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Lezioni di mare: Storie ed esperienze di vissuto che si fa racconto.
Lezioni di mare: Storie ed esperienze di vissuto che si fa racconto.
Lezioni di mare: Storie ed esperienze di vissuto che si fa racconto.
E-book197 pagine2 ore

Lezioni di mare: Storie ed esperienze di vissuto che si fa racconto.

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Info su questo ebook

Stupore, semplice stupore. Quando mi hanno chiesto di raccontare una storia di mare ed aiutare a raccoglierne altre sono rimasto stupito. Storie di mare? In mare è sempre tutta una storia, cosa vuoi raccontare? Che un giorno hai preso un temporale e hai rischiato di non tornare? Che un giorno ti sei preso una serie di sciacqui a causa del moto ondoso del momento, oppure che sei rimasto bloccato per qualche ora perché non c’era una bava di vento? Chi va per mare lo sa, sono cose che possono tranquillamente succedere. Proprio per quel “tranquillamente”, quando rientriamo in porto non lo raccontiamo, se non in poche battute agli amici più stretti. 
Poi è scattata una molla, se queste storie le raccontassimo non per noi ma per chi vuole provare a navigare o conoscere il mare? In questo libro sono raccolte esperienze di tanti tipi, esempi virtuosi di vissuti densi sul fronte peschereccio, sportivo, militare e anche umanistico, uno spettro ampio di conoscenza trasmessa in racconti in prima persona e un’introspezione psicologica tutta da condividere. Viaggi, partenze, porti, guasti, imprevisti, salvataggi, vittorie e sconfitte ci fanno rendere conto che amiamo il mare quasi in modo ancestrale. Conoscerlo può salvarci ed illuminarci la vita, fare la differenza e invitarci a esplorare parti di noi insospettabili, selvagge e potenti.  “Il mare ha sempre 20 anni…è sempre pieno di energia e pronto a scatenarla in qualsiasi momento.” (P.L. Cipolla)
LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2023
ISBN9791280990501
Lezioni di mare: Storie ed esperienze di vissuto che si fa racconto.

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    Anteprima del libro

    Lezioni di mare - Veronica Petrelli

    PREFAZIONE

    Siediti un momento, scegli un posto tranquillo dove restare per un po'.

    Il libro che hai tra le mani ha qualche messaggio per te, che sia una frase, una parola o un’immagine. Tanti narratori si sono raccolti intorno a un tavolo per raccontare qualcosa, storie legate al mare e a quegli infiniti orizzonti di cui siamo tutti cacciatori. Le memorie che leggerai vogliono tenerti compagnia e tornarti in mente nell’istante opportuno, quando penserai ad altro ma avrai bisogno di un riferimento che ti dia la direzione.

    Voglio ringraziare singolarmente ognuno degli autori a cui dedico la raccolta. Senza il loro contributo una certa ricchezza sarebbe rimasta nell’ombra, depositata sul fondo del cuore di marinai, pescatori, poeti, velisti, naviganti di ogni tipo.

    Scavando nelle sabbie dei loro ricordi sono emersi squarci di vita, non trascorsa con l’idea di tradursi un giorno in righe d’inchiostro ma che ritengo meritino invece una grande divulgazione, ad onore del valore culturale di cui la nostra storia è intrisa.

    Nostra, ovvero di noi fortunati abitanti sul mare…o di noi, di qualsiasi altrove, che il mare lo abbiamo dentro. Noi civitanovesi che ci riconosceremo in alcuni passaggi del testo ma anche noi tutti di ogni altro luogo in cui incontreremo queste pagine.

    Un doveroso ringraziamento va anche agli enti che con entusiasmo e impegno hanno accolto la sfida di mettersi in gioco e hanno creduto alla bellezza dell’intero progetto: Comune di Civitanova Marche, Unione diportistica civitanovese Il Madiere, Associazione Nazionale Marinai d’Italia.

    Buon vento!

    Veronica Petrelli

    IL MARE DÀ, IL MARE TOGLIE

    Francesco Caldaroni

    Nel 1996 uscimmo per una battuta di pesca di domenica. Il mio legno si chiamava Garibaldino e solitamente prendeva il largo assieme ad un’altra imbarcazione, la Nika .

    A circa trentacinque miglia dalla costa stavo provando un tipo innovativo di rete che in effetti non sembrava però dare grossi risultati.

    La sera, verso le nove, dovevamo decidere se portare il pescato a terra o rimanere in mare; noi del Garibaldino, vista la scarsità del prodotto raccolto, restammo per altre ventiquattro ore mente gli altri rientrarono.

    Durante le operazioni di cernita e pulizia del pesce comincio a sentire forte odore di gasolio, mi affaccio dal boccaporto e vedo un tubo che perdeva. Sono subito sceso a fermare il motore, poi ho tentato un aggiustamento alla meglio applicando una fascia isolante attorno alla falla per bloccare lo sversamento e sembrava tutto a posto.

    Terminate le mie mansioni mi aspettava un po' di riposo in cuccetta. A mio fratello, pronto a darmi il cambio, dissi di controllare ogni dieci minuti in basso la presenza di eventuali nuove perdite. Non feci in tempo a scendere in branda che mi venne a chiamare perché il deflusso aveva ripreso.

    In pochi secondi lo scenario cambiò completamente: raggiunsi la sala macchine e mentre tentavo di contenere il danno ad un tratto scoppiò un incendio che si sparse in tutto il vano, fulmineo davanti ai miei occhi.

    Un po' per la forza dell’esplosione e un po' per istinto, mi buttai all’indietro e afferrai l’estintore. La ventola di aspirazione stava alimentando ancora di più le fiamme attirandole verso l’alto finché arrivarono fino al serbatoio di riserva, la plastica del cui involucro cominciò a fondersi facendo colare carburante proprio sopra il nucleo dell’incendio.

    La situazione era di estrema gravità…eppure prima che un marinaio la ritenga spacciata deve davvero veder accadere di tutto.

    Riportavo già addosso inevitabilmente segni di ustione ma avevo in corpo la forza di uscire, prendere gli altri estintori presenti a disposizione e mettermi a sparare…e sperare.

    Il fuoco non voleva placarsi e il mio pensiero in quel frangente andò al marinaio nel vano inferiore, ormai quasi incosciente a causa del fumo che avvolgeva l’intera barca come una densa nube nera.

    Ricordo di averlo strattonato per svegliarlo dal torpore e una volta saliti sopra mi accorsi che era tramortito, spaventato. Buttai allora in mare la zattera di salvataggio e ce lo calai a forza, a bordo non si poteva più respirare quindi cercavo di mantenermi il più possibile a prua con mio fratello.

    Dal timone in plancia lanciai il primo di una serie di SOS e nel frattempo tentavo di sottrarre aria al fuoco chiudendo i portelloni; con noi viaggiava una pericolosa quantità di carburante.

    Risponde al nostro segnale di soccorso la Nuovo Libero, un’imbarcazione a circa dieci miglia di distanza, a quel punto mi spostai anche io sulla zattera dove avevamo tutta una sfilza di razzi di salvataggio: il primo fallì, il bengala funzionò. Sale a paracadute per poi riscendere come salice piangente dal cielo al mare con la sua luce rossa che illumina l’intero orizzonte, sembra un pianto elegante. Ancora di più lo sembrava in quel momento in cui in sottofondo sentivo piccole e grandi esplosioni provenire dal vano, scoppi di cortocircuito, e man mano cercavo di allontanarmi facendo forza sui remi. Avevo il cuore pesante, molto! Dovevo pensare a salvarci la vita…eppure vedere la mia barca in quello stato mi feriva. A volte basterebbe solo rassegnarsi alla propria impotenza.

    La zattera aveva passato il collaudo giusto da una settimana ma nel darci la spinta per allontanarci dallo scafo ci siamo resi conto che non ci muovevamo...e poco più tardi che pareva anche sgonfiarsi.

    Cosa era successo? Il suo involucro in plastica, nell’atto di aprirla per lanciarla in acqua, ne aveva tagliato la gomma. Tutto molto semplice e logico. No? Assurdo! Non sapevamo davvero se pregare o bestemmiare, a quale forza appellarci per non disperare e come restare lucidi. Eravamo a trentacinque miglia dalla terraferma, in mezzo al buio totale e andavamo a fondo.

    Come ho detto prima, però, per un marinaio la fine è solo quando si è morti, non prima! Finché c’è vita da salvare non ci si arresta, il coraggio si impossessa di noi e agisce per portarci lontano dal pericolo, in modi che non sappiamo.

    Avevo un kit di attrezzi e accessori per piccole riparazioni, provai quindi a tamponare lo squarcio con della colla, come un uomo che non si fa distrarre dallo scenario di fine che ha intorno e sotto ai piedi ma rivolge tutto il suo spirito all’unica chiave di salvezza possibile. Nervi saldi e concentrazione. Non mollare, nemmeno col cuore a pezzi.

    Dopo un paio d’ore arrivano a soccorrerci, saranno state le tre del mattino. La barca si avvicina e vede il nostro scafo agonizzante…ma non vede noi. Ancora mi commuovo nel richiamare questa scena alla mente, mi vedo lì come un miserabile, invisibile pescatore che con alta probabilità oggi avrebbe potuto non essere qui a raccontare.

    Sparo un altro razzo con una forza che temevo di non avere più in corpo e si accorgono della nostra presenza, ci tirano su verso il loro pontile e subito gli dico Datemi un estintore, portatemi a bordo della mia barca, vi prego!.

    Una richiesta fuori di senno alla quale ovviamente si opposero con intransigenza. Oggi mi rendo conto di come in quel momento fossi in preda a follia ma lì per lì l’istinto di conservazione per qualcosa di profondamente mio, quasi viscerale, ha prevalso senza ritegno.

    Dopo altro tempo vediamo arrivare la vedetta della finanza che mi carica a bordo…chiedo ancora un estintore per tentare un’ultima volta di spegnere l’incendio della mia Garibaldino ma ricevo un secco rifiuto anche da parte loro.

    Mi sentivo disperato e solo, non ero in pace sapendo di non aver tentato proprio tutto né ero disposto a vivere con un simile rimpianto.

    Quindi alzai la testa e con estrema fermezza e fierezza, d’un fiato, dissi: Io sono il capitano e l’armatore della mia barca, perciò io ti dico riportami subito lì, dammi l’estintore che hai e allontanati più che puoi da qua.

    Non volevo essere salvato, probabilmente. Non ero certo un ragazzino, perciò non poterono far altro che buttarmi letteralmente sul pontile del mio scafo. Un suicidio dichiarato.

    La mia audacia delirante fu in qualche modo assistita poiché nel frattempo giunsero in loco i pompieri che attivarono i loro potenti getti d’acqua su di me, fu un duello tra forze nemiche dalla violenza implacabile. Nel momento in cui stavo per aprire il portellone del vano motore non sapevo davvero cosa aspettarmi, per quanto fossi pronto a tutto.

    Mancandogli l’aria il fuoco lì s’era quasi spento, da fuori mi gridarono di aprire anche tutti gli altri scomparti per far penetrare diretti i getti d’acqua. D’un tratto un boato! Le fiamme riprendono ossigeno e con un volo mi trovo scaraventato a poppa.

    L’equipaggio della finanza mi esortava, sempre più incalzante, a tornare sulla loro barca ma io ero completamente sordo e riuscivo a parlare solo per chiedere un altro estintore.

    Alla fine, bene o male, a forza di insistenti e disperati tentativi, seppur coi miei limitati mezzi, ero riuscito a placare l’incendio…riportando sul corpo uno stato grave di bruciatura. Nel mentre ci aveva raggiunti il motopeschereccio Biondo che ci ha assistiti e supportati nelle manovre di rimorchio per riconsegnare il mio legno alla costa.

    Al mattino vediamo le rive di casa…non è facile descrivere lo stato d’animo di quel momento. L’aria sembrava fosca e il sole malato, avevo una pesante nausea addosso. Stavamo riportando alla sua terra un relitto, come un corpo caduto sul lavoro, ormai irrecuperabile. Ricordo mio padre in piedi sulla banchina, le mani in tasca, il mio stesso sguardo fiero e alto, pronto a guardare in faccia la disfatta ma indicibilmente grato di vedermi tornare. Abbracciarlo nel silenzio fu l’unica cosa di cui davvero avevo bisogno, in grado di asciugare le mie lacrime. Porto dentro quel momento come un eterno presente. Nella caduta, la mia forza.

    Il mare può essere un temibile nemico e fare paura.

    A causa di questo incidente persi l’imbarcazione e mi caricai di debiti. Sono dovuto ripartire da sottozero e forse molti altri ci avrebbero rinunciato, magari cambiando vita anche a seguito dello shock. Ho ricostruito tutto: me stesso, il lavoro, il mezzo, la mia vita e la capacità di guardare avanti, forte del passato ma senza rimanerne preda.

    Nel mio ricordo la percezione del tempo trascorso sulla zattera in aperto mare è falsata, furono un bel po' di ore ma mi sembra sia stato tutto così veloce che ho come dei vuoti di memoria. Forse anche un po' per proteggermi dallo spavento provato in quel momento che non potevo permettermi di assecondare, questione di vita o di morte.

    Ha vinto la vita.

    GLI INIZI

    Avevo tredici anni quando ho cominciato ad andare in mare, mio padre e mio nonno prima di me sono stati marinai e il lascito di valori legati a questa vita l’ho ricevuto molto presto, soprattutto perché papà è mancato giovane a causa di un brutto male.

    Sono dovuto crescere in fretta, sia come persona che all’interno delle mura domestiche, con mia madre e i miei tre fratelli.

    A volte ci sono occasioni che la vita ti presenta sottoforma di sfide e sciagure; non avrei imparato tutto quello che oggi mi arricchisce enormemente se non mi fossi trovato di frequente alle strette, in difficoltà, senza riferimenti su cui poter contare. È una cruda legge di vita.

    Quando abbiamo cominciato a lavorare come pescatori (io e i miei coetanei), al porto di Civitanova stanziavano circa ottanta barche, eravamo in tanti e tutti ce la passavamo piuttosto bene. Per chi aveva voglia di lavorare le opportunità di guadagno non mancavano e si collaborava in armonia, un aspetto che poi nel tempo si è andato perdendo.

    Oggi restano più o meno ventisei pescherecci, il che farebbe pensare a meno concorrenza e dunque più vantaggio economico, invece le spese da affrontare sono diventate insostenibili, lo dimostra il fatto che ogni volta che si aprono i termini per la richiesta di demolizione ci sono sempre più imbarcazioni in coda. Non si svolge più questa attività per una qualche soddisfazione o certezza economica, lo si fa per passione e null’altro. Ma siamo rimasti davvero in pochi.

    IL TRATTO TIPICO

    L’Adriatico l’ho girato quasi tutto e ho fatto amicizia con pescatori di altri paesi, con culture di porti differenti. È qualcosa di molto stimolante e dà un ritmo alla vita in mare che poi ti manca quando sei sulla terraferma. Ci si muove in una specie di mondo parallelo fatto di costumi, sapori, lingue che nella loro diversità richiamano un forte senso di appartenenza.

    È la natura dello scambio tipica dei marinai, una stretta di mano che sancisce l’incontro prima che ognuno segua la propria rotta, non senza aver condiviso un buon bicchiere per celebrare il momento presente, il dono di esserci, l’anima del commercio, la vita a largo di orizzonti tutti da esplorare.

    Ci sono dei modi di fare tipici del pescatore: dalla camminata al taglio caratteriale, spesso di poche parole ma essenziali, un certo pragmatismo.

    Si tratta di un lavoro in sostanza duro, rinomato come grezzo…è proprio questa rudezza che dai gesti si proietta ai comportamenti, ai volti segnati da solchi di fatica e tempra, agli occhi. Un marinaio lo riconosci dagli occhi.

    Quasi sempre è ignorante dal punto di vista

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