L'isola del dottor Moreau
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Info su questo ebook
È stato pubblicato in italiano per la prima volta nel 1900 dalla Società Editrice Nazionale col titolo L'isola delle Bestie ed edito in seguito anche come L'isola del terrore e L'isola del Dr. Moreau.
Herbert George Wells
Herbert George Wells (meist abgekürzt H. G. Wells; * 21. September 1866 in Bromley; † 13. August 1946 in London) war ein englischer Schriftsteller und Pionier der Science-Fiction-Literatur. Wells, der auch Historiker und Soziologe war, schrieb u. a. Bücher mit Millionenauflage wie Die Geschichte unserer Welt. Er hatte seine größten Erfolge mit den beiden Science-Fiction-Romanen (von ihm selbst als „scientific romances“ bezeichnet) Der Krieg der Welten und Die Zeitmaschine. Wells ist in Deutschland vor allem für seine Science-Fiction-Bücher bekannt, hat aber auch zahlreiche realistische Romane verfasst, die im englischen Sprachraum nach wie vor populär sind.
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Anteprima del libro
L'isola del dottor Moreau - Herbert George Wells
L'isola del dottor Moreau
Introduzione
I. Nel dinghy della «Lady Vain»
II. L’uomo senza una meta
III. Lo strano volto
IV. Presso la battagliola della goletta
V. L’uomo che non sapeva dove andare
VI. I marinai dall’aspetto sinistro
VII. La porta chiusa
VIII. I gridi del puma
IX. Lo strano essere nella foresta
X. Le grida dell’uomo
XI. La caccia all’uomo
XII. I depositari della legge
XIII. A colloquio
XIV. La spiegazione del dottor Moreau
XV. L’isola e il popolo delle bestie
XVI. Il popolo delle bestie assaggia il sangue
XVII. Una catastrofe
XVIII. Il ritrovamento di Moreau
XIX. La «vacanza» di Montgomery
XX. Solo con gli uomini bestia
XXI. La regressione degli uomini bestia
XXII. L’uomo solo
Colophon
Introduzione
Il primo febbraio del 1887, la Lady Vain naufragò a seguito di una collisione con un relitto a 1° di latitudine sud e 107° di longitudine ovest.
Il cinque gennaio del 1888, ossia undici mesi e quattro giorni dopo, mio zio, Edward Prendick, un gentiluomo riservato, che si era certamente imbarcato sulla Lady Vain a Callao e che si supponeva annegato, fu recuperato, a 5° e 3’ di latitudine sud e 101° di longitudine ovest, con una piccola imbarcazione dal nome illeggibile, ma che presumibilmente era appartenuta alla goletta dispersa Ipecacuanha. Di sé egli fece un resoconto tanto strano da credere che fosse pazzo. Tempo dopo, sostenne di aver avuto un vuoto di memoria dal momento della sua fuga dalla Lady Vain. A quel tempo, il suo caso fu discusso dagli psicologi quale esempio curioso di lapsus causato da uno shock fisico e mentale. Il racconto seguente fu ritrovato tra le sue carte dal sottoscritto, suo nipote ed erede, senza alcuna esplicita richiesta di divulgazione.
L’unica isola di cui si conosca l’esistenza nella zona in cui mio zio fu recuperato è l’isola di Noble, un isolotto vulcanico e disabitato. Fu visitato nel 1891 dalla Real nave britannica Scorpion. Sbarcò un gruppo di marinai, ma non vi trovarono nulla di vivente eccetto certe curiose tignole bianche, maiali e conigli e alcuni ratti alquanto singolari. Così questa narrazione rimane senza conferma nel suo particolare più importante. Ciò detto, sembra non recare alcun danno rendere noto al pubblico questo racconto, a mio avviso, nel rispetto degli intenti di mio zio. Questo, almeno, torna a suo favore: mio zio scomparve a circa 5° di latitudine sud e 105° di longitudine est per poi riapparire nella stessa parte di oceano dopo un periodo di undici mesi. In qualche modo deve aver pur vissuto in questo arco di tempo. E pare che una goletta di nome Ipecacuanha comandata da un capitano ubriacone, John Davies, sia partita da Arica nel gennaio del 1887 con un puma e altri animali a bordo, che fosse ben nota a vari porti del sud del Pacifico e che infine, dopo aver toccato Bayna e diretta verso il suo destino ignoto, sia scomparsa da quei mari (con a bordo una notevole quantità di copra) nel dicembre del 1887. La data coincide perfettamente con il racconto di mio zio.
Charles Edward Prendick.
I. Nel dinghy della «Lady Vain»
Non ho certo la pretesa di aggiungere nulla a quanto è già stato scritto sul naufragio della Lady Vain. Come tutti sanno, entrò in collisione con un relitto, a dieci giorni dalla partenza da Callao. La lancia, con sette uomini dell’equipaggio, venne recuperata diciotto giorni dopo dalla cannoniera di Sua Maestà Myrtle e la storia delle loro terribili privazioni è ormai tanto conosciuta quanto il ben più tremendo caso della Medusa. A ciò che è già stato detto sulla Lady Vain devo però aggiungere un’altra vicenda non meno orribile e certo più strana. Fin qui si è creduto che i quattro uomini del dinghy fossero periti, ma non è esatto. Posseggo la prova migliore della mia asserzione: sono uno di loro.
Anzitutto, devo dire che non ci sono mai stati quattro uomini nel dinghy, erano soltanto tre. Constans, che fu «visto dal capitano saltare nel dinghy»¹, per fortuna nostra e per sua sventura non riuscì a raggiungerci. Si calò giù da un groviglio di funi sotto i sostegni del bompresso frantumato, mentre spiccava il salto il tallone gli si impigliò in una funicella e, per un attimo, rimase a penzoloni a testa in giù, poi cadde e andò a sbattere contro un bozzello o un pennone che galleggiava in acqua. Remammo verso di lui ma non tornò più a galla.
Dico per fortuna nostra non ci raggiunse; potrei quasi dire per fortuna sua, poiché avevamo con noi soltanto un barilotto d’acqua e alcune gallette rammollite, tanto l’allarme era stato improvviso e tanto impreparata era la nave a un eventuale disastro. Pensammo che le persone sulla lancia avessero più provviste di noi (anche se ora sembra il contrario) e tentammo di chiamarli. Non ci udirono e il giorno seguente, quando solo nel primo pomeriggio la pioggerellina si diradò, non potemmo sapere più niente di loro. Non potevamo alzarci per guardarci attorno a causa del beccheggio dell’imbarcazione. Degli altri due uomini scampati insieme a me, fino a quel momento, uno era Helmar, un passeggero come me e l’altro un marinaio di cui non conosco il nome, tozzo, robusto e balbuziente.
Per otto giorni interi, andammo alla deriva, affamati e, terminata la provvista d’acqua, tormentati da una sete insopportabile. Il secondo giorno, il mare a poco a poco si placò fino a raggiungere una calma vitrea. È del tutto impossibile, per un comune lettore, farsi un’idea esatta di quegli otto giorni. Per sua fortuna, non può appellarsi a nessun ricordo concreto per rendersene conto. Dopo il primo giorno parlavamo di rado e stavamo al nostro posto nell’imbarcazione a fissare l’orizzonte o a scrutare, con occhi sempre più scavati e patiti, la miseria e la sofferenza che si impadronivano pian piano dei nostri compagni. Il sole divenne spietato. Il quarto giorno l’acqua finì e già cominciavamo a pensare cose strane, comunicandole con gli occhi; ma solo il sesto giorno, mi pare, Helmar diede voce al pensiero che tutti noi avevamo avuto. Ricordo le nostre voci roche e flebili, tanto che dovevamo curvarci gli uni verso gli altri per poterci udire e risparmiare fiato. Mi opposi strenuamente, era meglio affondare la barca e perire tutti insieme divorati dagli squali che ci seguivano; ma quando Helmar disse che se la sua proposta fosse stata accettata avremmo avuto da bere, il marinaio fu con lui.
Tuttavia, non volli tirare a sorte e, quella notte, il marinaio confabulò a lungo con Helmar; io stavo a prua con il mio coltello a serramanico in pugno, benché dubiti di avere mai avuto la stoffa per battermi. La mattina aderii alla proposta di Helmar e gettammo una monetina per tentare la sorte. Toccò al marinaio, ma era il più forte tra noi, non volle saperne e aggredì Helmar a mani nude. Si avvinghiarono e lottarono e quasi si tirarono in piedi. Io strisciai lungo la barca verso di loro, con l’intenzione di aiutare Helmar afferrando una gamba al marinaio; ma egli incespicò per l’ondeggiamento dell’imbarcazione ed entrambi caddero sulla falchetta e ruzzolarono insieme in acqua. Affondarono come sassi. Ricordo di averne riso e di essermi chiesto il perché della risata. Quel riso mi aveva colto alla sprovvista, come se non fosse mio.
Stetti disteso su una delle traverse per non so quanto tempo, pensando che, se ne avessi avuta la forza, avrei bevuto l’acqua di mare per impazzire e morire in fretta. E pur stando là sdraiato, con non maggiore interesse di quello che avrei avuto se fosse stato un dipinto, vidi una vela avanzare verso di me sulla linea dell’orizzonte. Stavo di certo vagando con la mente ed eppure ricordo distintamente tutto quello che accadde. Ricordo di come la mia testa oscillava insieme alle onde e, all’orizzonte, la vela danzava su e giù; ma ricordo con altrettanta chiarezza di essere stato convinto di essere morto e di aver pensato che era proprio una presa in giro il fatto che arrivassero a recuperarmi in ritardo, e per così poco.
Per un lasso di tempo infinito, almeno così mi parve, rimasi steso con la testa sulla traversa, guardando la goletta (era una barchetta, attrezzata a goletta a prua e a poppa) emergere dal mare. Cominciò a procedere con ampie virate, controvento. Non mi sfiorò mai la mente di tentare di attirarne l’attenzione e non ricordo nulla con esattezza dal momento in cui ne scorsi il fianco fino al momento in cui mi ritrovai in una piccola cabina a poppa. Rammento, in modo vago e confuso, di essere stato tratto a bordo tramite la passerella e ricordo un viso grasso e rubicondo, pieno di lentiggini e contornato da una capigliatura rossa, che mi fissava dal parapetto. Ebbi anche la sconnessa impressione di vedere una faccia scura, con occhi straordinari, molto vicina alla mia; ma credetti fosse un incubo, finché non mi capitò di rivederla. Credo di ricordare che qualcosa mi fu versato tra i denti. E questo è tutto.
Daily News, 17 marzo 1887
II. L’uomo senza una meta
La cabina nella quale mi trovavo era angusta e piuttosto sciatta. Un uomo alquanto giovane dai capelli biondi, con baffi ispidi del colore della paglia e un labbro inferiore cascante, mi sedeva accanto tenendomi il polso. Per un minuto ci guardammo senza parlare. Aveva occhi grigi e acquosi, stranamente privi di espressione. Poi, proprio sopra la testa, udii un rumore, come di una branda di ferro che veniva trascinata, e il ringhio sordo e rabbioso di qualche grosso animale. Nello stesso istante l’uomo parlò. Ripeté la domanda:
«Come si sente ora?»
Credo di aver detto che mi sentivo benissimo. Non riuscivo a ricordare come fossi arrivato là. L’uomo sembrò leggermi nel pensiero, perché la voce mi mancava.
«È stato raccolto da una barca, sfinito dalla fame. Il nome scritto sulla nave era Lady Vain e c’erano macchie di sangue sul parapetto.»
Nello stesso istante, il mio sguardo si posò su una mia mano, così scarna da sembrare una sacca di pelle sporca con dentro qualche misero osso e mi tornò in mente tutta la faccenda della barca.
«Prenda un po’ di questo», disse porgendomi una porzione di qualcosa di scarlatto, ghiacciato.
Sapeva di sangue e mi fece recuperare un po’ le forze.
«Ha avuto la fortuna di essere recuperato da una nave con un medico a bordo», disse articolando le parole con esitazione, con un velo di blesità.
«Che nave è questa?», chiesi piano, con la voce arrochita dal lungo silenzio.
«È un piccolo veliero mercantile che fa rotta da Arica a Callao. All’inizio non ho domandato da dove venisse; dal paese dei pazzi, immagino. Io sono un passeggero e vengo da Arica. Quell’asino di proprietario è anche il capitano e si chiama Davies; ha perso il certificato, o qualcosa del genere. Avrà presente il tipo. Tra tutti quei dannati stupidi nomi, alla nave ha dato nome Ipecacuanha, anche se, quando c’è mare grosso e non spira vento, è un nome azzeccato.»
(Allora il rumore sopra la mia testa ricominciò, uno sbraitare simile a un ringhio, e una voce d’uomo. Poi un’altra voce che intimava a qualche «disgraziato idiota» di smetterla.)
«Era quasi morto», disse il mio interlocutore. «In effetti, ci è mancato un soffio. Ma adesso l’ho rimessa in sesto. Sente male al braccio? Sono le iniezioni. È stato incosciente per quasi trenta ore.»
Pensavo lentamente. Fui distratto dal latrato di numerosi cani.
«Potrei mangiare qualcosa di solido?», domandai.
«Grazie a me», disse, «il montone sta già bollendo.»
«Sì», dissi con sicurezza, «credo che lo mangerò volentieri.»
«Però», disse con esitazione passeggera, «sa che muoio dalla voglia di sapere come mai si trovava da solo su quella barca. Maledetto ululato!» Mi parve di scorgere un certo sospetto nel suo sguardo.
Uscì all’improvviso dalla cabina e lo udii discutere aspramente con qualcuno, che, nel rispondergli, mi sembrò parlare una lingua incomprensibile. Dal rumore, dedussi che la faccenda doveva essere finita con una rissa, ma pensai che forse le mie orecchie si fossero sbagliate. Poi egli urlò contro i cani e tornò nella cabina.
«Quindi?», disse dall’uscio. «Stava proprio per cominciare il suo racconto.»
Gli dissi il mio nome, Edward Prendick, e della mia passione per la storia naturale, interesse che avevo sviluppato in reazione alla monotonia della mia vita troppo comoda e agiata.
Sembrò interessarsi alla cosa. «Anch’io ho coltivato questa scienza. Ho seguito un corso di biologia all’University College, analizzando l’ovario dei lombrichi e la radula delle lumache e cose del genere. Dio mio! Son dieci anni fa, ormai. Ma continui, continui! Mi dica della barca.»
Era evidentemente soddisfatto dalla sincerità del mio racconto, che sviluppai con frasi piuttosto concise