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E-book81 pagine1 ora

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Horror - romanzo breve (61 pagine) - Quattro racconti in cui l’orrore si mischia al mistero e al grottesco


In Arcanum potrete leggere quattro storie terrificanti che trattano della difficile esperienza di un naufrago dell’800, dell’incontro con il Signore dei Requiem, di una misteriosa seduta spiritica, e di una lettera di Edgar Allan Poe su una sua esperienza traumatica di gioventù.


Daniele Pisani, nato nel 1983, è ingegnere, scrittore e pittore. Finalista nel 2012 del Premio Tedeschi e nel 2017 del premio I sapori del Giallo di Langhirano, ha all’attivo più di venti e-book con Delos Digital di vario genere: horror, fantasy, thriller, thriller storico, viaggi, fantascienza, apocrifo sherlockiano. È coautore di Ramses il Figlio del Sole, quarto libro della saga Il romanzo dei faraoni, a firma del collettivo Valery Esperian, per Fanucci. Il racconto a esso collegato, intitolato Il sovrintendente, è apparso sui giornali La Sicilia e Il Cittadino. È presente sul n. 50 della Writers Magazine con il racconto breve di fantascienza Big Up. Il Giallo Mondadori Sherlock ha pubblicato in appendice al n.60 il suo racconto lungo Sherlock Holmes e l’indagine con Buffalo Bill e, sul n. 68, il suo romanzo Sherlock Holmes e il furto della Gioconda. Vive in provincia di Milano.

LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2020
ISBN9788825413403
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    Anteprima del libro

    Arcanum - Daniele Pisani

    9788825413113

    To-Ka-Nuh

    Messaggio rinvenuto in Sudafrica la mattina del 28 giugno 1994 dai coniugi Matthews (John e Nadine) all’interno di una vecchia bottiglia arenata sulla spiaggia di Clifton, una delle tante spiagge di Città del Capo.

    2 agosto 1827. Ho passato l’intera giornata di ieri in preda al panico. Ma oggi mi sento meglio e sono riuscito, finalmente, ad aprire la cassa di legno che mi ha salvato la vita. Aggrappato a essa, infatti, dopo il tremendo naufragio, ho raggiunto l’isolotto su cui mi trovo ora: una terra rocciosa, di forma circolare, non più larga di una trentina di iarde. La cassa, di proprietà del capitano, proveniente dalla stiva, era chiusa con un robusto lucchetto di metallo. Tentare di forzarlo, non disponendo di alcun arnese, sarebbe stata fatica inutile. Allora, constatandone il peso non eccessivo, mi sono risolto di praticare una spaccatura lungo la base. Il modo scelto è stato piuttosto rozzo, ne convengo, ma efficace: farla cadere a più riprese al suolo, in un punto particolare in cui un piccolo spuntone roccioso, assai aguzzo, avrebbe avuto la stessa funzione di un ariete. Fatta qualche prova, ho visto che l’espediente funzionava. Quindi ho insistito e, dopo decine di tentativi, picchiando sempre nello stesso punto, finalmente il legno ha ceduto e si è creato un foro. Mi sono fermato ansimante, per recuperare le forze. Poi, con le mani, ho cercato, meglio che potevo, di allargare l’apertura. È stato difficilissimo e nell’operazione mi sono tagliato. Ma, alla fine, ho creato una spaccatura larga a sufficienza da potere estrarre il contenuto. Ecco cos’ho trovato: carta, penna e calamaio, un cannocchiale, una bottiglia di Porto, un cavatappi, un sacchetto contenente dodici gallette, una mappa, un rosario, una Bibbia in edizione tascabile, una coperta di lana (che da sola occupava metà spazio e che ho tirato fuori a fatica), dieci fazzoletti, una bussola e una lente di ingrandimento. Inutile dire che è grazie al ritrovamento dell’occorrente per scrivere che mi è possibile vergare queste righe. La nave è affondata la notte del 31 luglio; quindi, siccome sono sicuro di essere stato vigile e cosciente per tutto il tempo, fino a quando, alle prime luci dell’alba, ho raggiunto l’isolotto, credo di non avere sbagliato, più sopra, a indicare come data il 2 agosto, considerando che ho passato tutta la giornata di ieri indeciso sul da farsi, vittima del più profondo e terribile sconforto.

    3 agosto 1827. Mi appresto a fare vita da naufrago, finché Dio vorrà. Ho paura, lo ammetto, ma, nonostante tutto, ho fiducia in me stesso e nella divina Provvidenza. E poi, la recente rilettura del Robinson Crusoe di Defoe, avvenuta quasi per caso, mi induce a pensare che il destino abbia sì voluto mettermi alla prova, facendomi incappare in questa disavventura, ma fornendomi anche gli strumenti per venirne fuori, tra cui quel romanzo, con funzione ispiratrice. Nei momenti di sconforto più nero, infatti, mi basta tornare con la mente a quello straordinario libro per attingere ottimismo e positività. Il clima è eccezionalmente mite e non so spiegarmene il motivo. Questo non è però l’unico fatto strano. A ovest, l’intero orizzonte è curiosamente occupato da un fitto e alquanto anomalo banco di nebbia, che preclude la vista e non accenna a diradarsi. In tutte le altre direzioni, invece, il mio sguardo può spaziare liberamente. Ho dormito bene stanotte, avvolto nella coperta di lana, sotto un angusto anfratto che ho scelto come mia dimora. Per ora non voglio pensare al cibo, nonostante la fame canina che mi attanaglia, perché altrimenti mi deprimo, e ciò non serve. Ho mangiato soltanto due delle dodici gallette trovate e, aperta la bottiglia di Porto, con il cavatappi, mi sono concesso due brevi sorsi. A questo punto, però, occorre fermarsi e fare un passo indietro. Devo presentarmi, e pure in breve raccontare le circostanze del mio naufragio. Mi chiamo John Eustace Campbell e sono un botanico. Sono salpato il 4 maggio dal porto di Southampton a bordo del brigantino Seahorse, diretto alle Galapagos, comandata dal capitano Sebastian Miller. La nostra avrebbe dovuto essere una missione esplorativa; mio compito, giunti a destinazione, quello di raccogliere campioni e catalogare nuove specie di piante e fiori. La navigazione è proceduta molto bene, a parte un paio di tempeste di lieve entità, fino alle coste del Sud America. Veleggiando sempre diretti a sud, abbiamo sostato due giorni a Rio de Janeiro; poi, da lì, abbiamo ripreso la via del mare carichi di provviste con l’intenzione di raggiungere l’Oceano Pacifico attraverso lo stretto di Magellano. Siccome di solito è considerata una rotta difficile, a causa del clima e della strettezza del passaggio tra le terre, eravamo pronti a giorni difficili. Ma la sventura si è abbattuta su di noi prima che ci accingessimo ad attraversarlo. Eravamo, infatti, già in vista del passaggio, quand’ecco che è scoppiata una terribile tempesta, che ha preso a sospingerci sempre più a est. Il capitano Miller ha pensato, a quel punto, di cercare riparo presso le vicine isole Falkland, dette anche isole Malvine. La nave rollava e beccheggiava spaventosamente in mezzo a onde spumeggianti alte come colline! Nonostante il cielo cupo, siamo riusciti a scorgere, al bagliore dei fulmini, dal lato di tribordo, i contorni delle suddette isole. La salvezza pareva vicina! Ma la direzione del vento è cambiata di colpo, così la nave è stata trascinata verso sud, per giorni, finché non è affondata, spezzandosi. Io mi trovavo, in quel momento, presso il castello di prua e sono stato sbalzato. Poco dopo, in acqua ho visto una cassa di legno che galleggiava; a essa mi sono avvinghiato con le braccia e con le gambe, disperatamente. E così sono rimasto, immobile. Dopo un paio d’ore circa, credo, la tempesta si è placata

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