembrava farci caso. Erano gli stessi strascichi della guerra che limitavano a dieci centimetri l’acqua della vasca, mettevano ansia se usavi l’elettricità o condivano le chiacchiere telefoniche di paure. Le conversazioni erano zeppe di tragedie locali: tizio ha avuto un infarto, zia tal dei tali è caduta dalle scale. La maternità adolescenziale dilagava e qualche povero cristo era sprofondato in uno dei mucchi di scorie che circondavano l’orlo del pozzo minerario, all’interno del quale c’erano tizzoni ardenti che gli avevano lasciato ustioni orrende.

    Fu alla fine di uno di quei pranzi domenicali, dopo che avevo terminato i cavolini di Bruxelles e il pollo che fino a poco tempo prima scorrazzava nell’orto, che arrivò il momento che mi trasferissi a vivere con i miei genitori. Con mio zio John viaggiavo sempre sul sedile anteriore, ma adesso mi avevano sistemato su quello dietro, e guardavo fuori dal finestrino mentre i primi cinque anni della mia vita si allontanavano lentamente per scomparire dietro l’angolo.

    Alla fine mi voltai e guardai avanti, ficcando gli occhi in quelli del mio futuro incerto: sapevo un po’ fare a pugni, mi ero beccato qualche parassita molesto, ero stato al comando della mia aviazione personale ed ero vicino a sfidare la gravità. Quanto poteva essere tosto vivere con i miei genitori?

    LIFE ON MARS

    Non ho mai fumato tabacco, tranne quello contenuto in qualche canna occasionale tra i diciannove e i ventun anni, cosa di cui parleremo più avanti. Dico questo perché in realtà, stando con i miei, inspiravo un pacchetto di sigarette al giorno. Dio, quanto fumavano! A sedici anni provarono a farmi entrare nel club, ma sottrarmi alle loro grinfie ingiallite fu il mio atto di ribellione più grande.

    Bevevano spesso e senza freni. Mio padre non sopportava le cinture di sicurezza, diceva che potevano strangolarti, e avevo perso il conto delle volte in cui era tornato a casa guidando ubriaco fradicio.

    Dell’infanzia nulla va sprecato, tranne i genitori, qualche volta.

    Oggi sconsiglio di bere alcolici prima di mettersi in macchina, fosse anche solo un drink. Ovviamente, da ragazzo mi illudevo di essere indistruttibile e questa regola non faceva per me. Per fortuna sono maturato prima di ammazzarmi o, peggio ancora, di uccidere qualcuno che non c’entrava nulla.

    Ma siamo andati un po’ troppo avanti sulla linea del tempo, e il tasto fast-forward non esisteva nemmeno, sui mangiacassette, quando entrai nella mia nuova scuola a Manor Top, quella che si diceva fosse una zona disagiata di Sheffield.

    A dire il vero, a me non sembrava affatto male. Imparai a far passare la purea di patate, il pesce e i piselli (era venerdì, dopotutto) tra le labbra semichiuse, ottenendo una sorta di tenda arricciata che con i compagni facevamo a gara a lasciar pendere dalla bocca il più a lungo possibile.

    Probabilmente anche Gary Larson aveva frequentato quella scuola, perché gli inquietanti occhiali con la montatura d’osso conferivano al personale femminile quell’aria da guardie di campo di concentramento tanto amata dai film softcore degli anni Settanta e rimandavano subito alle sue vignette. Per non parlare dei due tizi alla Hannibal Lecter che somministravano le punizioni corporali. Pasticciare con la purea e i piselli era una bravata degna di quel genere di sanzione, e così accadeva che ci picchiassero forte con un bastone sul palmo delle mani aperto. Onestamente non ricordo nemmeno se facesse male, mi sembrava solo strano essere accusato e formalmente inserito nel registro delle punizioni. Mi sentivo sul punto di essere trasferito sull’Isola del Diavolo con un bel pigiama a strisce.

    Non rimasi molto in quella scuola, perché ci trasferimmo. Spostarsi sarebbe diventata un’attività normale nella mia vita, ma traslocare, principalmente per guadagnarci da vivere, era un tratto distintivo della famiglia.

    La mia nuova dimora divenne un seminterrato che dividevo con mia sorella Helena, che per quell’epoca era diventata un essere senziente, capace di formulare frasi sensate.

    Aveva una finestra delle dimensioni di un iPad che si apriva su una grondaia lastricata di foglie morte; c’era un frigorifero con un serio problema elettrico, e io mi divertivo ad attaccarmici con un asciugamano bagnato per vedere quanto tempo sarei riuscito a sopportare la scossa, prima che i denti cominciassero a martellare. In cima alle scale di pietra c’era il resto dell’umanità, e che umanità! Quello in cui vivevo era un albergo, una locanda, che mio padre aveva comprato e che gestiva insieme a mia madre. Si era anche messo a vendere auto usate, lì davanti.

    Acquistammo anche la casa di fianco e all’improvviso l’impero colpì ancora, costruendo un’estensione che collegava le due proprietà. Mentre mio padre tirava fuori le piantine che aveva disegnato, io trovai un pezzo di carta da parati e iniziai a progettare un’astronave con un sistema di sopravvivenza che mi avrebbe consentito di raggiungere Marte. Comparvero i muratori, che sembravano seguire le indicazioni di papà, e anche a me venne affidato un lavoretto, per quanto mal pagato. Non mi occupai della costruzione, ma mi divertivo un sacco a buttare giù le cose: la mia specialità era la demolizione dei bagni, tanto che all’università non riuscii mai a prendere sul serio il motto abbattere il sistema; ne sapevo più io sul distruggere sistemi (idraulici) di quanto avrebbero mai potuto saperne loro. Era grandioso.

    In seguito, l’hotel, il Lindrick, si dotò di un bar, costruito su progetto di mio padre. Per quel che ricordo, il Lindrick non chiudeva nei weekend, specialmente con mio padre dietro al bancone, e il lunedì successivo venivo a sapere da Lily cos’era successo.

    «Oh, Mr tal dei tali ha dato una testata a Mr Rigby… e poi quell’altro tipo si è messo a ballare sul tavolo ed è caduto. Dovevi vederlo, ha spaccato il tavolo in due, sai, ed era di teak; credo che l’abbia rotto con la testa…»

    C’era una certa promiscuità sessuale tra la gente che viaggiava per lavoro e alcuni degli ospiti erano decisamente bizzarri: un tizio inquietante, che si era fermato per due settimane, mi aveva dato un biglietto da visita sussurrandomi: «Ehi, io pratico Karma Yoga». Solitamente lasciava la stanza alle 19 e vagava per le strade fino all’alba, e no, non aveva un cane da portare a spasso.

    Tra i tanti che arrivavano, qualcuno non ripartiva: alcuni morivano nel loro letto e, se le circostanze della morte erano davvero orribili, si occupava Nonna Lily di raccontarlo a tutti: «È morta carbonizzata nella sua macchina…».

    Una notte due uomini si incontrarono nell’oscurità. Entrambi pensarono di essersi scambiati delle audaci carezze con un’ospite donna e il mattino dopo ci volle un po’ per rimettere le cose a posto. Era quasi come vivere in una perenne sit-com.

    All’hotel venivano aggiunte delle parti, e sempre più membri della famiglia si trasferivano a Sheffield. I miei nonni paterni, Ethel e Morris, vendettero la loro pensione in riva al mare e si spostarono nella nostra strada.

    Nonno Dickinson era la copia esatta dell’attore Wilfrid Hyde-White, solo con un accento del Norfolk più marcato. Una sigaretta rollata a mano dietro un orecchio, una matita dietro l’altro e il giornale delle corse in mano, si occupava di quella che oggi verrebbe definita riconversione degli edifici, ovvero la loro distruzione e l’utilizzo del medesimo materiale per ricostruirli altrove.

    Nonna Dickinson era una donna formidabile: alta un metro e ottanta, con capelli neri, folti e ricci e uno sguardo che avrebbe tirato giù un albero a una decina di metri di distanza, era stata comprata, portata via dal vagone ferroviario in cui viveva con altre diciotto ragazze e mandata a lavorare come donna di servizio. Correva veloce e avrebbe potuto fare carriera come atleta, ma non aveva i soldi per le scarpe e sui duecento metri non c’era modo di competere a piedi nudi con le avversarie in scarpe chiodate. Si ricordò di quell’umiliazione per tutta la vita.

    Mentre Ethel preparava torte, Morris usciva dal bagno con una sigaretta mezza fumata e il giornale di ippica pieno di crocette. «Ecco qui, figliolo, non dirlo a nessuno» sussurrava, e mi faceva scivolare in mano mezza corona, una di quelle guadagnate in anni di lavoro tra mattoni e cazzuole.

    Ricordo un pomeriggio in famiglia, a bere nel bar dell’albergo, quel giorno mio zio Rod mi fece diversi favori, uno dei quali fu convincermi a non farmi mai un tatuaggio.

    Fratello di mio padre, zio Rod era un personaggio a dir poco carismatico e, a dirla tutta, somigliava vagamente a uno di quei gangster loschi che si immaginano circondati da donne di facili costumi. Avevo dieci anni e stavo seduto sulle sue ginocchia mentre mi spiegava il sistema britannico di certificazione dei film.

    «Dunque, tu hai i tuoi film X, e praticamente hai la X per il sesso e la X per l’orrore…»

    Quello che aveva detto in seguito me l’ero perso, mentre guardavo le cicatrici sul dorso delle sue mani. Zio Rod, quand’era giovane, aveva il vizio di spostare le macchine degli altri e lo faceva così spesso che, nonostante gli sforzi della sua famiglia, venne mandato in un orribile istituto per giovani criminali, più conosciuto come riformatorio. Lì tutti si tatuavano con la polvere di mattoni e l’inchiostro e questo ti marchiava a vita come prodotto di quell’istituzione. Zio Rod aveva speso quella che per i tempi era una considerevole somma di denaro per farsi rimuovere quei tatuaggi con una tecnica rudimentale di innesto chirurgico di pelle, qualcosa che oggi è più vicino a un effetto speciale di un film horror di serie B. Credo che rimarrò come sono, pensai, non sembra divertente.

    Poi zio Rod era tornato a parlare di film di guerra, molti dei quali li avevo visti insieme a nonno Austin: Squadriglia 633, I guastatori delle dighe, La battaglia d’Inghilterra, I seicento di Balaklava.

    «E Base artica Zebra?» avevo chiesto io.

    «Quello non l’ho visto» aveva bofonchiato prima di tornare alla sua pinta.

    Grazie a Base artica Zebra conobbi la mia prima band di rock’n’roll, con tanto di chitarre elettriche, furgone e concerti. Si chiamavano The Casuals, avevano avuto successo con il singolo Jesamine e suonavano nei locali ogni volta con ingaggi di una settimana o giù di lì. Alloggiavano nel nostro hotel e di giorno – che per loro, creature della notte, non cominciava prima dell’ora di pranzo – si presentavano con occhi pesti, capelli lunghi, stivali con il tacco e pantaloni bianchi per fare colazione con tè e fette di pane tostato servite da Lily, tutta cinguettante.

    Gli dovevo essere sembrato un bambino precoce, con le mie domande su missili e sottomarini, e fu probabilmente per abbassare un po’ il livello della conversazione che il chitarrista portò giù la sua chitarra elettrica. La tenni in mano e restai sorpreso, perché era inaspettatamente pesante. Mi spiegò come funzionava e io rimasi a fissare i dischetti di metallo del pick-up sotto le corde, provando a immaginare come funzionasse in pratica il suono, come quelle piccole particelle potessero produrlo a partire dal rumore metallico delle corde pizzicate.

    Come molte band, i Casuals di giorno si annoiavano a morte e fu così che decisero di andare al cinema. Allo Sheffield Gaumont davano Base artica Zebra: a dieci anni ero al cinema, con un gruppo rock, i popcorn in mano, a guardare un film su missili e sottomarini nucleari. Questa è vita, pensai.

    Mio padre continuò l’espansione del suo impero comprando una stazione di servizio che era fallita. Si trattava di una proprietà enorme, con un garage e quattro vecchie pompe, niente tettoia e officine vecchie di cinquant’anni i cui mattoni erano coperti da una patina di olio e polvere spessa un centimetro. Così cominciammo a lavorare con le automobili: io mi occupavo dei rifornimenti tra le impalcature pericolanti (i famosi lavori di riconversione), lucidavo le macchine e pulivo le ruote con la paglietta finché le dita non mi diventavano blu, in inverno; lavavo parabrezza, controllavo pneumatici e osservavo andare e venire un numero sempre maggiore di vetture, mentre gli affari decollavano.

    Mio padre era un’enciclopedia dei motori: aveva un talento naturale per l’ingegneria, andava dritto al

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